Alessandro Leogrande ⥀ Fisionomia di uno scrittore
Pubblichiamo un intervento di Angelo Ferracuti* dedicato ad Alessandro Leogrande, e alla sua intensa attività civile di scrittore e di uomo
Nella dedica alla mia copia del libro La frontiera, Alessandro aveva scritto: «Ad Angelo, con l’affetto di sempre, e la condivisione di sempre». C’è stata negli anni, quasi senza dircelo, davvero una condivisione profonda, perché mi ha fatto sempre sentire meno solo il fatto che lui ci fosse.
Abbiamo condiviso molte cose, noi due. Intanto la passione per il reportage, al quale entrambi abbiamo contribuito a ridare vita, nella sua accezione più civile e in senso classico; l’amore per Kapuściński, Orwell, autori che una volta lui ha definito «maestri di posizione nei confronti del mondo». Proprio di Orwell varrebbero per Alessandro le quattro regole che lo scrittore inglese si era dato per scrivere i suoi libri: la curiosità umana, il risultato estetico, l’impulso storico e lo scopo politico.
Continuavamo a illuderci che si potesse scrivere come Steinbeck scriveva della Grande depressione americana; come Jack London in mezzo ai poveri di Londra, con i quali si mimetizzava, dove era andato a raccontare «Il popolo degli abissi»; i nostri modelli erano quelli novecenteschi, i grandi reportage di Norman Lewis, quelli di Gore Vidal. Ci piacevano Truman Capote, Joan Didion, Emmanuel Carrère, ci piaceva essere scrittori dal vero come erano fotografi dal vero i fotografi dell’agenzia Magnum, come Robert Capa; non a caso entrambi abbiamo amato moltissimo Mario Dondero, una leggenda del fotogiornalismo e maestro della fotografia sociale, una specie di angelo della storia come diceva di lui lo scrittore Francesco Biamonti, citando Benjamin: amavamo il suo stile errabondo e la onnivora curiosità per le storie delle persone dentro la commedia umana e soprattutto la Storia. Eravamo convinti che attraverso il reportage si potesse rompere e ricomporre la realtà in maniera diversa, cucire insieme pezzi sconnessi, intrecciare elementi apparentemente distanti, magari in maniera ossessiva e visionaria, come facevano una volta gli scrittori cosiddetti civili, come facevano Pasolini e Sciascia, un modo di raccontare fortemente critico e politico, civile e letterario insieme, mai ideologico ma interrogativo e dialettico.
Chi scrive reportage è abituato a cambiare punto di vista, a essere corretto dagli avvenimenti sul campo, dagli incontri, anche quando quel punto di vista non lo condivide, o lo pensava lontanissimo dall’idea che si era fatto di quella realtà. Ogni libro di reportage è un libro vivente, cambia pelle tante volte, è anche la forma di scrittura più democratica di tutte perché comunque è un’esperienza collettiva fatta dai molti, una forma di cittadinanza attiva diametralmente opposta a quella autoritaria del narratore onnisciente della finzione che tiene sotto controllo e decide tutto il destino delle storie e dei personaggi, di chi inventa mondi. Nel reportage, invece, molto spesso chi scrive sposa il destino delle persone che incontra e racconta, ed è cambiato da loro in itinere, lungo il percorso della gestazione.
«Proprio di Orwell varrebbero per Alessandro le quattro regole che lo scrittore inglese si era dato per scrivere i suoi libri: la curiosità umana, il risultato estetico, l’impulso storico e lo scopo politico».
Con Alessandro ho condiviso una postura, un modo di porsi, e un uso della scrittura e della letteratura mai autoreferenziale, un atteggiamento che riscopriva il Noi, i grandi fatti collettivi, quelli che, da sempre, dovrebbero muovere l’interesse degli scrittori. Alessandro Leogrande non si anteponeva mai ai contenuti dei suoi libri, non aveva nessuna vanità, considerava il suo lavoro critico della realtà una missione, un dovere morale da svolgere; e ci metteva dentro tutta la sua passione emotiva, civile, ma soprattutto tutto il suo sapere, l’immaginazione sociologica, di cui era un maestro, la conoscenza dei contesti, l’ossessiva perizia tecnica nella cura delle fonti, orali o scritte.
