Argo N.1_Mattia Cavagna: «Non omnes repetita iuvant (humilesque scripta)»
Ovvero l’unicità dell’esperienza poetica al momento della sua esecuzione
O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, ch’è grande sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici.
Questo passo del Convivio (II, vi, 8-9) si riferisce alla tornada (commiato) della prima canzone, in cui Dante dichiara apertamente la difficoltà d’intendere un’opera «tanto faticosa e forte». Il trattato ha infatti come scopo programmatico, metaforicamente esplicitato fin dal primo libro, di imbandire un convivio di sapienza, in cui le vivande (canzoni) verranno accompagnate da un pane (spiegazione e commento) che aiuti a digerirle.
Dante si inserisce così in quel contesto di entusiasmo per la divulgazione della cultura che anima tutta la civiltà comunale, e soprattutto Firenze, a cavallo tra Due e Trecento; e se da un lato avverte la necessità di erudire un pubblico sempre più vasto, dall’altro si rende conto che molti, pur restando all’oscuro del senso più profondo delle sue canzoni, sono in grado di apprezzarle ugualmente, anche ad un livello squisitamente estetico.
Nel de Vulgari Eloquentia (II, viii, 6), Dante precisa che col termine canzone intende «sia le ballate e i sonetti e tutte le sequenze verbali, in volgare o in lingua regolare, armonicamente disposte in qualunque metro […] in vista della modulazione melodica»[1]. Una definizione vera e propria, che postula l’intima connessione di parole e musica, cioè delle strutture morfo-sintattica e metrico-ritmica, che non si possono separare se non a livello teorico, qual è appunto il carattere di un trattato.
È chiaro dunque che la poesia in generale deve avere in sé delle caratteristiche armoniche che ne permettano la messa in musica, e ne garantiscano la fruibilità anche (inizialmente, ben inteso) ad un livello puramente estetico; caratteristiche che quindi allargano notevolmente il pubblico potenziale dei poeti. Naturalmente non è il caso di fare di Dante un giullare del popolo, ma questa funzione universalizzante della musica è ben nota ai livelli alti della cultura, specialmente all’istituzione ecclesiastica, che come vedremo, ha fatto del canto un efficace strumento propagandae fidei.
L’intento di questo articolo consiste nel mettere in evidenza, attraverso un costante riferimento alle fonti, la duplice funzione della musica rispetto alla letteratura medioevale:
– sul piano estetico-emotivo, nel momento unico e irripetibile dell’esecuzione di un brano poetico («non omnes repetita iuvant»)
– sul piano pratico, come veicolo potente ed efficace per la trasmissione e la diffusione dei testi («humilesque scripta»).
Partiamo ancora dal Poeta (Conv. II, xiii, 24):
La Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: così è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono.
È l’indagine degli effetti intensi, devastanti, che la musica ha sull’uomo, condotta, secondo il costume del tempo a livello fisiologico, in termini di rottura di equilibrio tra umori, spiriti e virtù del corpo, un po’ come per la fenomenologia d’amore.
Se una descrizione simile può sembrarci esagerata, facciamo un salto indietro nel tempo fino alla Grecia di Platone:
La sproporzione, la mancanza di ritmo e la disarmonia sono sorelle di un linguaggio e quindi di un carattere scomposto […]
non è possibile cangiare i modi della musica senza al tempo stesso sovvertire le fondamentali leggi dello stato (Rep.IV,401).[2]
Nel pensiero greco la musica aveva infatti ben altra importanza, non solo come forma d’arte, ma anche come strumento etico e pedagogico: il concetto pitagorico di armonia ripreso da Platone è messo in relazione alla musica nella sua capacità di influire sull’animo, sui costumi e persino sul comportamento degli uomini.
La sua etimologia (tèchne, ‘arte delle Muse’) ne sancisce l’intima connessione con le altre arti, concretizzata nella tragedia, insieme di musica, danza e recitazione, e ne decreta, come del resto presso tutti i popoli antichi, l’origine divina.
Di primaria importanza, anche a livello sociale, è la figura dell’aedo che, preferibilmente cieco (ricordiamo Dante «li spiriti del corpo cessano da ogni operazione»), canta ispirato dal dio e ha il potere di commuovere, dilettare e placare gli animi di quanti, dopo il lauto pasto, bramano ascoltare le gesta degli eroi. Ospite dei Feaci, Odisseo invita Demodoco al canto con molte parole di lode:
Per tutti gli uomini in terra i cantori
sono degni d’onore e rispetto, perché ad essi
la Musa insegna le trame e ne ama la stirpe.
