Annus Mirabilis 1922 ⥀ Un incontro online dedicato a C.Vallejo e T.S.Eliot
Presentiamo su ArgoWebTv, il 2 dicembre alle 19.00, due testi cardini del Novecento, in due nuove e preziose traduzioni: Trilce di C.Vallejo, tradotto da Lorenzo Mari per Argolibri, e La terra devastata di T.S.Eliot tradotto da Carmen Gallo per il Saggiatore, a cento anni dalle prime edizioni. Di seguito trovate due testi estratti dalle rispettive raccolte.
Scritti nel 1921 e pubblicati l’anno seguente, The Waste Land di T.S.Eliot e Trilce di C.Vallejo, segneranno per sempre le vicende del modernismo e della Letteratura mondiale: il primo scritto in Svizzera, ma con chiari riferimenti a Londra e alla City, dal già editore della Faber and Gwyer (più tardi Faber and Faber) durante un soggiorno in clinica per un esaurimento nervoso, mentre in Europa ancora si contavano i morti della Prima Guerra Mondiale, e l’altro, Trilce, nell’isolamento di un piccolo carcere sulle Ande dall’undicesimo figlio, ‘cholo’, meticcio, di una modesta famiglia di un pueblo sperduto a 2000 metri di altitudine.
A cento anni di distanza, rispettivamente per Il Saggiatore e Argolibri, si rendono disponibili le nuove traduzioni de La Terra devastata, a cura di Carmen Gallo, e Trilce, tradotto da Lorenzo Mari, usciti a poche settimane di distanza l’uno dall’altro; ne parleremo il 2 Dicembre, dalle ore 19, in un incontro online (in diretta su ArgoWebTV e sui canali social di Argo) dal titolo Annus mirabilis 1922 in compagnia di Martha Canfield, Docente Letteratura Ispanoamericana all’Università di Firenze, Donatella Izzo, Docente di Letteratura Angloamericana presso l’Università L’Orientale di Napoli, Andrea Raos, poeta e traduttore, e dei due traduttor*.
L’incontro nasce anche con l’intento di tornare a riflettere intorno all’opera del poeta Giuliano Mesa, al portato (e al lascito anche) politico e quindi etico della sua opera, del poeta che forse più di ogni altro è stato in grado di far risuonare nella poesia italiana contemporanea le voci, in formule nuove e inedite, dei due grandi autori novecenteschi. Proprio a tal riguardo, presentiamo per i nostri lettori lo scritto di Giuliano Mesa Ad esempio. La scoperta della poesia, (contenuto nel volume Trilce), da cui abbiamo anche tratto il titolo della presentazione; mentre per iniziare a percorrere la terra devastata, come cavalieri del Graal, e addentrarci nella traduzione di Carmen Gallo, presentiamo, qui di seguito, un estratto della “mappa” che Carmen Gallo ha restituito come introduzione al volume per Il Saggiatore.
Da “La terra devastata. Una mappa” di Carmen Gallo
T.S. Eliot, La terra devastata, a cura di C. Gallo, Il Saggiatore Milano 2021.
[Quella riportata, in una versione ridotta, è il secondo cronotopo della mappa-introduzione: “Parigi 1922”. Gli altri sono: “New York, 1968”, “Congo, 1890”, “Dardanelli, 1915”, “Cartagine, 146 a.C.”, “Monaco, 1911”, “Londra, 1922”.]