Abbiamo condiviso anche la militanza sui giornali e sulle riviste, l’illusione che ancora si potesse fare quello che una volta era chiamato lavoro culturale, in particolare Leogrande su «Lo Straniero» o sul Fuoribordo di «Pagina99», che dirigeva, per il quale mi aveva chiesto alcuni reportage, uno dei quali sullo scrittore operaio Luigi Di Ruscio, una figura che lo aveva sempre affascinato molto. Insieme abbiamo rifondato il Sindacato scrittori e, molto probabilmente, siamo stati negli ultimi anni gli autori più vicini al sindacato di sinistra italiano, la CGIL, soprattutto per i temi che trattavamo, tutti legati tra di loro e centrali nel racconto dell’epoca: il lavoro, i diritti negati, l’immigrazione, per lui naturalmente i sud del mondo, la frontiera spesso invisibile che separa l’occidente ricco dai dannati della terra.
Per sostenermi alle elezioni comunali della mia città, dove ero candidato con una lista della sinistra, era venuto persino a presentare Il racconto onesto, un libro fatto di cinquanta sguardi sull’Italia di altrettanti scrittori, che aveva curato con Goffredo Fofi, il suo maestro, per Contrasto. Venne a Fermo a sostenere il mio punto di vista minoritario sulla vicenda dell’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, ucciso a bastonate da un razzista, su cui scrisse un appassionato reportage per «Internazionale».
Sono partito con queste considerazioni per dire quanto la sua figura di intellettuale mi stesse e mi sta a cuore; quanto i suoi libri li trovassi e li trovi necessari; quanto la scelta del reportage sia nel suo caso una scelta espressiva esemplare, forse una condotta unica nel panorama letterario italiano degli ultimi anni, per la coerenza delle tematiche e della scrittura; e quanto umanamente mi manchi questo ragazzo mite, eppure determinatissimo, con un sorriso dolce che nascondeva una timidezza e un pudore di persona delicata, che ho sempre considerato come un fratello minore.
Alessandro Leogrande aveva una fisionomia di scrittore diversa da quelle dello scrittore italiano medio della sua generazione, cresciuto nelle scuole di scrittura creativa, coccolato dagli editor, con un interesse molto spesso lontano dai fatti della realtà e della società, o comunque interessato solo alla letteratura come condotta fine a se stessa e spesso narcisistica e autoreferenziale, lo scrittore che cerca l’editore di prestigio, la collaborazione importante e il premio blasonato, dentro un agire individuale quasi sempre carrieristico. Lui rappresentava l’esatto contrario di questi scrittori che pensano che le ragioni della letteratura, i fini estetici, siano più forti di quelle della politica, del pensiero sociale.
In un contesto frustrante, dove a maggior ragione se hai una postura autoriale e letteraria, per non dire politica, a parte pochissimi casi, sei assolutamente marginalizzato, spogliato del tuo ruolo sociale, invece Leogrande è riuscito a tenere in vita con la sua condotta un autentico ruolo di intellettuale, e questo ruolo l’ha esercitato e difeso fino all’ultimo: pochi giorni prima di morire aveva firmato una lettera pubblica indirizzata alle ong, stampata dal quotidiano «il manifesto», chiedendo di rifiutare il bando del governo italiano per “migliorare” i centri per migranti e rifugiati in Libia, che aveva definito senza mezzi termini «campi di concentramento». Nel contesto italiano gli scrittori, che già nelle loro opere hanno una connotazione molto civile, raramente partecipano al dibattito collettivo, come accadeva una volta, perché il dibattito collettivo è ormai il talk show, con i tempi e i modi televisivi, anche fuori dalla televisione, in un terreno ostile agli intellettuali perché è volutamente il luogo della semplificazione, della banalizzazione, quello dello spettacolo. Quindi oggi, quel tipo di scrittore pensatore, che s’interroga sulle sorti dell’umanità, che ha una sua idea particolare del mondo e della vita, è fuori dal dibattito, è orfano del proprio ruolo. È, appunto, relegato in una nicchia dell’ambito letterario-accademico e, in quello editoriale, risulta un intrattenitore, un innocuo produttore di merci, chiamate libri, che va a promuovere nei tanti festival effimeri in giro per l’Italia. Tanto che fare reportage avventuristici, un po’ come facevano i “francescani della Laica”, cioè gli arditi dell’agenzia Magnum, per Alessandro Leogrande (e anche per me) era, da una parte, anche un gesto politico, per sottrarsi a una condizione deprimente dello scrittore marginalizzato, e, dall’altra, un modo di utilizzare uno strumento narrativo capace, come pochi altri in questa nostra epoca, di raccontare la complessità di un mondo in fortissima trasformazione, in definitiva una risposta realista a un contesto segnato dall’iper-finzione e dallo storytelling. In un mondo mutato, dove tutto è finzione, non solo il romanzo, ma anche la politica, la società, gli stili di vita, vale la considerazione di Salman Rushdie: «quando i politici, i media inventano storie, dicono menzogne, è dovere dello scrittore dire la verità».