Poi si commuove al ricordo di Troia, ridestato dal canto (Od. VIII, 479-481).[3]
Vi sono inoltre molti episodi del mito stesso, in cui la musica è un elemento centrale e determinante: pensiamo alla gara di canto tra Apollo e Marsia, che rappresentano i due aspetti dell’uomo antico, l’armonia apollinea e la disarmonia dionisiaca; o alle voci di Circe, delle Sirene, capaci di sedurre e inebriare i naviganti; o ai miti legati ad Orfeo che cantando ammansisce le belve e fa danzare gli alberi, che commuove gli dei dell’Ade per riavere l’amata Euridice, e che vince nel canto le stesse Sirene, salvando la nave Argo e i cari compagni. E ancora Odisseo, che compiendo la strage dei proci risparmia Femio, l’aedo, cui un dio «ispirò nell’animo ogni sorta di canto» (Od. XXII, 347).
Eredi di Orfeo, Demodoco e Femio, i musici del Medioevo, giullari, menestrelli e trovatori di ogni condizione ed estrazione sociale, non cessano di stupire e incantare il proprio pubblico nelle corti, alle feste, ai banchetti. Anche qui le testimonianze della letteratura non mancano di evidenziare quanto la musica a quei tempi fosse gradita e quali emozioni suscitasse. Così nel Decameron (X, 7) Minuccio, «finissimo cantatore e sonatore» canta sì dolcemente che «quanti nella real sala n’erano, parevano uomini adombrati, sì tutti stavano taciti, e sospesi ad ascoltare…». E che dire di Dante (il personaggio Dante) e Virgilio, che, in circostanze già di per sé straordinarie, alle pendici del Purgatorio, si fermano estasiati al dolce canto di Casella «come a nessun toccasse altro la mente» (Pg. II, 117). Ancora una volta il canto come esperienza unica e coinvolgente, capace di superare la soglia della morte.
Questa unicità va intesa anche a livello letterale, considerando che ogni singolo brano musicale e poetico era inevitabilmente legato ad un’esecuzione, alla performance di un artista che si esibiva in prima persona; per cui due esecuzioni identiche non solo non sarebbero state materialmente possibili, ma nemmeno auspicabili: la bravura e il successo del cantore risiedevano anche nella sua capacità di variare, di adeguare l’opera a seconda dei suoi ascoltatori.
Walter Benjamin usa la suggestiva immagine dell’«aura» che circondava un tempo ogni opera d’arte, autentica in quanto unica e non ripetibile, non riproducibile con le moderne tecniche audiovisive.[4]
Andrè Pirro nel suo articolo Idee sulla musica nella società medievale[5] parla addirittura di una «predilezione diffusa per ogni cosa che produca suono», portando ad esempio quello delle campane, che in Dante «lo novo peregrin d’amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si muore» (Pg. VIII, 4), e che in Chrétien de Troyes fa risuonare «li sain, li cor» (Chévalier au Lyon). Oppure il cinguettio degli uccelli, elemento immancabile nelle scene primaverili con cui iniziano molte canzoni di trovatori, e messo più volte in relazione col canto del poeta. Citiamo Jaufre Rudel:
E si dischiude la rosa silvestre
e l’usignolo nel mezzo dei rami
il dolce canto modula e svaria
e ancor lo leviga e lo raffina
è cosa giusta che dispieghi il mio.[6]
Voci della natura, o semplici rintocchi di campane che scandivano la vita di tutto il popolo, invitavano alla messa, proclamavano il dì di festa, interrompendo la monotonia di ogni giorno.
Anche questo è un aspetto importante del suono, della musica, quello cioè di distrarre, di offrire un momento di sollievo e refrigerio; e in questo senso può essere considerato anche il canto liturgico, cui la chiesa, fin dalle origini ha assegnato un ruolo di primaria importanza. Leggiamo infatti in S. Agostino:
Venne stabilito l’uso, già comune in Oriente, di cantare inni e salmi perché il popolo non si avvilisse nella tristezza e nel tedio: e da allora si è conservato fino ad oggi ed è stato imitato da tutto il mondo in quasi tutte le adunanze dei fedeli.[7]
Il passo si riferisce ad una situazione particolare, allorché un gruppo di credenti si chiuse per molti giorni in una basilica a Milano, in difesa del vescovo Ambrogio; ma vale a evidenziare come il canto fosse di consolazione e diletto per l’animo.
Pensiamo a quale autentico momento di festa doveva essere per un villano la messa domenicale; quali intense emozioni doveva suscitare in lui un canto che certo non aveva molte altre occasioni di ascoltare. Ancora S. Agostino, nelle Confessioni, dedica ai «piaceri dell’udito» un intero capitolo (X, 33),[8] in cui afferma di sentirsi spesso in colpa per l’eccessivo «godimento» provato nell’udire i canti del coro. E quanto profondamente erano scolpite e custodite nella mente dei fedeli la melodia e quindi i testi di tanti salmi che quasi nessuno aveva mai letto, e probabilmente mai capito a fondo. L’uomo del Medioevo, come sostiene il prof. Grado Giovanni Merlo ,[9] era infatti molto recettivo, la sua capacità di apprendimento era molto superiore alla nostra e, come vedremo, tra cultura scritta e orale c’era una grande interazione.
