Abbassare il volume per reimparare ad ascoltarsi ⥀ Alcune riflessioni su Rumore di fondo di Leila Falà Magnini

Leila Falà Magnini torna con la sua scrittura precisa e accurata nella raccolta di poesie Rumore di fondo (Puntoacapo, 2023)

 

Leggere Rumore di fondo di Leila Falà Magnini (Puntoacapo, 2023) è come ritrovarsi a tu per tu con un’amica, in un locale bolognese davanti a un calice di rosso o in una cucina accogliente a condividere un tè profumato di spezie, come quello di cui si parla nella poesia Solo affetti. «Ci sono cose che ci possono allontanare. Noi non le diciamo», recita l’incipit di questo componimento, ed è ciò che la poesia permette di fare: dire ciò che normalmente non diciamo. Per paura, per pudore o vergogna, per non ferire, come si legge in Notturno: «Ho raccontato tanto di me / non tutto. / Ho tralasciato quello che potrebbe ferire».

Con «indicibile» si intende di solito qualcosa di talmente grande, di talmente tragico, da non potersi comunicare a parole, ed è in questa accezione che l’aggettivo sostantivato viene usato nella poesia Organizzate le cartelle nel computer, in cui si ammette l’impossibilità di capire davvero quanto accade nel mondo, di interrompere la catastrofe. Ma è indicibile anche ciò che non può essere detto in virtù della sua complessità e vaghezza. Il nostro vivere, in definitiva. Il «puzzle», così lo chiama Leila, della nostra esistenza. Il nostro essere umani, la storia di ciascun individuo che si lega inestricabilmente alla Storia con la S maiuscola.

La storia individuale fatta di quelle «minuzie» che peraltro davano il titolo alla penultima silloge dell’autrice, ovvero le inezie, i dettagli insignificanti su cui il nostro sguardo normalmente trascorre senza nulla trattenere. Minuzie come il tappetino in bagno che raccoglie una delusione in turchese. Come la finestra che sbatte nella stanza dell’uomo morto in solitudine, fermata poi dai vicini per interromperne il rumore. Come il posto rimasto vuoto accanto a uno spettatore a teatro. Come la dolcezza del sole che entra nella casa al mattino o della luna intravista dalla finestra prima di dormire.

«Minuzie», sostantivo da cui deriva l’aggettivo «minuzioso», vale a dire «accurato, diligente, scrupoloso, attento». Attento come lo sguardo di Leila sulla realtà, sulle cose, sulle persone. Uno sguardo sempre teso a cogliere «il molto che si sospende tra la superficie e il fondo». Senza presunzione di esattezza, o di esaustività, senza la pretesa di comunicare chissà quale verità.

Di questi tempi la poesia riflette spesso su sé stessa, non di rado con arroganza o con falsa modestia. Due atteggiamenti che non si incontrano mai in queste pagine, dove tuttavia l’autrice si interroga a più riprese sulla sua scrittura. E lo fa con un’umiltà tutt’altro che affettata: rivendica uno stile “basso”, un sermo humilis, che ha però il merito di parlare a tutti, di attingere a quella universalità cui ci si riferisce in Con una aggiunta («Perché qualcuno dovrebbe poter essere interessato / a leggere di queste cose / mie, di me. Di questo buco mio / che sta qui con me, leggerlo come un universo»).

«Resta bassa», scrive Leila della sua poesia, «non sale in alto / resta accanto». E c’è tanto calore in questa parola: «accanto». Accanto a sé, al sé da cui è nata, ma anche accanto a noi che leggiamo. Che possiamo riconoscerci nei versi, che ci sentiamo a nostra volta spinti a dubitare, a interrogarci, a interrogare la realtà. A metterci in cammino seguendo le «molliche di senso» che Leila gioca a lanciarsi con il proprio io. Un io che non si fa il minimo scrupolo a emergere, a dichiarare che queste parole sono sue, che è di sé che sta parlando alla prima persona singolare. Un guanto di sfida.

Sfida che si fa ancora più irriverente in Non una poesia, una delle tante prove di umorismo che si ritrovano nel libro (si vedano i gustosi giochi di parole in Langue o in Post o la sfilza di verbi scioglilingua di Declinazione connettiva o ancora lo humour nero di Tutto bene). «Questa non è una poesia / Non ne possiede il ritmo / l’afflato di immenso» sono i versi incipitari di un brillante manifesto di poetica. E non si tratta di finta umiltà: «afflato di immenso» è certo un’espressione sarcastica mentre il ritmo, costruito su rime posizionate con cura, assonanze, ripetizioni, allitterazioni, sulla misura perfettamente calibrata dei versi, c’è eccome. Leila non si scusa affatto per l’accessibilità della sua scrittura, la sua affezione alla quotidianità, come esplicita la strepitosa punch line con il riferimento magrittiano. Ed è evidente il lavoro che si cela dietro l’apparente semplicità del dettato.

