Argo N.1 _Francesco Manetto: «Il tempo nella ricezione»
«Leggere è sempre questo:», spiega il professore, «c’è una cosa che è lì, una cosa fatta di scrittura, un oggetto solido, materiale, che non si può cambiare, e attraverso questa cosa ci si confronta con qualcos’altro che non è presente, qualcos’altro che fa parte del mondo immateriale, invisibile, perché è solo pensabile, immaginabile, o perché c’è stato e non c’è più, passato, perduto, irraggiungibile, nel paese dei morti…»
(Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore)
Leggere è questa tensione tra materiale e immateriale, tra una cosa fatta di scrittura, oggetto solido, e qualcos’altro che, invece, non è presente, un’assenza; segno e mondo significato, o meglio suscitato dal segno stesso sono i termini della tensione che esiste nel leggere e nello scrivere, tensione esclusiva dell’attività predicativa (l’atto di formulare predicati, cioè in questo caso scrivere) e ricettiva. Quest’assenza genera un movimento («leggere è andare incontro a qualcosa…», aggiunge Ludmilla), desta il desiderio di raggiungere l’irraggiungibile, passato o futuro che sia. Desiderare (de-siderare), d’altro canto, vuol dire mancanza di stelle, significa che non si può disporre di astri e relativi auspici; smettere di guardare il cielo e iniziare a pensare, allora, ingegnarsi, inventare e seguire l’oscillazione verso l’invisibile. Per renderlo visibile. Questo è il seme del desiderio e del movimento (che pratichiamo quando ci confrontiamo con una scrittura).
L’arco descritto da questo movimento, l’oscillazione tra i margini della tensione (si badi, non mi riferisco in particolare a Calvino) ha un carattere temporale; non c’è solo discrasia tra segno, traccia dell’ora (nel senso di traccia del nunc), simultanea alla percezione, ed il mondo immateriale, pensabile nel passato o nel futuro. Non c’è solo ascesa, o discesa, ad un gradino immaginativo, desiderabile, la cui virtualità pare dovuta a questo scherzo del tempo. Il movimento è, ad esempio, tempo stesso, secondo Plotino, è passaggio di stato dell’anima; il tempo, parafrasando Agostino, è misura dell’estensione dell’anima (fatta di passato, presente, futuro); il tempo, insomma, sembra condizionare i termini della tensione considerata nella lettura e nella scrittura, lo stato ed il comportamento della coscienza coinvolta nel processo predicativo / ricettivo, l’oscillazione generata dall’assenza, dal desiderio.
C’è un racconto di Fernando Pessoa, Il marinaio, che ad esempio pare scritto dal tempo stesso. Segni assorbiti nella durata per il lettore, parole di attesa, di ricordo ed incertezza del presente per le tre vegliatrici protagoniste del racconto. Sono queste le donzelle che vegliano su una ragazza vestita di bianco, esposta in una bara al centro di una stanza circolare. È notte. Le vegliatrici parlano (il testo è interamente dialogico), aspettando l’alba. Si succedono battute sospese, domande, lamenti, timori; i sogni ed il passato, che inizialmente si volevano banditi dal discorso, finiscono con l’irrompere nel dialogo. Il tempo stesso diventa rappresentazione, grazie forse all’assenza di un orologio nella stanza («forse non parleremmo così se sapessimo che ora è»).
In questo caso la tensione tra scrittura, oggetto concreto, e mondo immateriale agisce su due piani.
Sul primo piano, all’interno del testo, le parole delle vegliatrici (pronunciate ed ascoltate dai personaggi, non scritte, ma pur sempre fonemi ragionevolmente concreti e riconoscibili) destano un’oscillazione verso il passato grazie al racconto della seconda donzella. Si tratta del racconto di un sogno appartenente al passato della ragazza: non una rappresentazione onirica, né un’aspirazione, piuttosto una costruzione mentale cosciente che ora, per essere detta, viene in parte alterata (d’altro canto si va verso un mondo irraggiungibile e nel tentativo di raggiungerlo non si può evitare discrasia, alterazione, volontaria o involontaria che sia). Nel racconto della donzella un marinaio sognato al limite dell’orizzonte marino, naufrago in un’isola lontana, edificava mentalmente, di giorno in giorno, la patria che non aveva mai avuto. Lo faceva, a sua volta, «in un sogno continuo», tanto che, quando (per caso, si dice) il marinaio smise di immaginare, si accorse di non ricordare nulla della vita reale. Ricordava solo il proprio sogno.
Il sogno / racconto della seconda vegliatrice non ha margini sicuri («il sogno non finì… Non so… Nessun sogno finisce»), ed incarna il movimento temporale verso qualcosa di diverso dalla scrittura, dalle parole concrete che lo suscitano. Il mondo immateriale che cerca di raggiungere è la storia stessa del marinaio, presente come un’aura in tante locuzioni delle vegliatrici. Tensione e desiderio, quindi, diventano questa rievocazione o racconto, il cui tempo, peraltro, rimane sospeso: non c’è sutura tra passato e presente.
Sul secondo piano il lettore si confronta direttamente con la scrittura di Pessoa; il desiderio di raggiungere il mondo immateriale di cui parlano Ludmilla ed il professor Uzzi-Tuzzii rischia di perdersi, tuttavia, nella misteriosa (esoterica, secondo una lettura classica) griglia di riferimenti ed accelerazioni temporali rintracciabili nelle parole delle vegliatrici. È un cerchio che non si chiude, e che si presta a diverse interpretazioni tra cui se ne possono individuare sette (e in particolare quella simbolica, platonica, plotiniana, nietzscheana, heideggeriana, cubista ed eteronomica), ma il confronto con l’invisibile suscitato da questo testo è possibile, anche per il lettore, solo con il sogno. Perché l’invisibile pare qui pura durata, continuo passaggio di tempo, per cui si può seguire attentamente la scrittura, ma oltre la scrittura ci si ferma.
C’è una categoria – il tempo – un assoluto che Pessoa è riuscito a rappresentare nel suo tratto sostanziale (la durata, appunto), immaginabile e pensabile nel momento della ricezione, solamente attraverso la durata del sogno, quando per sogno s’intende una costruzione, una rappresentazione.
Una storia antica richiamata a coscienza, insomma, che in quanto tale è successione. Diversa per ognuno di noi e non isolabile come un singolo pensiero.
Ecco, in questo, il tempo struttura predicazione e ricezione, in questo condiziona la nostra coscienza. Ci vuole un ulteriore racconto, il racconto di un lettore, banale o carente non importa, per superare la scrittura e poter confrontarsi o desiderare il mondo immateriale che vive e muore dietro, intorno alla scrittura.