Identità selvaggia, Nanni Balestrini e Luigi Cinque ⥀ Evento speciale per KatÀstrofi
Torna domani alle 18 la terza puntata di KatÀstrofi – Stati di eccezione televisibili, visibile sul nostro canale youtube.
Dopo le due puntate sulla poesia, ArgoWebTv e Autoanalfabeta – University of Utopia propongono uno speciale musicale con Luigi Cinque, che vedrà la partecipazione di Petra Magoni.
Di seguito presentiamo una performance di Luigi Cinque su Arianna di Nanni Balestrini, testo di cui vi proponiamo alcune parti.
A seguire, un ricordo di Luigi Cinque su Nanni Balestrini e un testo sull‘identità selvaggia.
Arianna di Nanni Balestrini – Progetto e Musica di Luigi Cinque
Arianna
si sgretola magnificamente
rimbalzano infinite
albe inquinate
appese al cielo
appena scavato
affiorano spazi
ventose afferrano
galleggiano sparsi
frammenti freschi
sul tetto giallo
pagine strappate
parole posticce
affondano sgonfie
dolorose cicale
risuonano nei buchi
ancora abitati
lasciano passare
soltanto poca luce
lentamente si srotola
l’ultima attesa
niente più come prima
nel vetro sanguinano
resta sola la fragile
inutile scintilla
filamento sospeso
percussioni scalfiscono
invisibili orizzonti
se ne sta andando
[…]
3
ci siamo appena
articolando incrostati
incontrati liquefatti
tra un silenzio e l’altro
tutto sudato
fino al collo
fra le gambe
l’orizzonte scavato
lì in fondo alla
dove veniva un grido
gli occhi aperti
non ti vedo
lentamente scompaiono
lentamente dissolti
urtandoti appena
cedono finalmente
provando a sentire
un po’sotto il ginocchio
mettiamoci tutto
giriamo in fretta
golosa vibrando
dall’altra parte
ti sento muovendoti
se tutto va bene
incollati immersi
voltati adesso
inaspettate profonde
onde nascondono
nascono filamenti
lunghi protesi verso
aspirando e commozione
cede e si rompe
dalla testa ai piedi
vetro insaziabile
immutabile crescita
del desiderio stanato
stanotte ripetilo
visto sul muro
spariva riappare
alla fine del gomito
gomitolo suoni
perduti arrivano
affonda la lama ma
penetra immobile
mancava l’ascella
non ho niente da
possiamo parlare
non ci sono parole
tra poche ore
segnale irripetibile
[…]
5
iride l’occhio la
perduta figura
ritorna uguale
uguale a cosa
tienti forte
tienti sveglio
svegliami quando
qua manca poco
dalla testa ai piedi
si muove sul fondo
sullo sfondo appare
a testa in giù
momenti in cui
sempre più in fondo
fondeva il cielo
ci siamo sentiti
non basta ancora
si sente bene
tutte le volte che siamo
non somiglia più a niente
con le braccia così
muoviti un poco
colato appena
guardalo adesso
sul pavimento azzurro
come il cielo domani
domande invisibili
le labbra appese
nessuno può sapere
provvisorie sensazioni
minime mimetizzate
quanto tempo è passato
da una parte all’altra
movimenti discontinui
mimati ancora
attaccàti ancora
per la prossima volta
nella finestra accesa
silenzio adesso
sei sicuro di non
che cosa mi ha fatto
diventa tutta bianca
l’alba indecente
prova a guardare
pochi occhi per
vedere tutta
tutta intinta nel
sciogliti dalle
scivola via dal
mancano altre
[…]
7
iride l’occhio la
perduta figura
ritorna uguale
uguale a cosa
tienti forte
tienti sveglio
svegliami quando
qua manca poco
dalla testa ai piedi
si muove sul fondo
sullo sfondo appare
a testa in giù
momenti in cui
sempre più in fondo
fondeva il cielo
ci siamo sentiti
non basta ancora
si sente bene
tutte le volte che siamo
non somiglia più a niente
con le braccia così
muoviti un poco
colato appena
guardalo adesso
sul pavimento azzurro
come il cielo domani
domande invisibili
le labbra appese
nessuno può sapere
provvisorie sensazioni
minime mimetizzate
quanto tempo è passato
da una parte all’altra
movimenti discontinui
mimati ancora
attaccàti ancora
per la prossima volta
nella finestra accesa
