ARGO N. 3_Marco Benedettelli: «Quando caddi dalle nuvole»

Quando caddi dalle nuvole mi ritrovai dentro una faccenda bislacca. Era una festa un corteo o non so cosa e c’era tanta gente che non sapevo dove guardare, niente era fermo e tutto saltellava e schiamazzava, l’aria era rossiccia e c’era una musica di nacchere trombette e tamburelli. 

Io mi iniziai a grattare la zucca perché proprio non capivo dove ero capitato, per terra c’era del fango e della segatura e poi dappertutto una folla strampalata brulicante e variopinta. C’era un uomo con tre occhi e una donna cinghiale, delle piccole ballerine con le orecchie a punta che ridevano e piroettavano, un merlo in frac e cilindro che ammiccava alla donna orchidea. Vidi un angelo che suonava la zampogna e un banchiere in bombetta con le gambe lunghe lunghe che camminava veloce.
Ad un certo punto baldanzoso un porcello turchino trotterellò verso di me e mi leccò la mano, mi guardò e disse: – Sei forse appena arrivato e ti sei perso? Hai la faccia di chi non capisce un piffero e fai ridere ai gatti – e poi si mise a grugnire contento – che t’è cascata la lingua nel pozzo oppure se apri la bocca ti volano via le tonsille? Ah, ho afferrato, sei uscito da quel pesce laggiù e ora non sai dove sei – mi girai e vidi una grande balena verde che camminava lenta coi suoi mille piccoli piedi della pancia. Apriva ogni tanto le fauci per sbadigliare allora uscivano dei cardellini e delle stelle di mare che volavano in alto ed esplodevano in armonie di scintille – No, no, non vengo da lì, io vengo……. oh, non ricordo da dove, comunque non ho fretta e penso che mi fermerò qui per un po’ –. Così salii sulla groppa del porco e me ne andai in giro.
Il mio porco turchino era di poche parole, stava sempre a sgrugnare per terra col naso e ogni tanto si fermava per cacare diamanti. Io come un allocco continuavo a guardarmi d’intorno, non capivo da dove fossero tutti arrivati, chi fossero che non avevano un senso e una forma, piuttosto erano danza e colore, fiori di fantasia sparsi ovunque. Passammo nel mezzo di una banda di musici che suonavano una marcetta scassata e c’erano dei diavoloni rossi dal pelo ricciuto che si piegavano un po’ su se stessi con grazia per fare credo del culo trombetta.
Ma chi erano costoro, da dove venivano, o forse erano sempre esistiti ma io me ne ero dimenticato perché avevo sbattuto la testa o forse così mi avevano suggerito i grigi megafoni dentro le case e agli angoli delle piazze e ora mi ritrovavo sulla groppa di un porco turchino che ciondolava lento, e io non ricordavo chi ero ma non avevo fretta perché ero stordito da tanta festa innocente.
Arrivammo sotto un castello, era bianco e fatto forse di spugna. Sulle torri e le guglie c’erano tante bandiere e davanti all’entrata due gatti sornioni a mo’ di leoni. Col mio prode suino decidemmo d’entrare. I gatti ci guardarono dal profondo degli occhi a fessura e fecero tintinnare i baffi d’argento.
Dentro il castello c’era un cortile ed un mercato assai rumoroso con mercanzie d’ogni sorta. Un mago donava ai passanti dei sacchettini e diceva che era la polvere magica che dona il battito d’ali alle farfalle e una vecchietta piccina piccina e ringrinzita intrecciava con le mani nodose scialli di corallo purpureo. Io scesi dal mio porco turchino perché mi iniziavano a dolere le chiappe così lui mi disse buona fortuna grugnendo e poi corse contento dietro ad una gallina.
Mi fermai a guardare dei nani panciuti e rubicondi, camminavano in girotondo ed erano buffi perché da ogni orifizio del loro corpo uscivano bolle che poi volavano in cielo e non esplodevano mai, io stavo seduto a gambe incrociate per terra e ridevo come un bambino ma poi una fata notturna dei boschi vestita di nero velluto mi richiamò con il suo profumo di more e ciliegie.
La fata era svagata e sorridente e aveva ragnatele d’oro pitturate intorno agli occhi silenziosi, stava in piedi accanto a un tappeto su cui teneva delle piccole ampolle con dentro dei fluidi di mille colori. Io mi avvicinai, lei si passava la mano sottile tre le ciocche viola dei capelli di seta poi prese una piccola ampolla e mi disse – Tieni straniero, qui dentro ci stanno le parole che non s’usano più, le parole dimenticate che un tempo irradiavano luce. Poi le hanno imbavagliate strozzate e rese inermi, le hanno fatte morire. Prendile e portale da dove vieni, e lì sparpagliale al vento che qualcuno allora magari le trovi e vi tessa dei nuovi aquiloni – poi sorrise e allora io vidi dei guizzi di delfini agli angoli della sua bocca.
