Alessandro Ceccherini racconta la fotografia di Laudisia Colonnelli | Mixis #4
Fra trame sovrapposte e trasparenze dell’incubo, quarto appuntamento con Mixis.
Restituire con occhio lucido e voce (in)esatta la polvere delle ombre e l’intreccio mostruoso dei rami urbani è il risultato dell’incrocio cronotopico fra la fotografia di Laudisa Colonnelli e il racconto di Alessandro Ceccherini. Congelare l’attimo per farne abitazione di un dolore insaziabile.
IL MOSTRO
Lo senti, l’odore della terra umida. Senti i latrati dei cani che hanno sbranato tua madre e tuo fratello e che poi ti hanno inseguito fino a farti lanciare nel vuoto del dirupo. Apri gli occhi per cancellare il terrore. Vedi le piante, le foglie che annuiscono piano, la luce di un sole giallo e guasto. Sei ancora vivo, lo senti. Non basta. Sei qui, ancora. Ruoti su un lato e alzi il busto appoggiandoti al gomito. La piazzetta col pozzo centrale, il cortile interno del piccolo borgo medievale, il posto in cui preferiva venire quando uscivate. Era nei giorni autunnali e infrasettimanali, quando c’erano poche persone, che era più bello. Ricordi che da piccolo avevi un castello Lego, e che ci hai giocato per così tanto tempo e con così grande sforzo immaginativo che è forse per quello che anche a te è sempre piaciuto venire lì, qui. Non ti senti respirare. Chiudi gli occhi. Vedi le pupille tutte nere di tua madre ancora viva mentre gli strappano la carne e i cacciatori che si avvicinano ridendo. Senti due vetri strusciare uno sull’altro dietro gli orecchi, dentro la testa. Lo stridio si fa più acuto. Apri gli occhi. Una bambina col vestito rosa e la treccia mora sta correndo. La vedi appena perché scompare subito dietro l’angolo della piazzetta. Sei già in piedi. Raggiungi l’angolo del cortile e ti sporgi sul vicolo. Non c’è. Ti scrocchia il collo nel girarlo a sinistra. C’è il negozio di gadget sotto il porticato. Entri. C’è la commessa. Guardi bene in giro tra gli espositori. Non la trovi. C’è un vecchio telefono in mezzo a delle bacchette magiche di Harry Potter. Guardi la commessa. «Scusi», dici. Il telefono squilla e ti interrompe. La commessa non si muove. «Si?», domanda. Alzi un dito a indicare il suono, lo fai come per dire “non lo senti, il telefono?”. Lei sembra spiazzata e un po’ preoccupata. Non lo sente. Ti avvicini al vecchio telefono nero con la corona di numeri metallizzata sul davanti. Squilla come squillava il telefono verde di tua nonna. Afferri la cornetta, la posi sull’orecchio. Lo senti sospirare. Alzi la testa, scruti tutto intorno cercando non sai cosa. Lo senti ansimare per l’emozione. C’è la commessa che prova a comunicare con te. La saliva ti si è disidrata in bocca ed è diventata calce. Lo senti ridacchiare. Vuoi parlare, vuoi chiedergli dov’è. Apri la bocca ma non esce niente. «Mi scusi, dovrebbe lasciare quel telefono». Cerchi di parlare, vuoi parlare. Non ci riesci. Stai per piangere, lo senti. «Perché?», riesci a domandare con le vene del collo gonfie. «Ma come perché? Perché il telefono non è suo». Ridacchia ancora. «Chi sei? Fatti vedere», dici. Non risponde. «Sei qui, vero? Sei vicino?» Hai parlato coi denti inchiavardati, sbuffando dalle labbra; stringi così forte la cornetta che non senti più le dita. Riattacca. Guardi la commessa. È tornata dietro al banco, ha il cellulare all’orecchio; lo abbassa, ti guarda, sorride nervosa. La faccia, la sua faccia, è composta da sabbia sottilissima che si muove appena, vibra. Apre la bocca e dal labbro inferiore la sabbia inizia a colare come il flusso di una clessidra. Molli la cornetta, esci, corri in mezzo al vicolo e d’improvviso ti senti le gambe, stanche e molli. Non ce la fai a correre. Caracolli fino al ponte levatoio. Cadi in ginocchio sul legno umido, senti l’acqua scorrere sotto di te. Respiri a fondo, senti i polmoni