«Eravamo convinti che attraverso il reportage si potesse rompere e ricomporre la realtà in maniera diversa, cucire insieme pezzi sconnessi, intrecciare elementi apparentemente distanti, come facevano una volta gli scrittori cosiddetti civili, come facevano Pasolini e Sciascia».
Molti che lo hanno conosciuto sanno che Alessandro era uno che andava sempre di corsa: quando arrivava in un posto non perdeva tempo, era l’occasione per scrivere uno, due, più reportage di argomento diverso. Scrivere reportage era diventato per lui una sorta di diario in pubblico, uno scrivere vivendo: ogni viaggio, ogni scoperta diventava un capitolo di questo zibaldone aperto sui problemi, le contraddizioni, le storie e le ferite di un’epoca. Occupandosi di immigrazione, legava a questo tema i problemi del lavoro, i diritti umani, trasformazioni di intere aree geografiche, movimenti culturali, voci civili di artisti, scrittori.
Nel suo progetto intellettuale, infatti, non c’erano solo i libri, ma soprattutto un intenso lavoro giornalistico che ha svolto sul «Corriere del Mezzogiorno» e «Internazionale», su «Minima et moralia», nei 20 anni di vicedirezione de «Lo Straniero», con le curatele di libri, dove cercava di collegare il passato al presente dentro una sua costellazione civile; prima di morire, il 26 novembre 2017, aveva curato da poco un piccolo libro di Carlo Pisacane, L’altro Risorgimento, e per Radio3 realizzato alcune trasmissioni su figure della nostra storia, di cui aveva recuperato le biografie, fondendole in alcuni formidabili ritratti: Gaetano Salvemini, Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Nicola Chiaromonte; non era riuscito a lavorare a quelle di Pier Paolo Pasolini e Alexander Langer, un intellettuale quest’ultimo che gli era per formazione culturale molto affine.
Cosa ci lascia in eredità, cosa dobbiamo studiare di lui? Alessandro Leogrande ci lascia in eredità, innanzitutto, sé stesso, il suo modo di essere ponte tra quello che poteva essere l’intellettuale novecentesco e la modernità più prossima, con la sua capacità di collegare diversi immaginari, filmico, fotografico o documentaristico, così come quello pittorico, la cronaca e l’arcadia, ma senza avere mai tentazioni accademiche, restando sempre e fedelmente sul campo e militante.
Quello che mi ha sempre colpito di lui era un’onnivora curiosità politica nei confronti delle grandi questioni, la tempra di reporter di razza, il migliore della sua generazione, il migliore di tutti, la grande capacità di ascolto e sensibile generosità che metteva nel lavoro culturale, soprattutto nell’esperienza straordinaria de «Lo Straniero», una piccola rivista dove però era riuscito a coinvolgere il meglio della cultura italiana, dove si confrontavano scrittori, saggisti, cineasti, artisti figurativi, filosofi, storici.
Ci lascia in eredità la passione civile e quella politica, ci insegna che non solo i reporter bravissimi come lui ma tutti, in questi anni difficili, devono, possono ricominciare a svolgere la funzione di intellettuali collettivi, ci chiede di ridiventare umani e politici, accettando la condizione marginale di social solo, di spettatore, di consumatore narcisista, e avversando con le armi della cultura, della letteratura, i nuovi indifferenti.
