Adriano Padua e Federico Scaramuccia: partizioni e partiture ⥀ Rilettura di Lorenzo Mari

Lorenzo Mari riflette su due opere di Adriano Padua e Federico Scaramuccia per il loro peculiare intervento nella scrittura poetica verso la prosa e nella pratica performativa

Se ci sono due testi, tra gli altri, che per me si impongono alla rilettura ancora oggi, questi sono Schema (Parti del poema) di Adriano Padua (d’if, 2012) e Canto del rivolgimento (1995-2015) (Oèdipus, 2016) di Federico Scaramuccia. Ritornano, a distanza di anni, per il loro peculiare intervento in due ambiti – la scrittura poetica che si può provvisoriamente definire “in direzione della prosa” e la scrittura per la pratica performativa – a porsi come eventuale, ma sicuramente feconda, intersezione tra il paradigma installativo e quello performativo, così come sono stati proposti da Paolo Giovannetti in Poesia italiana degli anni Duemila (Carocci, 2017).

Partendo, in questo improvvisato e purtroppo impressionistico itinerario, da Schema, sembra opportuno arrivare alla fine di questo scarno, scarnificato, e comunque essenziale libro, per ricavare un primo spunto di riflessione dalla Nota al testo: in questi brevi appunti, Padua afferma di avere intrapreso la ricerca di una «sintesi tra sperimentalismo e tradizione lirica, che renda possibile il superamento di una distinzione oramai inutile. Schema nasce anche dal confronto irrinunciabile con le opere e le parole di Giuliano Mesa, Gabriele Frasca, Lello Voce, Nanni Balestrini, Guido Mazzoni, Andrea Raos, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Ivan Schiavone, Fabio Orecchini».

Tralasciando, per il momento, il fatto che queste conversazioni e questi confronti non trovano nemmeno una voce femminile di riferimento, sembra opportuno sottolineare la grande diversità poetica rappresentata da questo elenco, nel quale, ad esempio, convivono autori di Prosa in prosa (Sossella, 2009) ed esponenti della scena più spiccatamente performativa. È possibile registrare il loro dialogo all’interno della stessa scrittura/partitura – il binomio non è casuale, visto il sottotitolo di Schema, e cioè Parti del poema, che non allude solo alla partizione del libro, ma il suo essere partitura per l’esecuzione – di Adriano Padua: emerge, infatti, una pluralità di voci che non testimoniano soltanto un raggiunto consenso (un dato che il lettore di poesia scarsamente avvezzo a circoli e circoletti può benissimo trascurare), ma anche, e forse soprattutto, un dinamismo interno che risulta, in ultima istanza, estraneo ai vincoli del genere della “poesia in direzione della prosa” (per usare ancora una volta una categoria labilissima e suscettibile di molte ulteriori articolazioni).

In ogni caso, non si rintracciano i languori esistenziali ancora rintracciabili nel poème en prose praticato nell’ambito della post-lirica contemporanea – dei quali resta buon esempio, tra gli altri, il Libretto di transito (Amos, 2018) di Franca Mancinelli – né la costruzione di testi in prosa, superati per ampiezza e impatto dalla recente esplosione di letteratura new weird – con l’eccezione di testi come Quando arrivarono gli alieni di Gherardo Bortolotti, ora disponibile nella trilogia Low (Tic, 2020), ad anticipare, destrutturare e successivamente a ristrutturare determinate marche di genere. La «poesia in direzione della prosa» di Padua si propone come un’interessante anomalia, facendo ricorso ad almeno due elementi che entrano in apparente conflitto con gli stessi principi della prosa poetica, ovvero una struttura metrico-ritmica ben definita e, d’altro canto, la scelta di un registro linguistico ricco di astrazioni, ma che non si arresta all’esposizione della tautologia o, per altri versi, della cosiddetta “letteralità”.

