ARGO N. 3_Elga Disperdi: «Smascherando Nostra Dea»

Lettera immaginaria di Massimo Bontempelli a Marta Abba

Antefatto

Il 22 aprile 1925 si tenne al Teatro Odescalchi di Roma la prima assoluta di Nostra Dea, commedia in quattro atti di Massimo Bontempelli. S’inaugurava così l’attività del Teatro dell’Arte, nato dall’incontro del gruppo degli Undici con Luigi Pirandello, nonché il sodalizio artistico e sentimentale tra il Maestro e l’attrice Marta Abba.

Massimo Bontempelli a Marta Abba

Roma, 7 febbraio 1925
Gentilissima Signorina
Studii con amore la parte della protagonista di Nostra Dea, e pensi che la rappresentazione di questo lavoro avrà tutto l’ausilio d’una prestigiosa messa in iscena, che faciliterà a Lei tutti i passaggi da un abito all’altro.
Conto molto sull’impegno che Ella metterà nell’interpretazione di questo. E intanto la saluto cordialmente.

Luigi Pirandello [1] 

Giungesti a Roma quello stesso febbraio. Il Maestro ed io ci eravamo lasciati docilmente sedurre dalle parole con cui Marco Praga aveva lodato la tua interpretazione di Mascia nelGabbiano di Cechov. Sembravi una degna incarnazione della mia poliedrica Dea. Avevo concepito l’idea di quella commedia da almeno tre anni, e quella se n’era rimasta lì, in silente attesa, incunabolo di un’idea solo vezzeggiata. Pirandello però, col forcipe del suo brusco entusiasmo, me l’aveva fatta partorire in una manciata di giorni di frenetico travaglio. Ed al tuo arrivo stava lì, in attesa di una prima attrice che la compagnia del Teatro degli Undici non aveva.
Ricordo ancora perfettamente quando facesti il tuo ingresso al Teatro Odescalchi per sostenere la prima prova. Una folata di vento scompigliò il bisbiglìo dei presenti, accompagnando il tuo incedere. Poi la prima scena. Certo, avevi seguito alla lettera l’invito di Pirandello e ti eri perfettamente calata in quell’insolita parte. Quando dopo il primo cambio d’abito improvvisamente passasti da un temperamento remissivo (il tuo vestito era di un timido color tortora, ricordi?) all’esuberanza focosa data dal tailleur rosso pronunciando: «Sì, mi sta bene!», tu creasti un vortice di fascino. Da una lontananza prenatale in meno d’un attimo conquistasti la terza dimensione entrando in pieno nella prima delle incarnazioni della metamorfica Dea [2].
 Nacque allora intorno un gran mormorio e Pirandello non seppe trattenersi dall’esclamare: «È Lei, è Lei. L’abbiamo trovata!». Il Maestro fu rapito da te e tu da lui stregata, ma… non ti permettesti mai di vivere appieno quell’emozione. Avevi un’altra parte da interpretare, Marta, anche fuori dalla scena, nel quotidiano carnevale della vita. Ed ora che non sei (che non siamo), cerco, io, di svestirmi del mio travestimento e sento che in fondo, l’unico modo per farlo è di cucirmelo addosso col filo chirurgico del discorso, sussurrandoti questa lettera con quel che rimane del mio flatus vocis. Indosso quindi la mia maschera calzandola a pelle, respirando dalle stesse nari, traspirando dagli stessi pori e chiudendo le palpebre sui suoi stessi occhi senza cigli.
In fondo, quel mio espediente teatrale, della donna che si trasforma a seconda del vestito in cui si avviluppa, non era destinato ad essere perfettamente indossato da te, Marta? Il gioco scenico, che io volevo quanto più naturale e realistico possibile, senza sottintesi surreali, senza atmosfere simboliste, non era quanto di più congeniale a te, al tuo destino di vittima delle convenzioni sociali, degli schemi sentimentali? Eppure hai potuto infrangerli più volte, ma sull’assito del palcoscenico più che nella realtà. Tu chi fosti, chi è Marta? Che persona era, chi è Dea? Una non persona, una marionetta senza carattere, volontà, individualità? Qualcuno vi ha scorto la donna, che non è nulla se non ciò di cui la si investe. Una che è nessuno, sì, ma che si anima improvvisamente indossando le vesti per lei confezionate da una sarta maga burattinaia, donna Fiora. Dea è il suo archivum d’abiti, il suoarmarium-guardaroba, il ricco forziere delle infinite possibilità espressive, scelte per lei da un’altra persona e di fronte alle quali si resta rapiti prima e poi straniati, spiazzati, delocalizzati e proiettati ogni volta su di una scena che è sempre la stessa sì, ma la protagonista del quale cambia ad ogni atto, pur rimanendo la medesima. Dolce Marta, quanti volti hai, quante facce, quante pieghe, risvolti orli e sottopunti; quante pinces, balze, ruche e frabalà? E il tuo busto, da cosa è mantenuto eretto, la tua vita da cosa è strozzata? Stecche di balena, scudi di testuggine, capaci carapaci di granseola? A chi mostrasti le ginocchia, l’incavo dell’ascella? a chi facesti odorare i capelli, a chi osasti alitare in volto? Controllo. Controllo! questa non è la pagina di un tuo diario intimo.