Oltre al modello di reporter e intellettuale, che ha incarnato nella sua vita, ci ha consegnato in eredità i suoi libri, in particolare la trilogia che inizia con Uomini e caporali, l’opera che lo ha fatto scoprire al grande pubblico, geografia che sta dentro la sua storia, proseguita con Il Naufragio, e che si chiuderà con La frontiera, poi con i libri postumi.
«Un libro funziona davvero quando introduce un nuovo sguardo sul mondo, quando mette insieme punti apparentemente slegati tra loro, quando fa intravedere un nuovo ordine del discorso, quando rivela sotto nuova luce qualcosa che era sotto gli occhi di tutti».
Questa è la sua dichiarazione d’intenti, ma anche l’essenza vera del reportage, che definisce un reporter rispetto a un giornalista e che consiste nella capacità di utilizzare, in un impianto giornalistico, nella cronaca, la tecnica del narratore, grazie all’uso espressivo della lingua, al ritmo, soprattutto al montaggio e alla scelta di materiali significativi, da intrecciare dentro lo stesso racconto per fornirlo di senso.
Prima della trilogia un altro libro ha funzionato da apripista. Quando, nel 2003, Alessandro Leogrande pubblica per L’ancora del Mediterraneo Le male vite, è giovanissimo: a ventisei anni dimostra già un talento virtuosamente ossessivo nella scrittura giornalistica investigativa, è già un piccolo maestro del reportage narrativo. Nel libro racconta la trasformazione del contrabbando di sigarette, a partire dal suo baricentro antropologico e biografico, la Puglia e il Sud d’Italia, su cui in quel momento ha più cognizione, dove agisce «un sistema economico “illecito” perfettamente integrato nell’economia “lecita”», canalizzato dalla Sacra Corona Unita, in zone del mezzogiorno afflitte da disoccupazione cronica, e percepito come un argine contro le povertà nelle logiche del sottosviluppo. La chiama «la realtà dei lavori urbani marginali», come il posteggiatore abusivo, che si attua con il reclutamento dei disoccupati che non riescono più a lavorare nelle campagne o a entrare in fabbrica arruolati dalle mafie o dai contrabbandieri; a cominciare dalla metà degli anni ’90, nel mondo in via di globalizzazione, questa realtà subisce una mutazione. Quindi muove il suo libro politico sulla scia del Pasolini corsaro, che non a caso cita all’inizio del volume, conscio che «il crimine è uno specchio straordinario delle trasformazioni sociali. Non è mai attività delinquenziale fine a sé stessa, né semplicemente la manifestazione del male, dell’illecito, della frode, della violenza», ma soprattutto «ha a che fare con la produzione di denaro, con la sua accumulazione e la sua redistribuzione. Ha a che fare con i rapporti di forza insiti nelle società che attraversa, con i palazzi del potere politico, con i consigli d’amministrazione delle multinazionali, con l’internazionalizzazione dei mercati finanziari, con la delocalizzazione della produzione, con l’erosione delle funzioni degli stati nazionali, con la privatizzazione del mondo». Da questo campo perfettamente centrato, anche da un punto di vista storico, parte la sua ricerca. Intervistato da Marino Sinibaldi a Fahrenheit nel novembre del 2003, Leogrande spiega che «non è possibile capire il contrabbando di sigarette se non si capisce il percorso che fanno per rifornire un mercato enorme, è anche una questione di geopolitica del crimine», parla di «multinazionali che hanno immesso le sigarette di contrabbando per conquistare mercati che non sarebbero stati conquistati per le vie legali». Fa i nomi di quelle già segnalate dalla Commissione antimafia:
«Le due maggiori multinazionali del tabacco, la Philip Morris (Philip Morris e Marlboro) e la R.J. Reynolds (Camel e Winston), curavano da Basilea, nell’ambito di export two, l’esportazione di tabacchi lavorati esteri verso i Paesi europei e del Medio Oriente attraverso tre società concessionarie: la Algrado AG di Werner Denz, la Balmex AG di Patrick Laurent e la Basilio AG di George Kastl».