Chi, come me, la conosce oltre le pagine dei suoi libri, sa bene quanta attenzione dedichi alla lettura e allo studio della poesia, e quanto sia disponibile a confrontarsi con altri autori e a mettersi costantemente in discussione. E non a caso, Leila Falà Magnini non è un’autrice prolifica: si prende il tempo necessario per curare al meglio ogni sua pubblicazione. Il suo linguaggio ha il merito di poter essere apprezzato da chi non legge abitualmente poesia mentre chi invece la frequenta assiduamente non può non riconoscerne la perizia, non constatare come la scelta di ogni singola parola sia attentamente, lungamente ponderata. Ogni cosa è esattamente al suo posto, e non si cade mai nella tentazione del superfluo. Questa scrittura è un lavoro, appunto, «minuzioso», uno stile affinatosi con gli anni in una propria coerenza e riconoscibilità.

È una scrittura «sottovoce», fatta di «sillabe affettuose come cura interminabile», per citare la poesia intitolata appunto Sottovoce contenuta nel libro già citato Mobili e altre minuzie (Dars, 2015). Una scrittura lieve, che vince il rischio di essere scambiata per “rumore di fondo” riuscendo a scovare ciò che si cela nei «risvolti» delle nostre vite ordinarie, ovvero «abissi differenti / sorrisi artigianali nel bordo a fondo campo, slanci / paure e affetti unici, speciali».

«Sorrisi artigianali», sinceri, ben diversi da quelli sfoggiati alla resa dei conti ogni Natale, dove persone pressoché estranee attingono al proprio repertorio di domande di rito e frasi fatte per colmare il silenzio, per riempire il vuoto (parola che ricorre 29 volte, come annota Maria Luisa Vezzali nell’approfondita postfazione). Queste, sì, rumore di fondo che impedisce di ascoltarsi davvero. Come il chiacchiericcio dei social, le parole che cadono a pioggia scrollando le pagine come fa la bimba forse due-treenne della poesia Troncamento. «Quando ognuno dice qualcosa, si deve nuovamente abbassare il volume / per tornare a un ascolto accurato / per tenere da conto le orecchie / trattenere quanto hanno captato», si legge in Meno volume.

In questo tempo in cui si tende a sovrastarsi, in cui le dinamiche social (qui ampiamente problematizzate) ci indirizzano verso la ricerca di conferme e del plauso della platea virtuale piuttosto che verso la messa in discussione e dunque l’evolversi del nostro pensiero, è necessario più che mai ritrovare l’intimità di un dialogo a mezza voce. Senza timore di aprirsi e con la disponibilità all’ascolto, tra le pagine di un libro come questo o a tu per tu con una persona amica, in un locale tranquillo e fascinoso, come quello da film noir ritratto nella bella immagine di copertina di Andrea Santonastaso.

(Francesca Del Moro)

 

 

Seriali

Le nostre vite ordinarie
stessi mobili e uguali cibi
naturalmente bio
stessi colori di stagione
stessi social, poche opinioni.
Nei risvolti, abissi differenti
sorrisi artigianali
nel bordo a fondo campo, slanci
paure e affetti unici, speciali.

 

Veramente

Viveva riservato praticamente solo
salutando cordialmente che
magari un giorno entra e prendiamo un tè.
Di lui si sapeva poco
aveva un bar poi venduto
problemi a una gamba per qualche vecchia ferita.
Acciacchi normali lo occupavano così.

Quando morì assolutamente solo
se ne accorsero i vicini da una finestra che sbatteva.
Entrarono, i vicini
entrarono, gli estranei.
Lui giaceva riservato
nel lago sfrontato del suo sangue.
Entrarono a scoprire il corpo
educati. Intrusi pieni di pietà.

Lo trovarono riverso sul pavimento
la finestra che sbatteva ancora.
Un malore, una malattia, una pipì notturna.
Era da solo.
Continuava col vento il suo rumoroso movimento
la finestra. Così i vicini andarono a fermarla.

Vennero per lui i poliziotti
l’ambulanza, il magistrato
e nel frattempo estranei seppero
dove era nato, che pareva avesse un figlio
dopo il divorzio mai venuto.

Le sue cose erano lì a porta spalancata, esposte.
Il carabiniere al telefono elencava i suoi fatti
vicino al pianerottolo.

Dalle scale chi passava vedeva la sua cucina
così intima, ora aperta, spalancata,
il pudore della vita personale condivisa.
Ho visto tutto anche io
ma non so chi fosse veramente lui.

Eravamo lì, in una vita estranea
congiunti in una morte. Una.

 

Non una poesia

Questa non è una poesia.
Non ne possiede il ritmo
l’afflato di immenso
il distonico accorato dissenso
la scoperta di come strida
ogni cosa odierna eppure
incautamente si condivida.

Non contiene alcuna verità o principio
e naturalmente neanche una fine.

Men che meno sarà un mezzo
quindi        non       è       giustificata

Non è che fumo di finzione
eppure non è del tutto un gioco.
A volte appare un senso, ma sfuma
dopo poco e non trattiene
è ovvio, l’oggetto da cui si originava.

Infatti questa non è una poesia.
E non è

neanche una pipa.

 

Davvero

Eppure nella casa entra il sole, al mattino
e la notte distesa scorgo dal letto
la luna – quando è piena.

A volte – non so come – questo davvero mi basta.