La risata del condannato a morte ⥀ Su Confessioni di una coppia scambista al figlio morente di Alessandro Gori

Ridere della morte non per esorcizzarla, ma per mettere in mostra il dramma umano. Continua in Confessioni di una coppia scambista al figlio morente il rispecchiamento orrorifico dell’universo attuato da Alessandro Gori, per Rizzoli Lizard

 

 

A marzo è uscito, per Rizzoli Lizard, Confessioni di una coppia scambista al figlio morente di Alessandro Gori, raccolta di racconti – o «antologia», come indicato nella quarta di copertina – che si pone in continuità con il libro precedente, Jocelyn uccide ancora, uscito per Minimum fax, primo libro nella grande editoria. Per chi non lo conoscesse, Gori è il creatore di una pagina Facebook (ancor prima di un blog) che fino a poco tempo fa si chiamava Lo Sgargabonzi, da sempre seguito da una nicchia fedelissima fatta anche di critici e di scrittori, tra cui Claudio Giunta, che, definendolo «il migliore scrittore comico italiano» su Internazionale, lo ha portato all’attenzione del grande pubblico. Leggendo sia Jocelyn uccide ancora (d’ora in poi solo Jocelyn) che Confessioni di una coppia scambista al figlio morente  (d’ora in poi solo Confessioni) si ha l’impressione di fare zapping su una tv dell’orrore, in un universo fatto di macchine inutili generate unicamente per provocare dolore e disperazione a sé stesse e agli altri – Lo Sgargabonzi è una carta di Jacovitti e rappresenta proprio questo, una macchina inutile. La scrittura di Gori è portata al non-sense e ha il gusto del pastiche dadaista, tendente al comico; non un tipo di comicità che «sdrammatizza», ma una «che drammatizza la condizione umana», che è per l’autore il «modo per celebrare la vulnerabilità dell’Uomo dinnanzi all’orrore della Natura», una risata «che mette la lente sul nostro dolore irrisolvibile, sui nostri genitori che si sfasciano davanti ai nostri occhi. La risata isterica del condannato a morte», una comicità che è «come giocare violentemente con un simulacro della vita per sentire il rumore che si fa quando si spezza».

Nonostante tutto, come già scritto, Confessioni è un libro che tende al comico, più esplicitamente al black humor.  Non è detto che i racconti che leggeremo di Gori ci faranno ridere, anzi, molti dei racconti che leggeremo non ci faranno ridere per niente, proprio perché non vogliono far ridere, anche perché Gori, come sotto ai layers tiene a ribadire, è uno scrittore ancor prima che uno scrittore comico. Di questo anche io sono convinto, e lo considero un narratore puro, uno scrittore nato nella nuova oralità di internet, diventato narratore orale quasi per caso, come tanti altri scrittori e poeti orali dei nostri giorni, che ha poi sentito il bisogno di fissare le sue scritture su delle pagine di carta e ha fatto dei libri – i primi due prima del 2015 con la casa editrice Fuorionda, di cui due scritti a quattro mani con Gianluca Cincinelli, che in Confessioni torna come co-autore in Engaso 4000, Domenica bestiale, Una faccia pulita e Le palline dei campioni. Gli ultimi due libri di Gori sono infatti composti in buona parte da racconti già pubblicati su altre riviste e piattaforme, o anche racconti nati proprio per le serate “Lo Sgargabonzi live”. La grande capacità dell’autore sta nel riuscire a montare e sistematizzare questi racconti, magari già ascoltati o già letti, in modo che finalmente abbiano una loro collocazione nella poetica generale, poiché come vedremo le varie simmetrie riescono anche a influenzare e condizionare il senso dei racconti che troviamo intorno, in modo che alla fine il lettore abbia una idea chiara del mondo visto da Gori. A rimarcare questa concezione orale della scrittura, come lo stesso Gori fa notare, i suoi due ultimi libri sono composti da tante tracce proprio come degli album musicali – alcuni brani sono addirittura dei testi musicali, a cui l’autore aggiunge delle parti e li trasforma in dei racconti.