Sigarette che arrivavano dal Montenegro, dove il 50% del prodotto interno lordo proveniva da questa attività. Impressiona riascoltare la sua voce pacata e sicura, mite ma implacabile nel destrutturare i meccanismi perversi e crudeli della società contemporanea, le nuove mutazioni antropologiche. Leogrande intervista magistrati, ricostruisce dalla cronaca scenari di guerriglia tra contrabbandieri e Guardia di finanza ai posti di blocco, come l’Operazione primavera del 28 febbraio 2000, fortemente voluta dal ministro dell’Interno Enzo Bianco e dai vertici di polizia e carabinieri – una vittoria dello Stato. Ormai, come scrive l’autore, «il “mercato del tabacco” ben evidenzia il processo di internazionalizzazione e di finanziarizzazione delle nuove mafie», un elemento che Leogrande coglie appieno nella sua nuova complessità strutturale, spia di un vero e proprio cambiamento epocale.
In Uomini e caporali, fatto di storie dal vero e pubblicato Mondadori nella collana Strade blu (la stessa di Gomorra), si precisa il modo di lavorare di Leogrande, che si concentra anche qui su una geografia che gli appartiene intimamente, la Capitanata, la parte settentrionale della Puglia, quindi la provincia di Foggia ma anche quella di Bari, una specie di Virginia italiana. In questo ibrido reportage sui primi braccianti agricoli polacchi e rumeni sfruttati e a volte uccisi da uno spietato e nuovo caporalato, Leogrande lega memoria storica di eccidi nelle masserie avvenuti in epoca fascista, la parte di autobiografia che gli permette di legare sentimentalmente ma anche moralmente la sua ricerca alle radici.
A Leogrande non interessa solo creare una memoria di un determinato momento di passaggio della storia nazionale, non basta il risultato estetico, quello di un giornalismo narrativo capace di esplorare un immaginario geografico ed esistenziale; a lui non basta fare un reportage alla Steinbeck, come l’on the road californiano de I nomadi e della Grande depressione, perché, come in tutti i suoi libri, l’aspetto morale e sociale viene prima di quello letterario, che semmai è un mezzo estetico per definirlo; la narrazione insegue un ragionamento che è soprattutto un assillo della coscienza.
«Il compito di oggi è quello di capire», scrive nel capitolo di congedo, «capire che il passato e il presente sono legati a filo doppio; che il passato ha fatto irruzione nel presente, anzi, in verità, non ha mai lasciato il campo».
Come in tutti i suoi libri, quello che interessa a Leogrande non è solo il fatto storico, la mutazione antropologica, ma il ripetersi dei comportamenti umani, attraverso quella che chiama «rammemorazione» e che consiste nel capire il perché si ripete «la violenza, la disumanità delle relazioni, la bestialità della sopraffazione».
Il naufragio è un libro ancora diverso: dei suoi è quello che si può definire sostanzialmente un reportage d’inchiesta. A partire da un fatto, lo speronamento di una piccola motovedetta albanese da parte di una corvetta della Marina militare italiana, 57 i morti, 37 i superstiti, l’autore fissa la punta del compasso in un punto, però simbolico: siamo nel canale d’Otranto, nel Mediterraneo, e questa piccola nave diventa la nave e tutte le navi, perché quella accaduta il venerdì santo del 28 marzo 1987 è la più grande tragedia del mare dovuta alle politiche di respingimento in Italia. Ho detto reportage d’inchiesta, non di denuncia, la quale è solo una piccola parte di libri come questi.
Nel raccontare la storia di queste persone, Leogrande si prende cura di loro, della loro esistenza, ci racconta come è cambiata la vita dopo, e nello scrivere compie un vero e proprio risarcimento, un risarcimento morale, letterario. Dietro a quello che a noi appare come un reportage di duecento pagine c’è un enorme lavoro di studio, un corpo a corpo con la memoria dispersa. Capisce che l’importanza di questo fatto è che, a differenza degli altri naufragi, che dal 1988 ad oggi hanno prodotto circa 20.000 morti, «è una pietra di paragone, perché a differenza dei molti altri avvolti nel silenzio, è possibile raccontarlo». Diventa in qualche modo un prototipo letterario, una storia paradigmatica. Capisce anche che un naufragio è solo apparentemente un fatto collettivo, essendo «invece la somma di tanti abissi individuali, privati, ognuno dei quali incommensurabile, intraducibile, mai pienamente narrabile». Denuncia persino la sua impotenza, quella di chi compie un atto di conservazione e problematicizzazione della memoria, cioè ricompone una memoria narrativa andando oltre i fatti dei giornalisti, oltre la cronaca, ma cercando di sondare una complessità fatta di diversi elementi che insieme concorrono alla rappresentazione della commedia umana in un ibrido letterario.