bruciare. C’è un suono cupo, un rombo; sale dal basso, da sotto la terra. Sale fino a esplodere invadendo la superficie, e allora tutto inizia a tremare. Alzi la testa. Il cielo è una superficie piatta di metallo, la parete interna di un cubo d’acciaio. Guardi a destra, oltre il salice, sull’altra sponda del Po. I palazzi vengono giù in enormi calcinacci o si liquefanno in rivoli bianchi che scorrono sulle facciate fino alla strada. Gli edifici sembrano distruggersi eppure non perdono la loro forma. A dieci metri da te, sulla sinistra, uno squarcio apre una fessura sconnessa nel terreno; ne emergono cavi elettrici che non dovrebbero arrotolarsi e palpitare nell’aria come vermi in calore. Il frastuono cessa. Accanto a te c’è la bambina. È poco avanti a te, tre quarti di schiena, le intravedi il profilo del naso. Ti allunga una mano. La afferri. Ti alzi. Lei fa un passo e si ferma. Tu fai un passo. Lei si muove in avanti. La segui. Con quella coda e la gonnellina che svolazza ti ricorda Dorothy Gale. E tu chi sei? Non l’Uomo di latta, il cuore ce l’hai. Anche il coraggio. Forse il cervello, quello ti manca, perché non c’hai capito un cazzo. Sei lo Spaventapasseri. Lei avanza con un moto uniforme, come se sfilasse su rotaie. Ogni volta che dimezzi la distanza tra voi, lei ha allungato di un altro po’. «Non preoccuparti», dice, e la sua voce sembra arrivarti da dietro. «Ci sono io qui, tu non lasciarmi la mano. Non guardare giù, sull’argine del fiume, il grande salice iridato da un unico raggio di sole». Ti fermi, ti volti verso destra, le lasci la mano. Vedi le foglie dell’enorme albero che brillano cadendo fino a terra, e il singolo ed esclusivo fascio di luce che lo travolge da sud. L’albero ha una forma strana, per niente compatta; è pieno di rami sporgenti e insenature che la luce compone in ombre nette. Ti volti. La bambina si è allontanata. «Non andare», sussurra, «vieni via con me, via da tutto questo». Scendi giù per il prato. Le gambe tremano a ogni passo. Siamo alla fine, resta poca linfa. Non sai come, prosegui restando in piedi. Passi in mezzo a due alberi giovani, bassi, larghi, con le foglie ingiallite e rossastre, e i rami intricati in forme definite e contorte, da bonsai. Li superi. Il salice è a pochi metri da te, lo vedi bene: un naso sporgente, due occhi corrucciati, un sorriso sghembo. Le gambe non ci sono più. Cadi in ginocchio, poi giù, a sedere. «Chi sei». Gli occhi si chiudono e si aprono sempre più lentamente. Ripeti la frase cercando di accentuarne l’aspetto interrogativo. Non sei certo di esserci riuscito. Apri bene gli occhi per guardare meglio quella faccia sbagliata e ci provi ancora. Il raggio di luce scompare di colpo e la faccia con lui. Davanti a te il verde profondo, e ora immobile, del salice. Stai sudando, sei fradicio. Gli occhi ti bruciano, li chiudi, respiri con la bocca. Una risata isterica: l’hai sentita, soffocata nel ventre vegetale. Apri gli occhi, non dici niente, non respiri. C’è un ronzio. Sei in piedi. L’albero si avvicina sempre di più. Per un istante è l’intero orizzonte. Laceri le fronde, ti liberi delle funi, prorompi negli intestini; gli sbatti contro, lo afferri alle spalle, gli blocchi le braccia, lo trascini; è più alto di te, ha le spalle più grosse di te, ma non è forte quanto te; non emette un suono, non sbuffa, non puoi vedergli la faccia. Gli occhi ti bruciano. Li stringi forte e ti tuffi. Il gelo dell’acqua lo senti appena. Attraverso le palpebre filtrano i riflessi del mondo che si allontana. Senti i muscoli delle braccia tesi come i becchi di una pinza che stringono senza scampo. Tu sei il perno attraverso cui si applica la forza. Trattieni il fiato. Non morirai prima di lui. Tu sei la zavorra che lo trascinerà tra le alghe. Il cibo degli antichi egizi è ancora lì, è solo diventato minerale.