Come già detto, la risata che si ricerca è quella di chi sa che morirà, che tutto scomparirà; non è qualcosa da cui si scappa con un rito collettivo, non c’è nulla nella scrittura di Gori di consolatorio, nemmeno la condivisione di un destino comune a tutti. Quello che resta dietro al non-sense applicato alla tragedia è solo la disperazione umana. Non c’è mai l’accettazione della morte, né tantomeno la sua celebrazione. Chiusi i suoi libri, usciti dagli spettacoli, non possiamo che sentirci peggio. In entrambi i libri c’è un racconto completamente dedicato al trapasso. Ci sono due immagini che tornano, quella della costruzione dell’«Oltremorte, da qua» in Jocelyn e quella dell’«aldilà, da qua» in Confessioni.  In Jocelyn, il lettore si trova in un futuro imprecisato con un narratore in prima persona, che a un certo punto si scopre essere Daniele Bossari, il quale racconta di come l’umanità nel tempo si fosse infine ingegnata e avesse costruito un «Oltremorte», per non morire più:

Non bisognava rallentare la morte, non bisognava renderla dignitosa o cazzate simili, ma semplicemente scavalcarla. E soprattutto non si doveva perdere tempo a migliorare la ricerca medica inseguendo risultati tutti ipotetici. L’uomo avrebbe dovuto dare la morte per scontata e pensare soltanto a inventarsi un salvacondotto dopo di essa. In pratica, mettere in piedi un solido Oltremorte, da qua. Visto che non ce l’avevano dato, avrebbe dovuto ingegnarsi l’uomo a costruirlo.

E infine il racconto si chiude con quella sensibilità che per tutto il libro sembrava essere assente (pensiamo a Il sogno perfetto (1)):

Non posso neanche immaginare cosa doveva essere veder morire i propri genitori. Salutarli per l’ultima volta in ospedale, avere la percezione di registrare l’ultima immagine di loro prima di voltare l’angolo. E chissà cos’era per loro registrare la nostra. E la vita eterna poterla solo sognare. Pensare che gli uomini per accettare di scomparire per sempre erano arrivati a doversi convincere che la morte rendesse bella la vita. Che forse era giusto così. E doversi continuamente confrontare, anche per le minime stronzate, con la parola fine. Poveretti quegli uomini, la sfortuna che hanno avuto.

Ecco, «pensare che gli uomini […] erano arrivati a doversi convincere che la morte rendesse bella la vita» è la chiave di tutto il libro, ridere di questa retorica della bellezza della vita in contrapposizione alla morte, a questa sorte comune, che proprio perché condivisa dovrebbe almeno rallegrarci. I «poveretti» sono quegli uomini che vivono il nostro presente, sempre alla presa con la morte, come per tutto il libro.

In Confessioni, invece, in Veleno per topi, con un tono differente, non c’è speranza che l’Aldilà possa essere costruito da qua, e, caduta l’illusione, non restano che i beni materiali, la vita di qua – nel mondo di Gori tutto diventa merce, ma anche questo in contrapposizione alla morte, perché solo i brand resistono: «i marchi sono gli unici che non ci hanno tradito rispetto ai nostri anni verdi. Mentre abbiamo visto i nostri cari sfasciarsi sotto i nostri occhi, lo Stecco Ducale Sammontana ha lo stesso gusto che aveva nell’88»:

E se mi dicevano che l’Aldilà non esisteva, io avrei pensato che da lì a che ero vecchio si sarebbero organizzati per costruirlo da qua. Non avrebbero più permesso che si sparisse così. Mi sarei aggrappato impaurito alla manica di mio babbo e gli avrei chiesto se la Banca Popolare dell’Etruria avrebbe potuto fare qualcosa. D’altronde la banca a Natale dava cinquantamila lire agli impiegati per un regalo ai figli. Mio babbo mi portava da Bobini Giocattoli. Ricordo il mio primo gioco da tavolo: Doctor! Doctor! Il secondo? Brivido. Il terzo? Topo Trap.

Se in Jocelyn erano gli interludi dedicati a David Bowie a scandire i vari racconti, in Confessioni è uno scambio di email tra «Franco Locatelli, Primario di Oncoematologia Pediatrica all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma» e «Ana Matronic, leader del gruppo musicale Scissor Sisters», con interferenze dell’«epidemiologo Rezza», a scandire il progredire dei racconti. Come già detto, la grande capacità di Gori è quella di riuscire a creare continui rimandi e simmetrie tra brani, che messi insieme formano un muro di mattoncini, i quali visti da lontano acquistano maggiore senso e ampliano le possibilità comiche. I personaggi sono ricorrenti e ricorsivi, e proprio sul loro ricomparire, sul loro gonfiarsi e sgonfiarsi, sul loro morire e uccidere, sulla loro violenza e sulla loro gravosa corporeità si fonda l’architettura dei racconti che compongono entrambi i libri. Libri diversi ma simili, poiché alla base c’è la sensazione che l’autore sia sempre lì, «crassamente a guazzo nel percolato che racconta». Rispetto a Jocelyn, in Confessioni compare il personaggio Gori scrittore, che è «uno scrittore minimum fax», «un intellettuale» che si dà le arie. Ad esempio, nel racconto Bannato!, il narratore racconta di quando la sua pagina Facebook Lo Sgargabonzi subì il ban di Facebook. Ecco ad esempio cosa fa modestamente l’autore dopo aver accettato che non riceverà indietro la pagina prima di un mese:

Per distrarmi e dimostrare a me stesso che valgo ancora qualcosa scrivo per «Internazionale» un pezzo bellissimo, nostalgico, su una gita nei boschi della Val di Chiana che feci alle elementari, ma il direttore Giovanni De Mauro mi cazzia perché non era il momento, vogliono un pezzo dove faccio ridere, «dove fai ghignare, zio», magari sul fatto del ban.