Quello che propone Padua, a tutti gli effetti, è uno schema che solo in apparenza funge da traccia preparatoria per le diverse parti del poema: Schema è diviso in quattro sezioni, comprensive di quattro prose ciascuna, intitolate del vuoto, del segno, del sentire e ultime. La «preparazione», però, è già avvenuta in precedenza, dato che già nella precedente opera di Adriano Padua, Alfabeto provvisorio delle cose (Arcipelago Edizioni, 2008), si possono leggere versi come i seguenti:

«lo stato di cose / ridursi interiore e ripetere / il momento in effetti seguito / sconosciuto ed intanto / nel complesso indicarne lo schema / l’intervallo di tempo / le barriere / e il disordine scritto / collegati / sulla pelle e alle forme / costruendo un difetto di spazio».

Già in questa occasione, dunque, lo schema è legato a un «intervallo di tempo» che si intuisce funzionale alla dimensione performativa e al tempo stesso alla corporalità della «pelle» e alla struttura delle «forme», in un «difetto di spazio» costruito, e non antecedente alla scrittura, che rende la funzionalità architetturale dello schema intrinsecamente monca, ambigua, o comunque bisognosa di ulteriore ri-flessione (come movimento continuo dell’in-flessione e dell’estro-flessione).

Di conseguenza, il libro si apre con la parte zero del poema, dalla prosa numero 1, nella quale «la gioia non può essere di piombo, il contesto attuale è il contrario del cielo svelato, e ci stringono intorno le insonnie» – secondo rapide annotazioni descrittive, esistenziali ma senz’alcun languore, che continueranno a fare capolino nella produzione successiva di Padua, sottolineando il contrasto con la dimensione violenta dell’esistenza socialmente definita. Sempre nella prosa numero 1, del resto si legge: «L’economia è presenza, sembra un qualunque dio, non ha forme né schemi, sono cose irreali, è violenta».

Ecco allora che «le prospettive vanno ribaltate. In mezzo alle rovine» (prosa 10), ma subito segue la precisazione del poeta, chiamato in causa perché direttamente coinvolte nel conflitto: «Non ho versi». Non è solo una deficienza soggettiva (quella che si ritrova, ad esempio, nella prosa 11: «Non posso fare niente, sono io»); si è anche posti di fronte al fatto che «davanti alla diversità di ogni singolo, immobili, ci neghiamo la parte soggetto, parlando degli stati delle cose, siamo falsi» (prosa 6) e dunque

«l’analisi è che diventa tutto uguale, che prima o poi si spegne, la cenere si mescola alla polvere» (prosa 13).

Il difetto d’analisi diventa difetto della poesia – all’interno di un processo che denuncia, con la secchezza di termini astratti e al tempo stesso inequivocabilmente precisi, una condizione spesso soltanto lambita da altri autori contemporanei, siano essi più o meno marxisantes (per un eccesso di falsa coscienza) oppure più o meno nichilisti (in questo caso, per un eccesso di conformismo) – giustificando la memorabile posizione già assunta nella prosa 2: «Ignoti, sia noi che le fiamme, sia detto per stare anche fuori dal campo poesia. Nella parte iniziale del caso». La parte finale sarà, invece, espressa compiutamente e coerentemente nell’ultima prosa, numero 16: «e la parte finale è nel bianco, non qui».

Ne consegue che quella che si produce in Schema, in buona sostanza, è una scoperta tanto etica e politica quanto meta-poetica (sia nel senso della «prosa/poesia sulla prosa/poesia» sia in quello di ciò che sta al di fuori, oltre il campo pre-definito di questo genere/non-genere) e che conduce ad un ulteriore passo o rivolgimento, proponendo quindi uno schema che è tanto ambiguo e monco quanto anche vivo e dinamico: «Qualcosa ci percorre, siamo strade» (prosa 12) giunge, infatti, a completare una prima esplorazione, contenuta nella prosa 5 («Alle estremità l’animale e la strada, l’arredamento invece è dentro, ci circonda, con i giochi riusciti»), con un più ampio twist topologico e topografico, che tornerà poi nella produzione successiva di Padua, ad offrire, tra l’altro, una prospettiva diversa da quella oculo-centrica, spesso intrinsecamente ideologica e mortifera, che affligge tanta altra poesia italiana (prosa 14: «Sono stanco ma sto ancora qui, nella parte del potere, a vedere”). È nel farsi strada (come anche nel “farsi-animale» deleuziano, secondo l’altra proposta in nuce che ci offre lo Schema di Padua) che si possono trovare nuove partizioni e partiture, ed ecco allora che «ovunque è la parte del suono» (prosa 12) e ancora, più chiaramente, «il metodo è la parte della lingua» (prosa 7).

