Anche qui, come altrove, continuo a non avere la mia penna preferita, né la mia identità, né la mia vera età. Mancano tre giorni al mio compleanno, e più mi avvicino ai trent’anni più regredisco ai tre. Mi comporto come una bambina, tanto che i miei compagni di viaggio hanno iniziato a trattarmi come la sorellina più piccola: mi accarezzano la testa, mi sorridono inteneriti, mi prendono bonariamente in giro. Penso di crearlo io tutto questo attorno a me, ed ora più che mai attivo la mia innata capacità di immedesimarmi nell’infanzia altrui, in un esercizio di impossibile fachirismo indiano: in questo gioco di contrappesi chi ci guida, Krishna, ha lo sguardo liquido e indecifrabile, ma anche aperto e indagatore di un bambino imbrunito al sole di un’età inclassificabile.
Continuo a riflettere sul mio stato mentre cammino attorno alla cupola del Taj Mahal e la storia della sua edificazione mi commuove fino alle lacrime. Tutto qui in India ha la solidità e l’immortalità di una fortezza, ma vuota, o meglio, svuotata; forme si stagliano su enormi scacchiere da cui pedoni millenari sono fuggiti secoli fa. Mi fanno pensare al mio cuore, alle architetture della mia anima, dove i palazzi costruiti in sogno non ospitano nessuno durante il giorno. Fatehpur Sikri, il forte di Jaipur, il pozzo di Abhaneri: dove sono andati tutti gli umani, dove sono i loro cuori? Non nel mio, pur costruito per ospitarli tutti. Ma tutti è come dire nessuno di loro. Vivo nel palazzo silenzioso della mia solitudine mentre fuori, per la strada, le macchine sfrecciano fino quasi a sfregarsi l’una con l’altra e fanno sentire senza sosta i loro clacson: horn please, blow horn, incredible India. Il vento mi asciuga i capelli, poi li secca e li increspa e attraverso questa ragnatela continuo a sentire suoni, a vedere mucche e camion all India permit, a stupirmi di come siano possibili altri modi di esistenza fuori di qui, da questa prigione intarsiata di pietre preziose e semipreziose. Non ne capisco il senso e setaccio semplicemente ciò che vedo, cercando quello che rimane sul fondo. Ci si può sposare e innamorare, ma mai come in India il sentimento mi pare mischiarsi al potere, al potere di sentire: solo se riesci, o se te lo puoi permettere… ma non mi è chiaro cosa voglio dire con questo.
Ognuno sente come riesce. Come è stato educato da bambino, come gli è stato raccomandato dalle favole dei nonni, come un giorno, nel suo giaciglio ai bordi dell’autostrada, gli hanno cantato le mosche nelle orecchie. Ci si sposa, ci si ama, ci si guarda in quel modo, ed ogni modo è un mondo a se stante, nel perfetto equilibrio precario di un cerchio chiuso. Sono anch’io così? Cosa hanno cantato a me gli insetti dell’estate, quale dei tre milioni di dei mi ha cullata insegnandomi la nenia dei nodi del tappeto familiare? Tre blu, due bianchi, poi di nuovo il rosso ed ecco la fenice di famiglia sorgere da una nuvola di lana occidentale. Cerco di decifrare questo, io, il mio codice dei nodi, i nodi del mio cuore. È come se sapessi già qual è l’immagine definitiva ma non ne conoscessi la struttura interna, il funzionamento segreto. Vedo l’immagine del destino che compongo, distinguo perfettamente lineamenti ormai noti che pure continuano a sfuggirmi nel loro emergere, ed è così che non riesco mai a romperne l’incantesimo. Dovrei risalire la catena della giustizia, liberare l’anziano imperatore dalla sua triste e sfarzosa prigionia in contemplazione del mausoleo dell’amata. Io sono Shah Jahan, il suo cuore incastonato nel marmo di Makrana, traslucido come il suo immobile pianto.