Quando il tuo burattinaio ti esaminò la prima volta (perché questa era la tua percezione del suo ascoltarti auscultarti), tu, tu non sapevi che dire e ti sussurravi incoraggiandoti: «Giù la maschera! giù la maschera ti prego, Marta, almeno qui. Mostra i denti, con tutte le loro otturazioni, le loro zone morte, tutte le devitalizzazioni che hanno dato vita ad informi granulomi mascellari». Tu, tu niente. Eri inerte. Oh, non che non parlassi, questo no! Anzi, ti sorprendevi stranamente loquace, quasi querula rispetto alla consueta e conveniente riservatezza che ti contraddistingueva. Avevi in mente un copione, di’ la verità! Che fai ora, taci? Oh no, non che l’avessi studiato a memoria, questo non si può affermare. Del resto quel che dicevi non ti era del tutto alieno; eri tu a parlare, no? Però il canovaccio dei tuoi pensieri era di tela straordinariamente robusta, di canapa grezza, e non riuscendo tu a disfarla quella tela, ci ricamavi sopra, illudendoti di distruggerne il disegno pregresso. E sceglievi accuratamente i fili, nei toni del bianco, del grigio e del nero; soprattutto del nero. Che colori tristi Marta. Qua e là qualche punto, qualche semplice ricamo, qualche macchia di colore e poi, poi, oh sì, qualche sfavillio d’oro o di seta. Insomma un arazzo. Che tenevi steso davanti a te e che ti copriva pian piano, s’intrometteva fra te e lui, con la pretesa, la tua pretesa, di denudarti. Ti coprivi ed avevi l’illusione di svelarti. Ti raccontavi per snodare districare dipanare quel groviglio di fili slanati e infeltriti, grommosi ed immorchiati di cui ti riscaldavi le scapole. Ti raccontavi credendo alle tue stesse parole. Ed infatti erano la verità. Non ti pareva di aver mai parlato così sinceramente con alcuno prima. Eri quasi orgogliosa di te stessa e ti sentivi già risollevata dal gravame cascame dalla zavorra fumosa del presente inquieto e sciamante dei tuoi pensieri ossessivi. La sua aria attenta, accorta, non proprio paterna, diciamo come di fratello maturo e protettivo, il suo occhio già un po’ opaco anche se vivacissimo, il suo pizzetto arguto, la sua gentilezza signorile, ti rassicuravano. E allora perché tessevi la tua ragnatela come Aracne che osa sfidare Minerva e diventa un ragno condannato a tessere in eterno la rete in cui s’è invescato. È un’immagine che t’inquieta, vedo. Ti agiti sulla sedia e contorci le mani. Ma se eri tu stessa ad usare la metafora della rete per descrivere il tuo male. Ah sì,… come ti eri espressa? Aspetta… avevi detto che… uno improvvisamente si trova bloccato al centro della ragnatela che egli stesso ha tessuto e si guarda intorno con sgomento e si chiede dove sia il ragno. Eppure siamo noi ragni di noi stessi e non sappiamo recidere il cordone ombelicale che ci lega alla trama del nostro amaro destino. Oppure siamo bruchi che tentano di uscire da un bozzolo che hanno secreto troppo fitto e spesso, perché ci sono scresciuti dentro cibandosi dei loro stessi escrementi. Sì, uno si sforza di uscire dal labirinto del sé tramite un lunghissimo filo d’Arianna e si ritrova incaprettato dalla sua stessa matassa, mani e piedi legati, proprio mentre sta per sopraggiungere chissà quale mostruoso essere, toro, drago o basilisco che sia, e nell’attesa angosciosa cerca un’arma, una lama, per liberarsi o delle frasche, un cespuglio, un abito per mimetizzarsi. Sì…, ora ricordo, avevi detto proprio un abito (ed io quanti ne avevo confezionati per te in Nostra Dea), nel quale sentirsi se stessi, sereni, rassicurati, finalmente protetti. Improvvisamente però quell’abito si restringe e ci stritola, come un piumato boa constrictor, e diventiamo vipere e aspidi di noi stessi, tentatori ed Eve delle nostre anime che crediamo pure e belle. L’abito dicevi, che ci strozza, oppure si allarga a dismisura, dilatando le maglie, lasciando intravedere le nudità che dovrebbe celare e di cui si è pudichi e vergognosi, come da bambini. E allora il risultato è quello di star lì a coprirsi tutta la vita. Così cerchi ancora un abito che ti renda giustizia, un’immagine che tu possa riconoscere tua. (Riuscirò a darti un abito di questo genere?)
Tra te e gli altri, tra noi ancora ora, diaframmi e maschere e muri e sipari pesanti. Ciascuno ha il proprio obiettivo attraverso cui osserva il mondo. Miopi, presbiti o strabici, affetti da glaucoma, colpiti da un inizio di distacco della retina, offuscati da cataratte di distorsioni percettive, quelle distorsioni sono il mondo di tutti. Ma non paghi d’esserci già riveduti e corretti secondo i mille copioni preconfezionati che la vita e l’esperienza offrono, ci sofistichiamo ancora. Indossiamo quelli che il Maestro avrebbe definito «berretti a sonagli». Non hai mai fatto vibrare che la tua «corda civile», Marta, non ti sei mai veramente concessa d’essere te stessa. Controllo… controllo… Ma sì, allontaniamoci da questo noi stessi così odioso, trasformiamoci, travestiamoci. Un abito di pelle umana per essere persone, mentre ci sentiamo solo larve, bruchi multicolori che attendono la loro metamorfosi.
Già ti sento sussurrarmi all’orecchio: «Siamo pupe, ninfe, crisalidi che non spiegheranno mai le ali, disidratate prima ancora di inturgidirsi d’acqua». Che maschera hai dunque scelto oggi? Stanca di giocare a mosca cieca hai deciso di recitare ancora la parte della farfalla imprigionata? Pupe, ninfe, crisalidi, idratare le ali. Chi pretendi ti capisca se ti esprimi così. Non tutti hanno il pallino dell’entomologia, come noi libellule letterarie, maschere ronzanti, fatte rivivere per un banale espediente retorico da chi è forse meno vero di noi.