Il narratore sovraccarica anche il suo linguaggio, così la pagina Facebook, osannata tra l’altro dal già citato Giunta proprio su Internazionale, viene descritta come «un’ambiziosa e complessa scultura brutalista quotata milioni» plasmata «con gli stecchini».

Creo una pagina di sicurezza, Lo Sgargabonzi’s Bunker, con l’illusione di farci confluire tutto il mio pubblico. Purtroppo se ne accorgono in quattro gatti. In compenso scopro che c’è chi sapendo del ban ne ha aperta un’altra, The Real Sgargabonzi, spacciandosi per me e facendo dieci volte i miei contatti. Ci leggo status tipo: «Alfredino Rampi è pazzo». Ecco quello che resta del mio stile una volta masticato dai wannabe. Mi vergogno di me stesso e mi chiedo cosa ho creato.

Lo stesso autore che poche pagine prima aveva inserito proprio un pezzo su Alfredino Rampi, simbolo anche della prima tragedia in diretta tv, che in questo caso riceve delle lettere da imprenditori che gli chiedono consigli di vita, e lui che risponde sfacciatamente, simulando la parlata caricaturale di un bambino. Però, non c’è solo lo scrittore rockstar, il già citato racconto Veleno per topi è sicuramente narrato dal Gori autore tramite il Gori personaggio. Chi legge Gori sa quante volte sia intervenuto, anche con pezzi seri, sulle questioni riguardanti la satira, la comicità e il black humor. Anche in Confessioni ci sono due racconti che trattano esplicitamente della comicità. Il primo è Trattatello definitivo sul bodyshaming, racconto che si pone idealmente in continuità con il pezzo più crudo e cattivo del libro, ovvero 20 curiosità sui malati terminali.  Nel pezzo siamo, come in altri casi, in spiaggia, che sappiamo essere, senza che venga detto, Milano Marittima. A un certo punto un uomo sconosciuto, sulla «sessantaduina, fisicato, abbronzatura d’ordinanza e rasato a zero alla moda di Yul Brynner» lo sfida a ping pong, ma il narratore non ha assolutamente voglia di giocare:

Ed ecco che sta per essere sancita la differenza fra me e tutti gli altri comici mondiali. Un altro avrebbe risposto: «No…», per poi sfiorarsi la pancia e aggiungere sghignazzando, «come avrà intuito!» Io mi limito a rispondere con un secco: «No».

Così, dopo il rifiuto secco del comico, l’uomo fa capire di aver compreso che quello che aveva individuato come suo sfidante, in realtà, è poco prestante, poco atletico. Così il Gori-narratore, ferito a morte per l’offesa ricevuta sul suo fisico:

E qui la seconda differenza fra me e tutti gli altri comici al mondo. Un altro ci avrebbe riso sopra, impugnato la racchetta, perso con ironia, poi lo avrebbe invitato a un proprio spettacolo e prima di salutarsi si sarebbero seccati due belle birrette fresche al bar dello stabilimento. A me invece se avessero detto: domani in hotel vi svegliate entrambi vivi o le donne delle pulizie vi rinvengono entrambi cadaveri, pur essendo attaccato alla vita come manco l’ultimo Fogar ospite a Tappeto volante, avrei pagato di tasca mia perché si realizzasse la seconda.

Per poi chiudere con il finale comico, immaginando una tortura che metta in ridicolo la dignità di quell’uomo, ma che al contempo fa il verso alla voce giustizialista, che è un altro dei temi di Gori prediletti di Gori, che come il Palazzeschi dell’Incendiario tende a stare dalla parte del colpevole o presunto tale:

E pure ora che mentre digito sul cellulare questo trattatello sul bodyshaming ad usum delphini ce l’ho nell’ombrellone accanto, non mi farebbe disdoro che penetrasse in spiaggia uno squadrone terroristico di al-Qaida o addirittura il Copasir stesso, che si dirigessero svelti dall’omarino e con un calcio nelle reni lo buttassero in ginocchio per poi chiedergli: «Ti decapitiamo, ma prima ti torturiamo. Se vuoi che ti vengano risparmiate almeno le torture devi imitare i Fichi d’India». E subito l’omarino, pieno di dignità, con la sciabola sotto la gola e il collo teso e massiccio come Chechi gli ha insegnato: «Tichitì! Tichitì!»