Parigi, 1922
Nel febbraio del 1922 James Joyce pubblica a Parigi, per i tipi della Shakespeare and Company di Sylvia Beach, l’intero volume di Ulisse. Eliot ne ha già letto alcune parti nel 1921, e ha confessato a Pound che la lettura lo ha quasi dissuaso dal procedere con la composizione del suo poemetto, cui aveva cominciato a pensare dal 1919. Pound ribatte che non deve desistere, che ciò che ha fatto Joyce in prosa deve essere fatto anche in poesia. Eliot sembra pensare a lungo a queste parole, anche dopo la pubblicazione del suo The Waste Land nel 1922. Nel novembre del 1923, infatti, pubblica su The Dial una recensione dell’opera joyciana, intitolata “Ulisse, ordine e mito”, in cui mette a fuoco la rivoluzione joyciana, “l’espressione più importante della nostra epoca”, e difende Joyce dalle accuse di essere “un profeta del caos”. Mentre intorno non si contano le esortazioni al nuovo – futurismo, vorticismo, imagismo, dadaismo e surrealismo tentano di rispondere per emulazione o contrasto alla cultura di massa: make it new è la sfida lanciata da Pound -, Eliot chiama in causa il “classicismo”, che definisce come fare ciò che si può “con il materiale a disposizione”, secondo le possibilità di tempo e di luogo. E sostiene (dopo aver fatto proprio) il “metodo mitico” joyciano, inteso non come rifugio nella “materia mummificata” del passato, ma come continuo parallelo tra contemporaneità e antichità: l’uso di un paradigma archetipico per controllare, dare ordine e forma «all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea».
Usare in poesia il metodo mitico come Joyce aveva fatto nel romanzo. Mescolare la più raffinata tradizione letteraria con prodotti della cultura di massa. Rinnovare, moltiplicandola, la struttura monologica della lirica tradizionale e frammentare le convenzioni enunciative e narrative della poesia ottocentesca. Accordare al ritmo un significato centrale. Sono questi alcuni degli espedienti con cui Eliot inventa la possibilità di conciliare la sua visione conservatrice della letteratura con le spinte al rinnovamento che il modernismo impone (incarnate nel corpo a corpo sulle pagine riviste da Pound).
Per questo, nell’elaborazione del suo classicismo modernista, Eliot si affida alle figure mitologiche di Filomela e Tiresia per dare ordine e forma rispettivamente all’orrore della guerra appena conclusa e allo squallore della vita nelle metropoli finanziarie e industrializzate. Accosta Dante, Shakespeare e Baudelaire a una ballata oscena cantata dai soldati e al motivetto popolare di una canzone di ragtime, O O O O – facendo a pezzi la tradizione, ma in realtà ribadendo l’unità della cultura occidentale, e i valori estetici e morali dell’élite che l’ha plasmata. A differenza della frammentarietà di segno opposto di altri modernisti come William Carlos Williams, creata per restare tale, i disjecta membra della tradizione nella Terra devastata sono affidati al lettore perché li ricomponga, e ne faccia risorgere il dio originario, come nei miti raccontati da James Frazer.
Eliot si smarca dalla monolitica soggettività romantica (nonché dall’ideologia storica che incarnava), grazie a una voce impersonale, paragonabile al montaggio cinematografico, che riflette la teoria – quanto mai importante dinanzi al pathos della guerra – che la poesia debba essere un processo di spersonalizzazione, di estinzione della personalità particolare del poeta. A questa impersonalità, d’altra parte, affianca una polifonia di personaggi reali o letterari, convocati sulla scena grazie a frammenti di dramatic monologue, un procedimento che ben spiegava il titolo scartato delle prime due parti, He do the police in different voices (“Fa la polizia con voci diverse”, rubato dal romanzo di Dickens Il nostro comune amico).
Mentre attraversiamo le cinque sezioni del poema, incontriamo le voci dell’aristocratica Marie, di Madame Sosostris e del profeta Ezechiele, la donna dei giacinti, la donna middle class coi nervi a pezzi e quella perfida della working class, il pendolare-veterano della City, Tiresia, le Figlie del Tamigi e Arnaut Daniel. Ai loro discorsi si uniscono gli echi delle Sacre scritture, di Agostino giunto a Cartagine, la voce di un sermone buddista e l’annuncio di chiusura di un pub, i versi di Marvell e Verlaine, le battute dei personaggi di Webster e di Hieronimo diventato pazzo di nuovo, i canti di Wagner e dello spiritello Ariel nella Tempesta shakespeariana, senza dimenticare i versi dell’usignolo, della rondine, del tordo, del gallo. A questa pluralità di voci che sfumano l’una nell’altra, si aggiunge la pluralità linguistica, che raggiunge l’apice negli ultimi otto versi del poemetto. Qui Eliot condensa cinque-(sei) lingue diverse – l’inglese di una nursery rhyme inglese, il volgare fiorentino di Dante, il latino di un carme erotico di età imperiale, il francese di un sonetto (dal titolo spagnolo) del simbolista Gérard de Nerval, e infine il sanscrito delle Upanishad – che riepilogano la cartografia della terra devastata, un territorio che coincide con lo scenario allargato del primo conflitto mondiale, e poi si allarga ad est, fino a giungere in Asia.