Con affetto, Massimo

[…]
VULCANO (solo):
Infatti. (Saluta alcuni dei vestiti) Cara Dea, signora Dea, donna Dea… Quante Dea! (Spalanca l’armadio) Dea, Dea, Dea, Dea… Quante dee. A scelta. A profusione. A volontà. Basta aver quattrini per pagare donna Fiora artista sarta. Cinico! Perché cinico? Lo dite voi, cinico… (Al vestito color tortora) voi, che ieri no, l’altro ieri: oh, quando vi ho veduta la prima volta, al tè della contessa, era soltanto l’altro ieri? E ora tutto è finito? Sarà – voi, che l’altro ieri m’avevate quasi fatto innamorare. Voi, cara Dea, senza saper cosa vuol dire, mi chiamate «cinico»: ma lei – dov’è? Eccola – (al tailleur rosso) lei, donna Dea, la mattina dopo me l’ha subito fatta ritrovare la mia testa. A me, che vuole? piacciono le donne dolci, benefiche e sottomesse; lei – mi permetta che la consigli – deve attenersi agli uomini un po’ candidi, agli uomini un po’ pupi, come Marcolfo; Marcolfo: ah, che dite voi? (all’abito color tortora) che anche a voi Marcolfo ha fatto grandi dichiarazioni, più tardi nel pomeriggio, e diciamo così, al secondo atto? Non vuol dire: lui s’adattava; per lui non ci volete voi, cara Dea, lui continuava a pensare a donna Dea… (accenna al tailleur) la quale – questo stavo dicendo – la quale non mi chiamerebbe “cinico” soltanto perché ho detto… Non so che cosa ho detto: perché debbo ricordarmene? Perché obbligarmi ad essere conseguente? In mezzo a questo vostro profumo che mi dà alla testa. Il profumo, ecco la vostra unità. Olimpo. Olimpo di dee belle, davanti a cui mi viene voglia di mettermi in ginocchio, sebbene, sebbene, sebbene, sì, lo sappia, chi siete voi (al tortora) chi è lei (a un vestito giallo con tralcio di pampini cucito alla gonna) oh a te do subito audacemente del tu, […] [3].

Chiuse nell’armadio, queste intraprendenti creature vibrano come insetti luminosi, impazienti di essere sprigionate. Lì, fra tante altre, giace forse la donna del nostro sogno, non altrove [4]. 

Vincenzo Cardarelli

Note

[1] Questa breve missiva del Maestro fu allegata alla lettera con la quale Bontempelli inviò a Marta Abba il copione di Nostra DeaLuigi Pirandello – Lettere a Marta Abba, a cura di Benito Ortolani, Milano, Mondadori, 1995, p. 7.

[2] Libera parafrasi della descrizione che dello stesso episodio Bontempelli diede nella Nota a Nostra Dea.

[3] Luigi Baldacci (a cura di), Nostra Dea, in Massimo Bontempelli – Opere scelte, Milano, Mondadori, 1978, pp. 683-684.

[4] Vincenzo Cardarelli, Nostra Dea di Massimo Bontempelli al Teatro d’Arte, in «Il Tevere», Roma, 23 aprile 1925.

Если “Лабораторная диагностика и специфическая профилактика рожи свиней”не считать, конечно, страсти к разрушению, печально промолвил “Лабораторная диагностика риккетсиозов сельскохозяйственных животных”Танатос.

Когда журналисты “Лабораторная диагностика столбняка”закончили копаться в его истории, “Лабораторні методи діагностики хвороб органів дихання великої рогатої худоби”никаких следов уже не осталось.

Черный аппарат “Лабораторные исследования консервов”притаился, как тарантул, в своем углублении в “Ландшафт і врожай”стене.

Она оторвет Джона от его “Ландшафтные катены”вычислений.

Когда он умер внутри “Ландшафты родного края”Вирту и стал существом Вирту, ”