Pubblichiamo un racconto inedito di Ambra Zorat che per problemi tecnici non aveva trovato spazio sulle pagine di Laborinto.
Cerchi bianchi e blu scivolavano sul terreno buio della notte. Rischiaravano qualche sasso, dei semi di ciliegia e una bottiglia di plastica dall’etichetta rossa rovinata. I cerchi scorrevano sulla superficie brulla ai limiti del bosco, secondo movimenti rapidi e rotatori alla ricerca di intrusi. I fatti avvenivano in un piccolo paesino friulano intorno agli anni Settanta, ma sarebbero stati uguali altrove, qualche decennio prima o dopo, in quest’era occidentale, tra la campagna ormai abbandonata e il mare definitivamente inquinato. I cerchi di luce cambiano colore, o angolazione e ancora altezza, ma girano, girano proiettati indifferentemente sul terriccio e l’asfalto.
Quella sera erano le dieci, quando dai quattro bastioni della Cartolinchimica Spa i fari si fissarono sul Frenk, che se ne stava lì rimbambito, con la bocca spalancata. Afferrava un panino al crudo di San Daniele nella mano destra e un blocchetto di carta con una penna nella sinistra. Il boccone ingombrante gli riempiva la bocca impedendogli di rispondere alle minacce che giungevano rabbiose e prepotenti da sfondare i timpani. Con la mascella divaricata per la sorpresa e lo spavento non sapeva più masticare, né sputare.
Gli gridavano: «Alto là! Alza lentamente le mani».Sei sordo o scemo?!”
“Ti ho detto di alzare quelle cazzo di mani!”
Intanto le guardie armate si avvicinavano, le pistole puntate al suo petto. Riuscì a bofonchiare solo che era un operaio dello stabilimento. Poi sforzandosi di inghiottire il boccone, aggiunse che il capo-turno lo aveva mandato fuori per un controllo… al contatore, piazzato lì a pochi passi. Bisognava farlo una volta ogni sei mesi.
Gli urlarono di dirgli il nome e dargli i documenti.
«Frenk, Frenk Corallo. Reparto numero 72, i documenti …sono in spogliatoio».
Da una radiolina, che aveva visto solo nei film, chiamarono la portineria che li mise in contatto con Alfredo, il capoturno. Subito dopo l’accompagnarono all’entrata, osservandolo in modo ostile quasi non si fidassero. Mentre camminava la chiave inglese si spostava a ogni passo, scivolando lungo la cintura batteva contro una chiave più piccola fissata con più precisione. Stava pensando alla Tina. Cosa avrebbe fatto se non avessero verificato chi era, se qualcuno con il grilletto facile gli avesse sparato? La Tina non aveva una pensione sua, cosa avrebbe fatto? Chissà se e quando l’avrebbero rimborsata!
La Tina, o Tinuccia come la chiamava un tempo, l’aveva conosciuta in una festa paesana di un partito o forse di un patrono, non se lo ricordava più, ma in fondo era lo stesso. L’aveva invitata a ballare, lei aveva accettato perché le dispiaceva dirgli no. Così piccolo, tutto scuro, occhiali e pancetta, era in giro da diverso tempo e doveva aver ricevuto diversi rifiuti dalle altre ragazze, ché lei non se la sentì di infierire.
«Un solo ballo, poi basta che sono stanca!», gli aveva risposto.
Poi parlando, senza pensarci, gli aveva detto dove abitava ed era cominciato il vero e proprio corteggiamento. Alla Tina, nessuno aveva mai fatto il filo così, aspettandola per delle ore seduto in macchina davanti casa, attendendo che uscisse col cane per salutarla e vederla soltanto per un istante, visto che lei con lui non si fermava mai più di cinque minuti. Dopo un mese che Frenk veniva sempre alle 5.20 in punto, direttamente dalla fabbrica, e se ne restava lì nella sua macchina fino alle nove e mezza di sera, la Tina aveva deciso che questo o lo si doveva sposare oppure rinchiudere in un manicomio: fu così che se lo prese.
Il Frenk però non era un uomo di tante parole, alla Tina voleva bene, ma era sempre più convinto che per ogni cosa c’è il momento giusto. Le energie non si possono mica investire tutte contemporaneamente! Dopo qualche tempo cessò di dedicarsi alla Tina. Aveva cominciato a lavorare coi turni, e solo ogni tanto si vedevano la sera, quando dalla fabbrica tornava a casa in bicicletta, sempre dopo una partita di carte al bar. Dopo cena lui ascoltava un po’ la radio, mentre la Tina lavava i piatti, metteva il bambino a letto e faceva un po’ la maglia. Un giorno sarebbe stato diverso. Il bambino sarebbe diventato grande, avrebbe lavorato, trovato un altro appartamento e non avrebbe più dovuto dormire nella loro stanza. La Tina all’inizio ci sognava, ora tutto le sembrava consunto, quasi trasparente. Il Frenk invece pensava a questo giorno e a Tina un po’ come il Paradiso, il loro turno sarebbe solo venuto dopo.
Quando rientrò al suo reparto gli altri operai cominciarono a sfotterlo chiamandolo “compagno” oppure “terrorista”. Con una torcia gli illuminavano il viso gridandogli parolacce. Poi, per mandar giù gli ultimi bocconi del panino, gli passarono una lattina già cominciata. Due sorsi di birra e si ricomincia il lavoro, ognuno alla propria macchina.
Il Frenk questa sera doveva controllare la quantità d’inchiostro nero che veniva aggiunta all’impasto. Non poco né troppo, l’operazione era fondamentale perché la carta venduta ai tedeschi doveva sembrare riciclata. La Cartolinchimica Spa non aveva ritenuto indispensabile comprare la macchina che doveva preparare la carta usata per il nuovo impasto. Era più economico aggiungere dell’inchiostro al solito impasto e pagare qualcuno che esaminasse la procedura. Così si era ritrovato a fissare la macchina, al cui sbiancante era stato sostituito quel nero di seppia.
Nessuno parlava, solo il borbottare delle macchine galleggiava in sottofondo: un rumore che ricordava quello di un vaporetto, ma più ovattato. Poi ci si abitua, non lo si sente più, a dire il vero si sente di meno in generale, anche fuori dallo stabilimento. Dicono che sia l’abitudine, che ci si abitua a non far caso a certi rumori…. Sicuramente però sentirono il boato che venne d’improvviso dalla macchina dove lavorava il Frenk.
Una tubatura era esplosa e l’impasto era stato gettato con violenza sul corpo dell’operaio che se ne stava ormai in terra, imbrattato di una materia densa e bollente. Fermo, senza gridare, senza muoversi. Neanche il sangue colava, se ne stava nascosto e raggrumato dietro alla testa, lì dove il capo precipitando all’indietro aveva battuto contro la pietra. La morte tuttavia non avvenne all’istante, anche se nessuno se ne rese conto, e il Frenk chissà se o a cosa poté pensare.
Si seppe solo cosa pensava la Tina, che per la verità non disse niente, mandò solo un unico grido, quando la informarono che il marito era morto al lavoro.