L’altro pezzo completamente dedicato alla comicità è Non chiamateci comici, che racconta di un viaggio in treno di Gori con Edoardo Ferrario, Valerio Lundini e Stefano Andreoli, direzione «Forte dei Marmi, invitati per una master class al Festival della Satira» in cui succede, come al solito, tutto l’impensabile. Il racconto è di fatto un attacco passivo-aggressivo alla satira, o meglio contro la “missione” che dovrebbe avere la satira. Fin da subito, infatti, i quattro comici in viaggio vengono raccontati dal narratore come se fossero degli eroi e dei salvatori, che per tutto il viaggio fanno battute e giochi di parole non così eccezionali.

Un ragazzino mi riconosce, viene da me blocconote dotato, per un autografo. E mentre mi porge la biro mi dice con fare trafelato: «Sgarga… ma tu eri un grande, tiravi fuori freddure e giochi di parole da scompisciarsi… ma come ti venne in mente quel giorno di buttarti a fare satira?!» Gli rispondo con poche parole: «Molto semplice, amico: perché mi ero rotto il cazzo». Ed è vero, mi ero rotto il cazzo di come andavano le cose in questo Paese. Di come avevamo pensato di poter cambiare il mondo e non eravamo riusciti a cambiare neanche dopobarba. E forse mi ero rotto il cazzo anche di me stesso.

E ancora:

Mi riconoscono altri due ragazzi, i giovani wannabe Tommaso Faoro e Pietro Casella, che mi chiedono info sull’Officina. Sarebbe il laboratorio in cui io e Giorgio Montanini (de)formiamo questi imberbi chierichetti della satira, li facciamo lavorare di stomaco, gli insegniamo a tenere botta. Perché la satira altro non è che sputarsi in faccia, dire «tu fai schifo» e soprattutto «io faccio schifo».

Quella che Gori fornisce al lettore è una totale mimesi del mondo passato in un tritacarne, che scompone i ruoli e mette le parole degli uni nella bocca degli altri, inverte i registri e crea dei simulacri orridi, permeati dal «dolcissimo oblio di morte», intimamente legati a una serie di concetti, tic, nevrosi dell’autore che è sempre lì a scrutare i suoi mondi – non universi senza un senso abbiamo detto, ma universi sovraccaricati che si sgonfiano come palloncini non annodati per divenire parte normalizzata di questo universo specchiato in uno specchio deformante del reale. Non c’è nulla che non venga messo nella macchina raffinatrice del linguaggio di Gori: non solo i vip, gli abitanti dell’Olimpo della nostra società, ma anche la lingua del mainstream come quella delle nicchie presenti e passate, delle scritture orali di internet, ma anche i miti e i tabù condivisi dagli italiani, a loro volta filtrati dai media. Matteo Marchesini, che ha tra l’altro partecipato alla difesa di Gori nel processo per diffamazione portato avanti da Piera Maggio, ha scritto che il tipo di satira di Gori non ha la classica formula satira = tragedia più tempo, ma satira = tragedia più media. Come ha sottolineato Claudio Giunta nella sua ultima recensione, Gori ha la «la fantasia del favolista, però contaminata da tutte le parole, gli oggetti, i marchi, i personaggi che ci riempiono l’esistenza da quando la distanza tra noi e il mondo si è prima accorciata, con la TV, e poi azzerata con la rete».

Quella di Gori è inoltre un tipo di comicità meta-letteraria, che gode nel parodiare ogni forma di scrittura esistente,  nel trasformare generi spensierati come la barzelletta in una tragedia, nel far diventare gli elenchi di curiosità (“Non tutti sanno che”, “20 curiosità su”) e i tutorial in scritti che negano la loro funzione, rendendo le curiosità palesemente false e i tutorial inutilmente macchinosi.