Ad un simile rivolgimento, come controparte di una sintesi dialettica ancora mancante, e forse a-venire, sul piano della storia, è intitolato anche il libro del 2016 di Federico Scaramuccia. In una delle letture più approfondite e complete che ha ricevuto il libro di Scaramuccia, Gabriele Belletti ha parlato di almeno quattro diversi tipi di rivolgimento: «rivolgimento come ribaltamento del male»; «rivolgimento come rivolgersi al lettore»; «rivolgimento della struttura linguistico-formale»; «rivolgimento come ri-voltare, ridare volto umano».

Rimandando alla lettura di Belletti per un approfondimento di queste categorie, è opportuno sottolineare come, anche in questo caso, la mossa etica e politica – il ri-volgimento come base di una più ampia rivolta – si unisca alla strategia meta-letteraria – il ri-volgimento del verso, principalmente attuato attraverso le frequenti note in calce, a testimoniare (con un’attitudine orientata più verso l’installazione, in un testo che peraltro ha notevolissime qualità performative) le varie versioni, esistite nonché ancora possibili e futuribili, del testo. Esercizio solo in apparenza auto-filologico, consente anche alla parola di moltiplicare il proprio effetto d’eco – eco che aggiunge, anziché imitare o sottrarre (come suggerisce John Hollander in uno studio di fondamentale importanza a questo proposito, The Figure of Echo, del 1981, ripreso recentemente anche qui, in questo importante saggio sull’opera di tutt’altra autrice, Vanessa Place).

Oltre a conferire una particolare risonanza al dettato poetico di Scaramuccia, questo dettaglio può imprimere un ulteriore twist alla lettura di Belletti, per la quale – com’è sicuramente opportuno rilevare –

«l’io del Canto pare piuttosto composto da una voce che si vuole collettiva, una sorta di noi-rapsodo che tenta di tramandare il suo dire ai suoi simili. È la voce di una creatura che, pur vivendo insieme al lettore, non meno umana di lui, rea quanto lui di prendere parte all’umano deviato, sceglie di spargersi in un noi e di spargere gabbie-trappole per il male. Esse sono composte da una struttura formale fitta e preparata per creare una forma di ribellione, di rivolgimento appunto, al male stesso».

Le gabbie, o trappole, formali – ripetute e variate per effetto d’eco – sembrano infatti recuperare la funzione di Eco già individuata da Francis Bacon in De dignitate et augmentis scientiarum: una voce, ancora verginale, che conserva e restituisce il mondo, dando parola a ciò che fino a quel punto è rimasto inarticolato – un altro nome, insomma, per la “filosofia”, la quale, per Bacone, non deve aggiungere nulla di proprio alla verità del mondo. Aggiungendovi altre parole poetiche, e riparando in qualche modo alla loro altrimenti inevitabile cancellazione nel corso delle diverse stesure dello stesso testo, Scaramuccia non aggiunge niente di suo, ma si limita a moltiplicare quelle gabbie-trappole formali che consentono il rivolgimento contro il male.

Quest’ultimo tende, invece, a comprimere la realtà – semplificandola fino a neutralizzarla, o ad azzerarla – come si legge in uno dei testi più esemplificativi del libro, qui riportato per intero: «correndo ai ripari le parti / lavorano a tempra gli insorti / in fabbrica dove si lima / perché la realtà si comprima / fin quando compatta in comparti / lasciando posare nel vortice / indotto facendo dei torti / la quota che adesso concima / del blocco minuto di scarti» (p. 51).