La tradizione attribuisce a papa Gregorio Magno (590-604 d.C.) la creazione del canto liturgico, a lui suggerito dallo Spirito Santo sotto forma di colomba, ma è solo durante il regno di Carlo Magno che compaiono le prime raccolte e i primi documenti scritti di notazione musicale. Questo enorme patrimonio culturale, il Canto Gregoriano, appunto, per due secoli era stato conservato e tramandato nei grandi centri di arte e cultura: monasteri e abbazie quali Montecassino, Bobbio, San Gallo, Metz; le loro Scholae Cantorum erano costituite da monaci specializzati che conoscevano a memoria un gran numero di canti liturgici e li insegnavano ai novizi più portati per la musica. Le formule melodiche dunque, non erano solamente un abbellimento, o un incentivo per catturare l’attenzione dei fedeli, ma anche un prezioso veicolo di trasmissione orale.
Le più antiche forme di notazione musicale, risalenti al IX secolo, sono costituite da segni grafici essenziali, detti neumi, che, posti sopra il testo, indicavano solamente la quantità di note relative alle sillabe (notazione adiastematica), senza precisarne l’altezza, né la durata. Si trattava dunque di un semplice appunto, un aiuto alla memoria per chi conosceva già il canto per esperienza diretta. Con la seconda metà dell’XI secolo compare il tetragramma, il rigo musicale a quattro linee, in coincidenza con la nascita della polifonia e il complicarsi delle formule melodiche: si avverte l’esigenza di indicare l’altezza dei suoni per distinguere le voci, ma il ritmo rimane affidato alla memoria individuale.
Ecco un esempio di come tra oralità e scrittura il limite non sempre sia così netto, e proprio questa complementarità è per un gran numero di studiosi all’origine della maggior parte delle prime opere letterarie in volgare. Gli esponenti della corrente tradizionalistica della Chanson de Geste (citiamo Gaston Paris, Jean Richnèr, Andrea Fassò) ne decretano appunto l’antichissima origine orale, fatta di infinite varianti e rielaborazioni: cantori e giullari si avvalevano di brevi appunti, repertorî di formule fisse per i temi diversi, epiteti, rime e refrain, a partire dai quali, accompagnandosi con un singolo strumento (viella, ghironda), improvvisavano la trama e il canto, aiutati da una melodia molto semplice, variandolo secondo le esigenze del pubblico. La messa per iscritto è un’esigenza relativamente tarda.
Lo stesso vale per la lirica trobadorica: non abbiamo alcun manoscritto anteriore al XIII secolo e non si conosce esattamente il modo in cui nascevano le canzoni; certo è che ancora una volta la musica funge da collante a una produzione tutt’altro che eterogenea. Il verbo trobar significa comporre sia il testo che la melodia, motz e so, che insieme formano l’obra.È probabile che anche i trovatori utilizzassero semplici appunti, fogli o rotuli di pergamena, a sostegno della memoria. I componimenti hanno un’organizzazione strofica, con una struttura metrica e melodica che rimane invariata per tutte le strofe, e sono caratterizzati, in generale, da una forte intertestualità: riferimenti ironici o polemici, riprese di rime o versi, o persino dell’intera melodia con un testo diverso (contrafacta), per lo più con intenti parodici; oppure veri e propri dibattiti in versi, i sirventes, in cui i partecipanti dovevano impiegare lo stesso schema metrico e melodico dell’avversario: da qui il detto «rispondere per le rime».È molto probabile che questi non fossero solo giochi intellettuali fine a sé stessi, ma mirassero piuttosto ad un successo di pubblico il quale, evidentemente, era in grado di cogliere i riferimenti, aiutato, ancora una volta, dal ritmo, dalle riprese e dalla musicalità dei versi, dalle rime e dalla melodia. Da quegli elementi insomma, che fanno (o meglio, hanno fatto) di musica e poesia un binomio perfetto, un’altissima forma d’arte e di comunicazione.
Note
[1] Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano-Napoli, Classici Ricciardi Mondadori, 1997.
[2] Platone, I Dialoghi, vol. II, a cura di E. Turolla, Milano, Rizzoli, 1964.
[3] Omero, Odissea, trad. di G.A. Privitera, Milano, Mondadori, 1986.
[4] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966.
[5] Andrè Pirro, Idee sulla musica nella società medievale, In Musica e storia tra Medio Evo e Età Moderna, a cura di F.A. Gallo, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 45-57.
[6] In La poesia dell’antica Provenza, vol. I, a cura di G. E. Sansone, Milano, Guanda, 1983.
[7] S. Agostino, Le Confessioni XI, 7, trad. di C. Vitali, Milano, Rizzoli, 1974.
[8] Ivi, X, 33.
[9] Grado G. Merlo, Dissenso religioso ed eresia tra la Riforma Gregoriana e la Riforma Protestante, ciclo di conferenze tenute nel gennaio 2000 per la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna.