ARGO N. 3_Oscar Fuà: «Carnevale e Saturnalia»

Al nostro Carnevale segue il periodo di Quaresima e, secondo un’etimologia accettata quasi unanimemente, il termine Carnevale deriva da carnem levare, ‘togliere la carne’, con riferimento al giorno precedente la Quaresima, in cui cessava il consumo della carne (amaramente, sia detto per inciso, tale consumo è oggi ridimensionato da ben altri, più allarmanti, motivi…). Il Carnevale è un periodo di festa e di licenza, riscontrabile presso quasi tutti i popoli del mondo, come sopravvivenza di antichi riti e abitudini il cui esempio più antico ci è offerto dall’antica festa latina dei Saturnalia, originariamente celebrata in un sol giorno, il 17 dicembre («optimus dierum» secondo l’entusiastica definizione di Catullo, 14,15), ma prolungata a sette giorni, fino al 23 dicembre, già nell’età di Cicerone: durata divenuta canonica in quasi tutto il periodo dell’Impero.

Saturnalia, in onore del dio Saturno, erano la festa di fine anno collegata con l’inizio dell’anno nuovo a gennaio: in essa sembra che si realizzassero condizioni di grande ed estrema libertà, quasi una rituale rottura dell’ordine costituito per poterlo ristabilire solennemente con l’avvento dell’anno nuovo. Effettivamente, il rovesciamento dell’ordine gerarchico è l’elemento principale, e più evidente, di continuità fra i Saturnalia e il Carnevale moderno. Il regno di Saturno era la favolosa età dell’oro (simile significato riveste nel mondo greco il regno di Crono), tanto idealizzata dai poeti latini, specie dopo l’atroce esperienza delle guerre civili, l’età dell’abbondante produzione di frutti, senza alcun segno di discordia o suono di guerra o amore di guadagno, mentre ignote erano la proprietà privata e la schiavitù. E proprio il carattere più originale e notevole di questa festa era la licenza accordata in essa agli schiavi, che potevano burlarsi del padrone, ubriacarsi con i loro superiori, stare con loro a tavola, senza poter essere ripresi per un comportamento che in altre occasioni avrebbe meritato frustate, carcere o addirittura morte. Il capovolgimento gerarchico prevedeva che i padroni cambiassero posto con i loro schiavi, li servissero a tavola e non si preparasse il pranzo per il padrone finché gli schiavi non avessero mangiato e bevuto a loro piacimento. Senza dubbio nella settimana dei Saturnalia Roma era in preda a caos e confusione, come attestano Seneca (ep. 18,1) e Plinio il G. (ep. 2,17,24): quest’ultimo racconta che durante i Saturnalia si rifugiava in un villino appartato per studiare lontano dalla sfrenatezza e dagli schiamazzi di quei giorni. Tipico della festa era anche lo scambio dei doni, per lo più candele e statuette in terracotta (numerose sono le testimonianze di questa usanza in Marziale), in qualche modo analogo a quanto avviene nel nostro Natale che ricorre, fra l’altro, in un periodo dell’anno assai vicino. A questo punto resta da spendere qualche parola su un aspetto di questa festa, ancora oscuro nell’esatto significato: la presenza e le competenze di un Saturnalicius princeps (Seneca, apocol. 8,2), figura che potrebbe aver rappresentato lo stesso dio Saturno; alla fine della festa sembra che egli venisse messo a morte; ma di un lato così cruento di questa tradizione non abbiamo testimonianze precise, ed è più logico pensare ad un’uccisione simbolica mediante un fantoccio o qualcosa di simile, ancora in analogia con quanto avviene oggi in certe usanze di fine anno o durante il carnevale, allorché una figura burlesca, variante da regione a regione, dopo una breve carriera di gloria e di dissipazioni viene pubblicamente bruciata o in altro modo distrutta fra grida e finto dolore del popolo.