Oltre alle tante parodie dei vari registri linguistici, In Confessioni troviamo anche dei racconti puri, comici, che non hanno nulla di meta-letterario. Sono particolarmente divertenti quelli scritti a quattro mani con Gianluca Cincinelli, che compare anche come cameo nel racconto Autogestione horror. Vale la pena soffermarsi un attimo su Gianluca Cincinelli, con cui Gori aveva già scritto due libri – Bolbo e Il problema purtroppo del precariato – e che pochi mesi fa ha debuttato da solista con la raccolta La variante Manfredonia, nella collana curata da Gori, Lo Sgargabonzi presenta, per la casa editrice Visiogeist. Vale la pena soffermarsi, dicevo, perché considero La variante Manfredonia una parte del puzzle di questo intricatissimo universo difettato goriano; anche in questo libro troviamo parodie di altre forme letterarie e degli interludi, che in questo caso sono degli acrostici demenziali. Come in Confessioni, anche nella Variante Manfredonia sono presenti diversi racconti a tema sportivo, come quelli presenti in Confessioni che riguardano Federer, alcuni con protagonista lo stesso autore che si fa personaggio, altri appunto con tennisti famosi, come Novak Djokovic. Il libro per alcuni versi, come anche la prefazione di Gori suggerisce tra le righe, potrebbe essere assimilato a un romanzo di formazione, ma la struttura di questo percorso è circolare, segue strade che portano sempre al fallimento senza presa di coscienza, così che questo percorso di formazione che il protagonista porta avanti, alla fine, sia da intendersi come un percorso sbagliato o irrisolto. Nel libro il protagonista Cincinelli racconta infatti le cattiverie compiute nella sua vita, mostrandosi come un odiatore totale senza rispetto per niente e per nessuno, un vero e proprio misantropo in cui si fa fatica a scorgere la benché minima umanità. Uno dei racconti migliori del libro è dedicato alla bocciatura dell’autore, che avviene anche a causa di una sospensione scolastica scaturita da un vortice di scommesse sempre più ardite, proposte dallo stesso Gori, a cui Cincinelli di volta in volta si lancia:

Alessandro Gori era un falso buono, sempre pronto a pararsi il culo. Io un ribelle alternativo che, nel dubbio, odiava, rigorosamente scambiato per un tranquillone da centro sociale solamente perché vestivo casual.

Ma Gori compare molte altre volte nel libro, con le stesse ossessioni di cui è solito parlare, ovvero fumetti e giochi da tavola. L’impressione che ho avuto leggendo La variante Manfredonia, che contiene alcuni racconti ottimi, è quella di un un ponte verso Confessioni, nel quale il Gori autore inizia a mostrarsi di più, o meglio, a far scorgere più visibilmente le lacrime sulle gote di quel fanciullo che s’impossessa di Gori quando inserisce le carni nel tritacarne che è la sua penna. Proprio, in quest’ottica, il finale di Confessioni è inaspettatamente un pezzo completamente serio, con nulla di comico, che sembra quasi espiare tutta la violenza letta fino a quel momento, poeticamente dedicato ai letti, dove l’essere umano passa l’intera vita e, infine, muore:

Letti dove la mente s’ammalò prima del corpo. E su quei letti ci fermammo, un giovedì qualunque, per accorgerci che era solo passata la vita.
E sotto neon accecanti sognammo un’ultima volta la beffa dei nostri genitori giovani, dell’alba sull’Adriatico, di un luna park deserto per noi e il nostro amore bambino. Dove perdersi, ritrovarsi, lasciarsi mai più. Furono i letti dove crepammo, mentre fuori scoppiava l’estate, arresi e soli come soltanto su questa terra si può essere. Ma lo facemmo in silenzio, senza sporcare.

 

 


1) Lo considero uno dei migliori racconti che Gori abbia mai scritto, dove l’io narrante racconta di aver esaudito il grande sogno del padre, costato tanta fatica, ovvero rendere suo figlio felice, con una vita agiata. Peccato che il sogno del figlio si scopre – con un repentino cambio di narrazione – quello di essere riuscito a distruggere in modo definitivo e per sempre il giornalismo – tanto odiato a causa dell’uso gratuito che fa della cancelleria. Come? Usando uno stratagemma complicatissimo e scabroso che ha a che fare per l’appunto con suo padre malato di Alzheimer che, senza entrare nei dettagli, viene rinchiuso nudo in un labirinto di specchi insieme a un coccodrillo gigante cieco. Un racconto non-sense di facciata, esemplare per spiegare la scrittura di Gori, che mira a intricare le storie fino all’incomprensibilità, sfruttando e riproponendo inconsuetamente i modi di parlare e di pensare della gente comune. L’andamento del Sogno perfetto è orrorifico, il personaggio narrante ha la freddezza e la spietatezza del serial killer, tant’è che nel finale si masturba pensando al padre malato sbranato da un alligatore. Infine, null’altro è questo pezzo che il racconto di un uomo che sfrutta una frustrazione pubblica, l’odio per la “categoria dei giornalisti”, per giustificare l’odio apparentemente immotivato, per come raccontato, per suo padre.