Ma è anche vero che l’immobilità non è torpore. Non sto dormendo in questo paese, qualche demone deve avermi rubato il sonno; o forse, più semplicemente, non c’è bisogno di dormire quando si sogna ad occhi aperti. Perfino il treno di notte Satna-Varanasi mi sembra sferragliare promesse alle mie orecchie vigili e in attesa dell’alba. Scivolo dalla mia cuccetta in preda all’impulso inattuabile di scrivere, perché non posso nemmeno accendere la luce dello scompartimento e la torcia del cellulare è messa in modo che la mia scrittura mancina mi fa ombra sul foglio. Scrivo completamente piegata sul diario, poi, in una posizione faticosa e innaturale che mi costringe ad incrociare le gambe sulla brandina accanto ad un basso e sobbalzante tavolino pieghevole. Eppure non sto male, né la scomodità mi invoglia a smettere di scrivere. C’è qualcosa di giusto in tutto ciò che mi circonda, come un rito espletabile solo in questa maniera, la veglia indolenzita e tremula. Sento che Krishna sottovaluta l’evento del mio compleanno, a differenza dei miei compagni di viaggio che aspettano mezzanotte solo per bussare alla parete divisoria tra i nostri scompartimenti; sento che non capisce e che io ne sono delusa come un’impossibilità, di nuovo, di sentire, ma diversa: non più dentro di me, ma proiettata fuori, fra di noi, alla velocità di binari paralleli che collaborano senza incontrarsi. Sono stata felice di toccare il cielo di Orchha in cima ai tetti dello Jahangir Mahal, là dove ventidue anni di lavoro hanno ospitato un’unica notte di sonno imperiale risvegliata davanti ai miei occhi, che ingenuamente hanno visto in quelle cupole, bombate da un’architettura ibrida, indefinibile, il segno di una possibile coincidenza degli opposti. Sono stata felice di toccare il cielo di Orchha, dal basso verso l’alto dei cenotafi e dall’alto verso il basso del tempio scavato nella collina come un grembo, pensavo, adatto a contenerci tutti. Ma è, tutto questo, anche per me? Se mi avvicino, si lascia avvicinare? Cosa ci unisce, cosa ci separa? A volte, penso, quando lo sguardo dei venditori ambulanti scruta i movimenti della mia mano dentro lo zaino, che la risposta sia solo la variabile del tasso di cambio e il mio invariabile complesso di colpa occidentale.
Non del tutto vero, però. A mezzanotte e quindici mi risveglio da un lieve appisolamento e scopro di essere passata oltre ai miei vent’anni senza accorgermene, e che i miei compagni di viaggio dormono da un pezzo, incuranti dei miei colpi di nocche contro il ferro delle cuccette. Scopro invece che nel parcheggio della stazione Krishna ci tiene a scandire bene la formula di auguri classica – buon compleanno, Giulia, tanti auguri – con la cura e la solennità di chi recita la poesia di un autore straniero. Scopro che Varanasi è sveglia da circa tremila anni prima di me, e già alle cinque di mattina ci indica la strada dalla periferia al centro città a colpi di clacson e file di bandierine in vendita per la festa dell’indipendenza. Scopro in un’immagine quello che da giorni non riesco a spiegarmi – come solo in India il fango delle strade si ripulisca lungo la verticalità elegante dei passanti – osservando le scarpe bianche dei bambini in divisa scolastica levitare, incredibilmente immacolate, tra lo sterco dei gali. Il mio stupore viene accolto ed amplificato dall’ironia di uno psicanalista parigino di passaggio in albergo, e grazie a lui inizio a capire, forse, come ciò che è puro non debba essere per forza pulito; come il rapporto tra occidentali e indiani, come la purezza di questa domanda generi una risposta inevitabilmente spuria. È la questione della stasi ancestrale di una cultura che accetta il suo perché, il suo dove ed il suo quando come un fato che non si spiega, si custodisce; è la questione dell’irrequietezza di un’altra cultura che cerca ciò che non ha e nutre un desiderio dal centro vuoto – insaziabile e per questo crudele: ciò che abbiamo fatto al mondo lo dobbiamo al nostro demone sullo stipite della porta, che invece di assorbire i nostri cattivi pensieri li ha spinti con noi oltre la soglia.