silenzio adesso
sei sicuro di non
che cosa mi ha fatto
diventa tutta bianca
l’alba indecente
prova a guardare
pochi occhi per
vedere tutta
tutta intinta nel
sciogliti dalle
scivola via dal
mancano altre
[…]
L’Arianna con Nanni…
di Luigi Cinque
Poco più che ventenne conobbi Nanni alla Cramps a Milano verso la metà dei Settanta. Quel luogo non era solo il centro della più intrigante e coraggiosa casa discografica in Italia (e non solo), ma anche punto di riunione della mitica redazione di Alfabeta. Inutile persino citare i nomi straordinari che si aggiravano da quelle parti diretti tutti dal mitico Gianni Sassi: da Stratos e gli Area e Battiato a Eco, Volponi, Calabrese passando per il gotha della sperimentazione musicale da Lacy, Marchetti, La Monte Young fino ad arrivare, di Fluxus in Fluxus, a Cage. Alcuni di loro scomparvero in quel dannato 7 Aprile 78 perseguiti (spesso arrestati) da un giudice di nome Calogero il cui teorema accusatorio equiparava l’intellettualità antagonista al reato di terrorismo e banda armata. Toltasi la maschera, il Sistema ripartiva con migliaia di mandati di cattura. Nanni riuscì a fuggire in Francia. Lo rividi nel giugno 1983 quando ebbi la ventura di vivere e accompagnare dal vivo, con elettronica e sax soprano, alla maniera di Steve Lacy (che piaceva a tutti loro), una settimana di letture del Gruppo 63 al Festival di poesia di Gogolin. Era la prima reunion dei Novissimi dopo i traumi e le separazioni politiche. Furono grandi serate situazioniste e giornate straordinarie al Pastis ascoltando, in deliziosi bar provenzali, conversazioni con Sanguineti, Pagliarani, Porta, Giuliani e Balestrini. Valeria Magli danzava con noi. Da allora con Nanni è iniziata una collaborazione. Suono e parola al centro del discorso. Abbiamo sperimentato la possibilità di costruire intense combinazioni. Ho imparato molte cose da Nanni. Ultimamente, in occasione di un lavoro per Orchestra commissionatomi dai Teatri Lirici di Modena, Linz e Novi Sad, mi sono improvvisamente trovato tra le mani un metodo. Era un segno di Nanni. Grazie a lui avevo maturato la capacità di avanzare nella scrittura attraverso un processo combinatorio di realtà sonore già esistenti. Di frammenti che assemblati diversamente illuminavano il sentiero. Con Nanni è stata una lunga tourné, magari solo al bar di Via Merulana a due passi dal Pasticciaccio, elaborando forme di parole e musica, alla ricerca di un qualcosa che abbiamo spesso chiamato “operapoesia” senza poi saperne dare una definizione esatta. Una sorta, dicevo io, di Identità Selvaggia che in un profondo di passato antropologico e di futuro distopico lega indissolubilmente suono e parola. L’Elettra di Nanni è un testo bellissimo. Ne abbiamo fatto molte versioni. Il live di Tokyo è diventato un bel libro/disco per le Edizioni Sossella. E’ stato un gran bel viaggio quello con Nanni. L’Arianna era un progetto ancora da sviluppare. Sapevamo entrambi che non c’era più tempo. Questa è un’edizione presentata a Roma alla fine del 2018 in un posto magico qual è l’Auditorium (quello vero) di Mecenate a Roma. Una partitura aleatoria che, grazie alla intensità e bravura degli interpreti, assume moderne fattezze stravinskyane, tanto da apparire qua e là, emula attenta e inconsapevole dell’Histoire du Soldat. Un trio ben assortito di live electronics e strumentazione particolare come la washtube bass di Valerio Corzani ma anche il mio clarinetto contralto e la tromba strepitosa di Fabrizio Bosso. Il concerto è qui ripreso da una camera fissa. Consideratelo come una ripresa radiofonica con web cam sull’ultimo concerto con in scena il poeta maestro Balestrini, che legge Arianna insieme alla puntuale voce di Ilaria Drago.