Così uscii dal castello, i gatti guardiani s’erano acciambellati, con un occhio dormivano e con l’altro lanciavano occhiate d’enigma, fuori era scesa la sera e l’aria s’era fatta blu scura ma ancora c’era la festa rumorosa e variopinta. La volta del cielo era trapunta di stelle e uno spicchio di luna pendeva attaccato con una catena d’argento, in groppa alla luna un violinista era intento a suonare qualcosa che io non sentivo però la sua barba lunga e canuta che da su in cima alla luna arrivava per terra ondeggiava ad ogni suo movimento nel suono.
Guardavo col naso d’in su e a un tratto mi accorsi meravigliato che la volta del cielo era un immenso tendone e le stelle cosi numerose erano invece dei piccoli buchi dai quali filtrava vattela a pesca che luce, allora mi venne il sospetto che quello era un circo o comunque uno spazio finito e tutto quel mondo era come un frammento, un messaggio chiuso dentro ad una bottiglia. Assorto in questi pensieri camminavo in mezzo alla folla finchè mi trovai sotto ad un antico palazzo d’avorio – Guardiamo che cosa c’è dentro – mi dissi – che comunque mi sembra ne valga sempre la pena – e iniziai a salire le scale di una delle porte d’entrata.
Salite le scale mi ritrovai con mia grande sorpresa su le gradinate d’un anfiteatro, e tutto d’intorno era gremito d’uccelli e uccellini fino all’ultimo posto. Giù in fondo un cavaliere bardato d’un armatura lucente in groppa al suo prode ronzino declamava battaglia a trenta o quaranta giganti con braccia che erano grandi come le ali dei mulini a vento.
– Codarde e vili creature è giunto il momento della mia riscossa. Già dissi che le faccende di guerra vanno soggette a mutamenti continui, ora voi me la pagherete e io mi coprirò della gloria che mi si confà – ciò detto partì di gran trotto con il suo ronzino e a lancia spiegata infilò il braccio del primo gigante che gli stava davanti, il gigante fece un tonfo per terra e si mise a frignare e tutti gli altri giganti scapparono piagnucolanti.
Esplose nell’anfiteatro un boato di cinguettii, tutti gli uccelli cantavano e giubilavano pieni di festa. Io mi avvicinai a un canarino e gli chiesi: – Perdona la mia sprovvedutezza ma mi sai dire il perché di così grande allegria? – e allora quello mi fischiettò: – Come, non sai? Il cavaliere ha vinto la sua antica battaglia e ha sconfitto la malinconia , ora giustizia è fatta e gli increduli possono pure andarsene a casa. – Non è che ci avessi capito un gran che, però ero contento per quell’anziano signore che aveva la faccia di un uomo che la sa lunga. Decisi di andargli a parlare per chiarire i miei dubbi, così mi feci largo tra gli uccellini, arrivai in fondo e gli chiesi: – Oh nobile cavaliere, lei che conosce la gloria ed è saggio, mi conceda una sola domanda: se quello là su è come io vedo un tendone a guisa di cielo allora noi siamo in un circo e dunque se questo è un circo mi dica, dove sono i suoi limiti, dov’è che questo circo si spegne e finisce? –
Il cavaliere non poté fare a meno di ridere e disse: – Che strana domanda, sei un po’ come un mio vecchio scudiero che d’avventure non si intendeva. Qui in questo circo, come tu lo chiami, non ci sono confini. Gli unici confini, mio caro, sono quelli che uno gli dà. –
Ciò detto sbatte la lancia sull’elmo dell’armatura ed al tintinnio gli uccelli si alzarono in volo, vorticarono in cielo poi vennero a prendermi con le zampette per i lembi della camicia. Si misero a sbattere forte le ali finché non staccai i piedi da terra e inizia a volare con loro, mi portarono in alto, più in alto anche dello spicchio di luna col violinista, più sopra, quasi a toccare il tendone e i suoi buchini stellari. Allora da lì guardai in basso a contemplare di sotto la terra, quella festa da dove venivo e da lassù in cima io vidi come una tavolozza d’un pittore impazzito, non c’erano forme ma solo colori intrecciati ed aggrovigliati in un perpetuo rimescolamento.
Poi gli uccellini iniziarono a planare giù giù verso il basso e arrivati a dieci passi da terra con grazia mi lasciarono andare, così caddi in un pozzo e scesi nel cuor della terra.
Mi svegliai dopo quanto non so in un dolce tepore e stordito ancora dal sonno pensai: – Oh, da che sogno che torno, quasi quasi mi rimetto a dormire -, ma non mi rimisi a dormire perché in torno a me c’era uno strano brusio: “ko ku bilo’ bilù frù, rurù cucù sciù”. “Ghe nga gò nghìnghe”, “Pa pe porepirepà”. Aprii gli occhi e vidi che intorno a me stavano tanti bambini con abiti da saltimbanchi, una frotta di bimbi ridenti che giocavano allegri e innocenti e facevano tintinnare i sonagli dei loro cappelli.
Dal pozzo ero caduto nel cuor della terra ed ora era come in una grotta che stavo e in mezzo alla grotta tra i saltimbanchibambini c’era una donna né vecchia né giovane né bella né brutta con il grande pancione delle donne che aspettano un figlio, sorrise e mi disse: – Ora torna pure da dove te ne sei venuto e racconta quello che hai visto. Non temere, vedrai, qualcuno ti crederà