Dal saggio “Ad esempio. La scoperta della poesia” di Giuliano Mesa
César Vallejo, Trilce, a cura di Lorenzo Mari, Argolibri, Ancona, 2021.
«[…] Nell’annus mirabilis 1922, l’anno di Ulysses e della Waste Land, Wittgenstein pubblica a Londra, dopo una prima stampa nel 1921 con altro titolo, il Tractatus logico-philosophicus, e a Lima, i Talleres Tipográficos de la Penintenciaría stampano Trilce di César Vallejo. Il cholo, nato in un villaggio delle Ande peruviane a 3.500 metri di altitudine, e il nobile austriaco sono entrambi trentenni. Wittgenstein chiude il Tractatus sulla indecidibilità e indicibilità logica dell’etica, e dell’estetica; sull’enigma del non-eterno e dell’eterno (della finitezza e dell’infinito); sul come se che chiude la logica nella tautologia e apre all’analogica interminabile del rapporto nome-cosa. Dell’eterno e del non-eterno è il presente a diventare sintesi inafferrabile. «La dura vida, la dura vida eterna», scrive Vallejo. L’evento, ogni evento, l’infinità e non-infinità degli eventi: in-conoscibili tramite proposizioni logiche. Il segno può solo mostrare. La poesia, facendosi evento, si rende in-conoscibile eppure mostra. Il suo enigma, il suo ineffabile, sono come l’enigma e l’ineffabile degli eventi. La relazione con gli uomini e con il mondo è relazione etica. Ineffabile. «Nonsensical», dirà Wittgenstein nella Lecture on Ethics del 1929, e tuttavia esistente. L’estremo rigore linguistico di Wittgenstein è rigore etico, verso conoscenze possibili, e un possibile bene.
Un linguaggio dove le parole, non potendo attingere alla verità, cercano la precisione, la sincerità: verità etica. Trilce è un neologismo sin sentido. Ma nell’opera non v’è nulla di nonsensical. Il nome-titolo privo di referente dichiara la relazione mediata tra nome e cosa e, forse ancor più, tra nome e nome. Vallejo incrina insieme sintassi, grammatica, fonetica, lessico, rapporti logici. Costruisce un evento nominante sulla vita, sul mondo, che conserva, dopo quasi novant’anni, tutta la sua forza interrogante, s-copre la poesia da estetiche e retoriche (in cambio ricevendo silenzio o incomprensioni: Trilce verrà ristampato in Spagna nel 1930, ma già dominavano altre retoriche, che dominano ancora…). Vallejo non arriva mai all’arbitrio, al solipsismo di certa poesia surrealista, della quale, pure, è considerato precursore.
Perché? Perché non recide mai completamente il legame con i referenti comuni, reali? Sì. Ma forse, soprattutto, perché non allenta, anzi intensifica, il carattere etico, di responsabilità nominante, del linguaggio. Nessuna giocosità o deriva automatista. E infatti, dopo Trilce, anziché farsi manierista di se stesso, come tanti suoi coetanei, scrive i Poemas Humanos.
Scopo di Vallejo non era, infatti, l’imporsi come poeta, ma il conoscere, l’esprimere…
Così, mai si finisce di scoprire Trilce…
«Mañana Mañana. // El reposo caliente aun de ser. / Piensa el presente guárdame para / mañana mañana mañana mañana. // Nombre Nombre. // ¿Qué se llama cuanto heriza nos? / Se llama Lomismo que padece / nombre nombre nombre nombrE».
[«Domani Domani. // Il caldo riposo ancora di essere. / Pensa il presente custodiscimi per / domani domani domani domani. // Nome Nome. // Cosa si chiama quanto ci spina? / Si chiama Lostesso che patisce/ nome nome nome nomE».]»