Recuperare la «quota […] del blocco minuto di scarti” quando la realtà è compattata “in comparti” non è altro che un’operazione – squisitamente filologica, questa! – di rintracciamento delle partes extra partes nella sua declinazione più strettamente corporale e non già estetica. Come scrive Jean-Luc Nancy negli Indizi sul corpo:

«Il sentire del corpo, sempre esposto, è tale nel tocco che lambisce la pelle dell’altro, nell’esperienza dell’andar fuori, nel tono di chi si dispone all’avventura senza prevedere il ritorno presso di sé. Sentirsi scosso, affetto o alterato, provare commozione: sentire il corpo nell’extra partes e nel cum dell’ex-sistere, percepirlo in una comunione emotiva che non rinvia ad alcuna interiorità senziente ma ad un costitutivo Mit-da-Sein. La comunicazione tra anima e corpo commuove l’estensione ed estende l’emozione, in una simultaneità che determina la totalità del mondo e produce un senso che coincide con l’esistenza stessa qui partage hors de soi».

Nella partitura corporale e nella partizione del sensibile, Padua e Scaramuccia indicano ancora lo schema e il rivolgimento di tanta poesia presente e futura.

 

Da Schema (Parti del poema) di Adriano Padua:

2. Ignoti, sia noi che le fiamme, sia detto per stare anche fuori dal campo poesia. Nella parte iniziale del caso. Creatura insondabile taci lucente e terrena, sono consecutive le cose, quasi sempre, non solo. Il muro si schiera da primo confine. I nostri due futuri sono luoghi avvelenati, la senti la musica dei tasti, la magia, gli obiettivi imprecisi ma posti ugualmente, la rabbia decorativa che intossica, i pensieri nuovamente come indosso, le mosse senza enfasi perfette delle ore, i gesti operati a comporre le notti sbranate dai gesti contrari, l’agire di linguaggi e piani, la pioggia interminabile. Forse quello che vedo, forse, non è vero.

12. Guardavano sparirsi, dalla stessa finestra, e l’animale parla, non ragiona. Ovunque è la parte del suono, si chiudono sportelli, e vibrano i congegni. Essere e non vivere, con le aperture ermetiche dei pazzi, disorientando la conversazione, e l’ordine perfetto. L’aria deve ricevere ferite, noi perdere abitudine. Ancora, girano serrature, nell’eco si sofistica la notte, i modi sono tanti, della ripetizione. Qualcosa ci percorre, siamo strade.

14. Sono stanco ma sto ancora qui, nella parte del potere, a vedere. Resti ferma, nuovamente, parli a mente, muovi solo le mani, e le cose ci interrogano, mantenendosi in esposizione. Non possiamo dormire, li dobbiamo schivare i proiettili, o disincagliarci dal corpo, ma comunque proteggerci. Le parole sui tetti, pavimenti che oscillano, tutto torna se stesso, al suo posto incantato. Fammi uscire, con lo sguardo, dalla porta degli occhi.

 

Da Canto del rivolgimento (1955-2016) di Federico Scaramuccia:

 

raccolgano le mani quel che occorre
perché sia l’abito di donne e uomini
nessuno che si sfama mai dei beni

la dama dai seni
strabici ed aspri domina
sui guardiani di ogni torre

 

vv. 1-6 raccoglieranno quel che piove osanna
perché sia l’abito di donne e uomini
nessuno che si sfama mai dei beni

la dama dai seni
strabici ed aspri domina
sui solchi a cove di manna

*

invocano un cristo a querela
i popoli aperti al serraglio
marciandovi al grido di osanna
la pace che vogliono affanna
respira a fatica congela
è il mondo che geme in travaglio
fremendo sotterra per sbaglio
che in fiore alla fine si danna
crescendo quel tanto che inciela

*

il boia un po’ troppo agitato
lamenta che è già da parecchio
che aspetta dall’alto il comando
un altro qualunque allo sbando
che spreca anche l’ultimo fiato
gridandogli dentro l’orecchio
di colpo poi piega sul secchio
perdendo la testa allorquando
capisce che è lui il condannato
 

vv. 1-9 Il rompicapo del boia.
v. 1 agitato] animato
v. 3 che attende dal capo il comando
v. 8 «perde la testa chi non cambia il capo / non cambia il capo chi perde la testa» (Adespoto).