L’Identità Selvaggia
di Luigi Cinque
Se ricerchiamo, per quel che ci è possibile, nella classicità mediterranea, troviamo che tra parola poetica e suono-musica esiste una vera e propria Identità Selvaggia: permane il senso che la parola è di per sé, innanzitutto, suono, mentre il rumore/suono/musica non è solo significante, ma, per via simbolica, verbo primario, radice, suggestione e significato esso stesso. Il ritmo, già possessione metrico-poetica, diventa infine il luogo elettivo di quell’identità: il luogo vero della convivenza. Questo i tragici greci lo sapevano bene, e infatti elaboravano una partitura-tessitura di testo ritmico e suono: erano, insomma, autori-compositori a tutto campo, non semplici librettisti.
L’unità narrante di suono e parola è da considerare oggi, insieme alla microfonia e alle nuove tecnologie, come una vera possibilità di evoluzione contemporanea del teatro di poesia. L’Identità Selvaggia è la sospensione del significato e del significante in uno stato di reciproco ascolto; è l’essenza stessa della poesia di tradizione orale; è un’azione scenico-sonora tesa a cogliere e restituire la risonanza altra – terza – tra musica e parola, considerando quest’ultima come anticipatrice di suono, e la musica come paesaggio della parola.
Se assistiamo, oggi, a reading che si spacciano come performance di oral poetry, ci accorgiamo, molto spesso, che i poeti portatori sono vit- time di un insanabile equivoco. Leggendo le loro poesie davanti a uno spartito e accompagnati alla meglio da un ensemble musicale acustico o elettronico che sia, pensano di compiere il gesto forte e di approdare negli «orti saraceni» della «nuova Poesia liquida». Non è così. Intanto un’a- zione del genere presuppone in prima istanza – ma lo stesso non basta – la memoria del testo scritto. E poi mancano tutti quei fondamentali che ri- troviamo nei residui di poesia orale tradizionale ancora vivi sia nelle fasce folkloriche europee, come i cuntisti, sia nelle grandi tradizioni dei griot africani, degli sciamani nordici, ma anche in molti infiniti studi realizzati in ambito di musica contemporanea. Rendiamo omaggio ai tanti vocalisti moderni che hanno sperimentato in questo senso.
Comunque, pur lasciando al testo le sue prerogative grammaticali e fonematiche, la voce deve rispettare (o contraddire consapevolmente) i parametri dell’intonazione, del timbro, della durata, dell’espressione.
Da qui si passa al secondo punto. Al salto vero. Serve l’interplay. Il rito dell’oral poetry si compie solamente se in scena prende forma una nuova identità sciamanica. Il poeta deve ascoltare, giocare con gli altri aspetti della musica prodotta in scena poi costruire, inventando in tempo reale il poema. Questo è il salto: comporre nel tempo del rito scenico. Le parole non sono più «previsione» ma devono essere «in-visione»; devono essere possessione e improvvisazione, ovvero, elaborazione della parola metrica, e del senso, in tempo reale. Anche qui le tecniche oltre che i fondamentali sono decisive. Esse prescindono dal talento, si capisce, ma servono tuttavia alla forma, all’intrattenimento. Valgono soprattutto per esplorare l’immediato, alleggeriscono l’istinto. Servono a sospendere il tempo reale della performance e consentono all’esecutore di entrare nel tempo molecolare della comunicazione. Senza una tecnica acquisita è molto difficile proporre alcuna forma di relazione con la musica e con l’ascoltatore.
