Argo N.1 _Andrea Livini: «I Vagantes e la loro poesia»

Ci sono fili sottili e colorati ma copiosissimi che provengono da un’unica grande matassa, che per quanto la si possa sbrogliare è quasi inesauribile: quella matassa è la Storia e i fili sono le tradizioni. Ora, chiunque abbia soggiornato per qualche tempo in una città universitaria sicuramente si sarà imbattuto in uno di quei personaggi eccentrici, vestiti di tutto punto con abiti curiosi, che vanno in giro da soli o in piccoli gruppi ad animare le coscienze coi loro scherzi: i Goliardi. Per comprendere chi siano questi Goliardi, o Vagantes, bisogna conoscere l’origine di un movimento così singolare soprattutto per noi contemporanei, che tanta eco ha avuto in Europa: dobbiamo pensare a masse di studenti laici o ecclesiastici che vagavano fin dal dodicesimo secolo da un’Università d’Europa all’altra. In particolare a coloro che scrivevano ritmi latini medievali di spirito eterodosso e anticlericale, insaporiti da allegro e spensierato scetticismo, i Vagantes, che entrarono poi a far parte di una regolata associazione di letterati e di poeti. La produzione poetica originaria dei Goliardi si affiancò senza alcuna violenza di forma o crudezza di linguaggio alla poesia ufficiale, quella del clero, che potremmo definire «bullata»; ma si distaccò da questa sotto il profilo contenutistico, per i temi amorosi e lascivi che presentava. Una poetica restia alla condanna della pagina scritta, fuggiasca e idealista, amante dell’oralità e della piazza come teatro d’espressione. Lungo i borghi gli studenti cantavano i loro amori, il loro ludibrio, dolcemente guidati da un paganesimo che non si era mai realmente sopito, che era scampato alla severità e al rigore del misticismo e dell’ascetismo cristiano tardo medievale; e dai ritmi goliardi alitava un estatico risveglio primaverile a cui i giovani uditori si abbandonavano. E’ in conseguenza di questa funzione pubblica che ai Vagantes vennero associati i nomi di «buffones» e «ioculator», «lechiere» nel senso di gourmande e di ghiotto come prova il Roman de Renart : «Li lechieres fremist et trombe, de lechiere esprent et art»; ma in particolare leccatoresbuffones e ribaldi erano gli studenti a cui le sorti di chierici non impedivano di provare gusto per le vanità mondane. Solo nel dodicesimo secolo i Vagantes prendono consapevolezza del loro ruolo di agitatori sociali e letterati, definendo, nelle loro creazioni, i temi di una poetica fortemente lasciva e anticlericale. Non che la produzione in versi medievale, latina e volgare, escludesse gli argomenti amorosi, ma certamente si scostava dall’osceno, che invece era centrale nella poesia goliardica, affiancato ad uno spiccato anticlericalismo che scadeva nel dissacrante. Già nel 1159 l’antipapa Vittore IV in una bolla parla di cantilene ecarmina con cui certi stolti poeti andavano satireggiando la Curia Romana, per le piazze e i borghi. Non siamo ancora nella piena fioritura di quella che diventerà presto un’Associazione, al punto che un antipapa se ne occupi come di un grave obbrobrio per la Chiesa. La diffusione dei carmina divenne capillare nel tredicesimo secolo quando si ebbe la fioritura dell’associazione dei Vagantes con lo sviluppo degli studia universitari. L’Italia fin dal quarto secolo aveva conosciuto una netta separazione tra studio laico e religioso: vi erano infatti i sapientes, poi grammatici, a cui si affiancarono i maestri di diritto, preposti alla diffusione dei temi laici, paganeggianti e terreni, mentre nel resto d’Europa (in Francia, in Spagna e in Germania) l’insegnamento era esclusivamente religioso, legato indissolubilmente alla Curia. È proprio in questi paesi che la voce dei Vagantes si fece tonante e la diffusione di temi pagani, pressoché assenti prima, prese forza dai ritmi recitati per le piazze. In virtù di questo fenomeno ha ragion d’essere l’anticlericalismo: la controffensiva al cerimonioso, quanto falso, moralismo clericale che si si poneva in modo violento contro la libera diffusione della cultura. In piena teocrazia papale la voce dei Vagantes si scontrò vittoriosamente contro i roghi dell’Inquisizione, i quali fagocitarono miseramente l’eresia catara.