«Certe storie pretendono un’adesione completa, quasi incondizionata», scrive, «e io che sto scrivendo, mi vergogno a scoprire di non avere la forza o la capacità di raccontarle tutte. Di non avere la forza di nominare la morte volta per volta. Di nominare la cupa sopravvivenza volta per volta. Di restituire tutto quello che ho sentito, o che mi è stato narrato, e che a sua volta è una minima parte, appena superficiale, appena visibile, dell’enorme albero del dolore».
La frontiera chiude una trilogia iniziata con Uomini e caporali e proseguita con Il naufragio; si muove sullo stesso campo dei libri precedenti, con una coerenza tematica e stilistica molto rari negli scrittori della sua generazione, più attratti dalla fiction sfibrata, logorata persino dal narcisismo stilistico. Questo libro, invece, sta dentro il proprio tempo come pochi, sceglie una forma, una modalità di racconto empatica. L’idea è molto semplice quanto felice, cioè raccontare attraverso i migranti venuti a vivere in Italia il Mondo in una nazione. Lui stesso ha detto di aver tentato in questo caso di scrivere un «romanzo di voci», o una autobiografia collettiva e dialettica, o quello che Tom Wolfe chiamava «romanzo sociale», cioè il punto di vista dei molti che hanno vissuto questa esperienza. Infatti, questo libro è diverso dai due precedenti: è un libro più scoperto, dove il narratore reporter si mette in gioco più degli altri, diventando il «collante delle relazioni umane».
I suoi reportage sono molto rigorosi, l’enfasi della scrittura non prende mai il sopravvento sul montaggio e la concatenazione dei fatti, sulla loro oggettività, sull’aspetto numerico, percentuale e statistico, e tengono sempre al centro la persona come portatrice di una condizione esistenziale più ampia, che è quella umana tout court, ma soprattutto il destino di un popolo e di una geografia in un determinato e preciso momento della storia.
Dentro questa ossessiva e morale ricerca di ordine, con una scrittura scarna ma sempre molto espressiva, di disadorna efficacia, che calibra sempre alla perfezione giornalismo d’inchiesta e racconto, Leogrande allarga, tesse, monta e rimonta, intreccia e ricuce le tante storie presenti nella Storia tragica di un mondo altro, che l’Occidente per tanti anni non ha voluto vedere, e di cui si è accorto solo quando gli aerei selvaggi sfondavano le Torri Gemelle, o il grand guignol dell’Isis scatenava il suo terrore su Parigi.
Il pretesto, o anche il prototipo degli uomini e delle donne che l’autore narratore incontra quando ragazzo s’affaccia negli ambienti della sinistra romana è Shorsh, un profugo kurdo sfuggito nel 1997 dal regime di Saddam Hussein, che ritroverà nella Bolzano di Alexander Langer (la città italiana che simbolicamente rappresenta più di tutte l’idea di vivere il confine), uno dei molti che attraverso la loro testimonianza compiono nel racconto un doppio viaggio. Doppio perché appunto «la frontiera», questo luogo geografico, geopolitico, che è anche un immaginario mobile, sta in mezzo alle opposte traiettorie di due mondi nettamente separati, l’Occidente opulento e consumistico del parossismo capitalistico, e il mondo povero, dilaniato dai conflitti bellici e senza democrazia.
Questo luogo eccentrico, che nel titolo evoca gli spazi sterminati della fuga e del west, i vagabondi raccontati da Jack London, come la Grande depressione, in realtà altro non è che «una linea fatta di infiniti punti», così la descrive l’autore, «infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la frontiera». I raccontatori che incontra nei modi kapuscinskiani, perché non si limita a descrivere ma vuole spiegare, ognuno dei quali illumina una geografia e vive sulla «linea d’ombra» di Conrad, sono il giovane somalo Hamid, il camerunense Yvan Sagnet, l’enigmatico Don Mussie, l’eritreo in fuga Syoum, scampato al naufragio di Lampedusa. Sì, perché quel tragico fatto è l’ossessione etica ma anche l’immaginario cupo che percorre tutto questo libro, il quale racconta innanzitutto il nuovo «popolo degli abissi» e le sue tante avventure, il più crudelmente romanzesco che esista.