È la questione di chi sta in mezzo alle due questioni, quella dei meticci riluttanti. Krishna non mi ha mai chiamata per nome, ora che ci penso. Non riesco a ricordarmi se l’ha fatto per gli auguri… però l’ha scritto sulla torta della mia festa a sorpresa, e con la grafia corretta, come raramente mi è accaduto all’estero. Un dono di vera comprensione che mi diceva – ti ho capita. Ma poi, quando è tempo di allontanarsi, è meglio non capirsi più. Poi ha pronunciato il mio nome elencando la lista dei biglietti aerei – e il suo tono vibrante, sorpreso, si accorgeva di scandirlo per la prima volta ad alta voce, quando già era troppo tardi. Mai come in India il sentimento mi è parso mischiarsi al potere, al poterselo permettere: un privilegio che discende dalla società e dalla famiglia direttamente al rapporto tra i due sessi, che pagano entrambi il prezzo di credere nell’equilibrio ricattatorio generato dal potere, e lì il problema non sono le culture diverse, ma l’uso che noi ne facciamo. Usiamo le culture diverse per poterci dire che non sarebbe stato possibile usarle diversamente, che avevamo ragione fin dall’inizio, che era giusto chiudere il cerchio e fare spazio vuoto. E forse Krishna è il vero saggio indiano che oscilla la testa in un modo che non si capisce se è un sì oppure un no, perché non è nessuno dei due; non è questione di sì o di no, è semplicemente la questione di un volo da prendere e di un luogo a cui tornare. E mentre sono qui ad aspettare zitta l’aereo accanto a questa eterna sfinge della distanza, ricordo di aver evaporato un pensiero nell’afa spessa della cerimonia Aarti lungo il Gange – di aver pensato a quanto è strano che una cultura come quella, che noi consideriamo saggia perché accetta il fato a ciascuno assegnato, sia quella che più di altre ha costruito lungo i secoli una fitta trama di rinascite legate tra loro dall’inesauribile filo del desiderio. Punti nel ricamo del nostro stesso dolore, siamo inedia dello spirito e sete, tanta sete. Osservavo questo paradosso finché la risposta non mi è sembrata giungere da sola, come l’improvviso sciabordio sul legno della barca, e allora ho pensato che forse proprio loro, più di tutti, avevano un giorno desiderato, e lo strazio fosse stato tanto forte e divorante da erigere un’intera religione a cura dell’incurabile. Forse all’origine i cuori voraci non eravamo noi, ma loro, e per questo proprio loro avevano trovato prima e meglio il giusto rimedio dall’effetto autoimmune, proiettando fuori di sé quel brutto difetto del samsara.
Ricordo di aver pensato allo stupore con cui, giunta in questa terra alla ricerca di Shiva, il dio che distrugge e rigenera, non ho fatto altro che imbattermi in Vishnu, il dio che custodisce e protegge. Shiva mi ha spaventata nella donna invalida che offriva il suo mantra cupo, la sua fertilità al toro di un dio sfrenato. Mi ha spaventata nella terra bruciata, nell’astrazione, nella carta bianca, nell’ascetica onnipotenza, in tutto ciò di cui pensavo avere bisogno per il mio trentesimo compleanno. E invece il brahmino ha impresso la U di Vishnu sulla mia fronte e a Khajuraho ho toccato i piedi di un idolo che rubava la luce fioca all’oscurità completa del tempio, come capace di risplendere da sé. Ho chiesto a Vishnu di benedire la mia angoscia, là dove il desiderio ondeggiava davanti ai miei occhi, ammiccava, apriva gambe e braccia, s’insinuava dovunque con lo stesso risolino. A Khajuraho la pietra mi è parsa ansimare nei pertugi di un corpo poroso, che dichiarava spudoratamente la sacralità del godimento e dell’istante e quanto triste, rigida ed inibita fosse la mia pretesa ribellione cosmica. E così la pietra andava e veniva, fluttuava, ondeggiava, sbeffeggiava la mia castità fisica e spirituale finché anche il soffitto è crollato, oppure io mi sono rovesciata sul pavimento del tempio e ho respirato più forte per aiutare le lacrime ad uscire….
E mai come in India, in quel momento, il sentimento mi è parso mischiarsi al volere, alla volontà di sentire. Bisogna volere ciò che si sente e sentire ciò che si vuole. Chi è nella verità, conosce già la risposta; e, in realtà, dentro di noi sappiamo già tutto. Ma abbiamo imparato a maledire quel demone a cui pure concediamo ogni potere su di noi, e se la volontà è molteplice, burrascosa e opaca, ignoriamo come si emerga asciutti dall’acqua. Non mi è chiaro cosa voglio dire con questo, ma so che Krishna il giorno del mio compleanno mi ha portata di fronte alla statua del toro, veicolo di Shiva, e mi ha invitata ad esprimere a lui il mio desiderio. All’orecchio del dio mi sono riappacificata con lui e ho dichiarato di voler amare l’istante, quello che ci contiene tutti perché ci libera da noi stessi. E se ognuno facesse questo, ho pensato, ci ameremmo davvero, perché come Krishna, l’eterno amante liberatore degli uomini, ameremmo la libertà degli altri, e loro la nostra – perché la scelta funziona solo se è reciproca – per poi espellere tutto il resto: la stima delle aspettative, il calcolo delle rinascite, l’eterno ritorno dei propositi, le presunzioni delle identità, delle culture, dei sessi, l’incontrollabile e l’inconoscibile. Alla fine della cerimonia, abbiamo ripreso la barca e con me non avevo le candele rituali da lasciare al fiume che trasporta cadaveri. Ci ho pensato un po’ prima di tirare fuori dal portafoglio il mio biglietto da visita. A chi in quel momento era con me e aspettava di conoscere la mia scelta ho detto, trionfante – al Gange ho lasciato il mio nome.