Vanno dunque considerati bagagli indispensabili per un «teatro poetico della visione» i parametri di ritmo, metrica, armonia, radice, significato, significante, comunicazione, ascolto, intonazione, microfonia, tempo reale, vocalità, elettroacustica, vibrazione, gesto/corpo, respiro, sguardo, silenzio, memoria/testo, bagaglio narrativo.
Se guardiamo alla tradizione, l’aedo, il rapsode, il griot, lo sciamano, il cuntista, ma anche i moderni poeti di strada metropolitani e molti performer di area classica/contemporanea, avevano e hanno padronanza di tecniche precise e studi preparatori a carattere ritmico/mnemonico/informativo. Procedono con un sistema di formule collegate le une alle altre secondo rapporti abbastanza complessi di equivalenza, di complementarità, di opposizione, sia semantici, sia funzionali. Così in scena, nel tempo di richiamo della memoria (quasi un pilota automatico), nella citazione della formula preparata, pur continuando a ritmare e dire, (o ripetere: la ripetizione è un elemento tecnico formale decisivo) riescono a sdoppiarsi, permettendosi una sorta di sonnambulismo creativo e visionario che è quello che produce la forza «poetica e politica» del poeta medium; che gli fa tendere la mano dentro di sé a raccogliere informazioni extrasensoriali. Per questo il poeta performer contemporaneo deve costituirsi, anche al- l’interno della propria produzione, un bagaglio di memoria, lavorare in scena per strutture modulari a collegamento istantaneo, essere attore della composizione immediata.
Dopotutto, i ragazzi del rap americano, quelli della inner city, ovvero la città profonda e nascosta, quelli certo più veri e interessanti dei nostri eroi della beat generation, che oltretutto i fondamentali li hanno imparati dalla strada, usano le tecniche del dozens, un gioco verbale diffuso e me- morizzato che permette di improvvisare su norme retoriche e metriche complesse e rigorose; che permette di picchiare con le parole come quel maestro di pugni e insulti verbali ritualizzati – dice Sandro Portelli – che risponde al nome di Muhammad Alì.
Penso davvero che oggi, nell’era della replica delle repliche, nel terzo e forse ultimo tempo della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, nel se- colo della globalizzazione degli oggetti e della tribalizzazione dei soggetti, un’improvvisazione consapevole, sapiente, che si prenda in scena i tempi – irrinunciabili – della composizione di suono e senso sia l’unica vera prova di forza che possiamo operare. L’oral poetry deve riferire da altre dimensioni e determinare eventi non replicabili. Take cinematografici unici.
Sarà bene che le schiere di narcisi con pretesa di oral poetry escano dal povero surrealismo di massa con le loro paginette appoggiate su leggii defunti e provino a fare il salto nell’Identità Selvaggia della parola stabilendo finalmente una connessione accelerazionista e postumana tra arcaico tradizionale e terzo millennio. Questa sarebbe musica per le nostre orecchie. E se, poi, vogliono perpetuare la lettura, si convincano almeno che leggere in scena deve essere un modo di dimenticare. Una non forma dell’oblio. Un modo, come dicevamo citando Carmelo Bene, di scomparire e rendere nuovamente bianca la pagina appena letta.
In quanto poi alla canzone, essa è una singolarità differenziata. Gioca in un campionato diverso. E la pagina scritta di un libro di poesie è ancora altro. La questione è semplice e già ampiamente dibattuta. La confusione fa male. ( Luigi Cinque )
(Kunzertu 7718 memorie di bordo per una musica del terzo millennio . Edizioni Hypertext O’rchestra/Zona)