Da una parte, un mondo e popoli sempre più tecnologici dell’artificiale, e, dall’altra, quelli corporali di un mondo naturale vissuto nelle terre arse, nei deserti e, naturalmente, nei tanti mari e barche ai quali hanno affidato i propri destini. Per capire il perché di questi viaggi della speranza, ciò che l’informazione manipolata non ci permette di vedere, di sapere, Leogrande ricostruisce narrativamente e nel modo più empatico «il contesto», ristabilendo un rapporto con le antropologie e la Storia, l’oggetto vero della rimozione, quello che dà senso e ci fa capire la scelta, spesso disperata, del viaggio. Anche lui stesso compie un vero e proprio attraversamento narrativo, perché queste vite di confine per esistere avevano «bisogno di incontrare un altro viaggiatore. Perché solo un altro viaggiatore può capire il peso delle parole che pronunceranno», spiega in un capitolo di intenti.
La scrittura che il migliore dei nostri reporter utilizza in questo libro sullo stato del mondo è oggettiva, volutamente ed eticamente dimessa, evita e scansa la narrazione compiaciuta, non cede mai alla trappola della spettacolarizzazione del dolore. Invece recupera la pietas, ne fa uno stile, ridà dignità a queste vite dei molti dannati della terra, li accompagna con tenerezza, si mette in ascolto con quella «responsabilità fraterna» – lui che era un credente – di cui parlò con severo ammonimento Papa Bergoglio durante il primo viaggio del suo pontificato a Lampedusa.
Ryszard Kapuściński, quello che per molti di noi è stato un maestro supremo, il prototipo del reporter contemporaneo per eccellenza, perché più politico e meno esotico di Chatwin, scrisse una cosa che calza a pennello per uno scrittore come Alessandro Leogrande:
«Credo che per fare del buon giornalismo si debba innanzitutto essere degli uomini buoni. I cattivi non possono essere dei buoni giornalisti. Solo l’uomo buono cerca di comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi e le loro tragedie. E di diventare subito, fin dal primo momento, una parte del loro destino».
(Angelo Ferracuti)
* Il testo è stato proposto il 25 ottobre 2023 a un pubblico di docenti, studenti e studentesse, riunito nel Liceo Scientifico “G. Galilei” di Ancona, in occasione di un incontro organizzato dall’Associazione degli Italianisti – sezione didattica della Regione Marche. «L’Adi-sd ha, infatti, elaborato per l’anno scolastico 2023-2024 una proposta formativa, rivolta principalmente a docenti di Lettere di scuola secondaria. Al centro è stato posto il tema del lavoro, con un particolare focus sull’impatto che l’attività umana esercita sul mondo, inteso come contesto naturale, sociale, economico e politico. Il progetto complessivo nasce dalla convinzione che il linguaggio letterario debba e possa continuare ad assolvere un fondamentale ruolo conoscitivo e potenzialmente trasformativo della realtà. ll corso “Cronache dal pianeta terra. Il lavoro dell’uomo e le trasformazioni del mondo”, ancora da completare nel momento in cui scriviamo, propone il confronto con autori del Novecento e del XXI secolo (Svevo, Calvino, Levi, Leogrande), secondo la chiave di lettura indicata. In questo contesto, Leogrande occupa un posto di rilievo per la peculiarità della sua postura intellettuale e civile e merita pertanto di essere studiato e frequentato nelle aule scolastiche» (Cristina Giacomucci, docente di Lettere e referente Adi-sd Marche).
Grazie di tutto cuore per questa proposta.
Mi permetto di segnalare che nel sito di Radio 3 RAI è possibile rintracciare e riascoltare tutte le trasmissioni condotte da Alessandro Leogrande, compresa quella dedicata ad Alexander L.anger.
L’assenza di Leogrande ingigantisce di giorno in giorno in quest’Italia sempre più nera.