La voce a voi dovuta ⥀ Artaud, Capovilla e le interiezioni
Venerdì 3 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma, in occasione della rassegna Canzoniere, la poesia torna in scena, a cura di Lello Voce, uno spettacolo teatrale dove Pierpaolo Capovilla, frontman del Teatro degli Orrori, darà voce al testo Succubi e supplizi di Artaud: la poesia torna alla sua antica origine musicale. Ne parla con lui Martina Belelli nell’intervista che segue
Parlare di Artaud è parlare di una lingua sconosciuta, è parlare della sua famiglia celeste, del suo Doppio, della malattia e dell’inevitabile suicidio. Pensandoci bene, però, forse quel suicidio si sarebbe potuto evitare. Tuttavia, in fondo, proprio chi è lucido può permettersi il lusso di un delirio.
Artaud scrive per gli analfabeti e la sua lingua non conosce più l’arbitrarietà tra significante e significato, tipica di Ferdinand De Saussure, il ginevrino padre della linguistica generale. La sua è una lingua per gli eletti, la lingua della taumaturgia e della chiaroveggenza, la lingua della spiritualità. Ma questa lingua di cui si parla è anche la condanna di Artaud, perché, oltre il misticismo, dobbiamo per forza ascrivere a questa lingua l’aspetto psichiatrico: Artaud era schizofrenico e l’elaborazione del suo linguaggio segue tipicamente le strutture delle cosiddette schizofasie o schizolalie (termini elaborati da Emil Kraepelin).
Come riconoscere una schizofasia? Il linguaggio schizofrenico non segue una logica precisa o specifica, tuttavia utilizza delle associazioni, ovvero concatena frasi partendo possibilmente da una parola trainante: “Mi piace il blu” → “Il blu è il colore del mare” → “Mi piace andare al mare d’estate” → “D’estate fa molto caldo”. Come si può evincere dall’esempio appena riportato, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un flusso di coscienza, una sorta di stream of consciousness, concetto portante della poetica modernista. Qui, però, è tutto diverso, non si tratta di flusso di coscienza, ma di un’associazione senza regole, un’insalata di parole, che porta inevitabilmente al collasso della parola, alla fuga delle idee e alla verbigerazione, arrivando così alla glossolalia, che consiste in una produzione del linguaggio senza norme, incomprensibile per chi parla e per chi ascolta. Spesso la glossolalia ha vicinanza e paradossalmente somiglianza con la lingua di partenza (L1) del parlante. Si osservi questo esempio tratto da una delle tante corrispondenze racchiuse nei Cahiers de Rodez:
«Chèr Monsieur Delaglande, je vous écris pour […] KARATOUM KRATOUM SCHRAUMTASSEMENT de la douleur».
Le parole scritte in maiuscolo non esistono, non possono essere reperite in nessun dizionario, sono frutto di un pensiero che è altro da sé, che sfiora il misticismo e rientra nel delirio, perdendosi. Tuttavia, se pronunciate con una tipica /r/ uvulare, e cioè prodotta con l’ugola (banalmente nota come /r/ moscia), queste parole parrebbero davvero appartenere ad una lingua vicina ad Artaud: la sua, il francese.
Altro fattore determinante per riconoscere il corpo e il senso delle lingue schizofreniche è fare riferimento al rapido e repentino cambio o passaggio di registro. Non è affatto raro che, durante i colloqui con gli specialisti, le persone affette da schizofrenia o forme ebefreniche cambino il modo di parlare e di esporre le loro argomentazioni rapidissimamente, passando da un registro talvolta aulico a uno medio-alto, fino a raggiungere un registro basso e informale.
Si è parlato a lungo delle lingue schizofreniche, dunque si ritiene ora necessario iniziare a pensare a cosa viene ancora prima dello studio di qualunque tipo di lingua: l’ascolto. La prima cosa che ci affascina o ci attrae di una lingua, per quanto complessa essa sia, è proprio il suono, perciò è giusto chiedersi: quanto davvero abbiamo ascoltato la lingua di Artaud, ma soprattuto la sua voce? Quanto ciò che fu scritto da lui nei vari manicomi ci ha davvero toccati nel profondo, ammaliati e inquietati allo stesso tempo?
Di certo ha colpito Pierpaolo Capovilla, cantautore, bassista e attore italiano, fondatore delle band One Dimensional Man e Il Teatro degli Orrori. La sua missione e ciò che ci ha raccontato sono tracce tangibili e forti di un uomo che decide di dar voce a tutti i «suicidati della società», come Van Gogh, ma soprattutto come Artaud. Come farà? Nel modo in cui piaceva ad Artaud, tramite il teatro, quel θεάομαι (theaomai), che in greco vuol dire proprio vedere e che ha dato origini proprio alla parola teatro.
Per raggiungere questo grande obiettivo Capovilla ha ideato e rappresenterà all’Auditorium della Musica di Roma, venerdì 3 dicembre, nell’ambito di Canzoniere, la poesia torna in scena a cura di Lello Voce, lo spettacolo Interazioni. Obiettivo nobile, che sa d’intrapresa, è dare una voce agli esuli, agli ultimi, ai reietti, a coloro che vivono lo stigma della malattia mentale, della paura e dell’ignoranza della società odierna.
Il tuo percorso di autore inizia da lontano. Raccontaci qual è la tua formazione.
Sono nato a Varese nel 1968, ma sono veneto, di Treviso, figlio dell’immigrazione interna degli anni Sessanta. Ho studiato Pedagogia, Lingue e Letterature Straniere e Lettere e Filosofia, senza mai laurearmi.
Come nasce Il Teatro degli Orrori?
Il Teatro degli Orrori nacque grazie al mio desiderio di fare qualcosa di nuovo e innovativo nella scena indipendente della musica rock italiana. Coinvolsi i miei amici più cari. Ora non lo sono più. Pazienza. È la vita.
Perché Artaud? Cosa in particolare ti ha attirato di lui e senti vicino a te?
Lessi Il Teatro e il suo Doppio quando avevo vent’anni. Mi si aprì un mondo di fronte.
Ciò che più mi infervorò fu il concetto stesso di teatro, quello per cui la rappresentazione teatrale diventa un momento di vita veramente vissuta. Questo concetto divenne fin da subito centrale nel mio modo di interpretare anche la musica. Che cos’è un concerto rock se non teatro…
Da dove ti è venuta l’idea di Interiezioni?
Nacque dalla relazione fra me e il Forum Salute Mentale. Bisognava mettere in scena qualcosa di potente per contrastare l’ideologia manicomiale, nel segno dell’idea basagliana di abolire non solo i manicomi, ma anche la loro falsa coscienza, e con essa la contenzione meccanica: abolirla, la contenzione, è il primissimo passo per disfarci del manicomio veramente, così come del fascismo egemone che c’è nella comunità psichiatrica nel nostro paese.
Qual è secondo te il rapporto che si crea tra la poesia e la performance sul palcoscenico?
La poesia pretende l’enunciazione. Il palcoscenico permette che ciò avvenga sul serio.
La poesia è esitazione tra suono e senso, come affermava Paul Valéry. Pensi che la musicalità intrinseca al verso si sposi col tuo genere di musica?
Si, lo penso.
Il collasso della parola. La poetica di Artaud è la poetica dello sgretolamento del linguaggio, del delirio, della schizofasia e dei percorsi glossolalici. Lei concorda con Artaud sul suo affermare che la parola è una condanna, perché una volta detta muore?
Artaud, qualsiasi cosa disse, fu usata contro di lui. La chiarezza emblematica che c’è nella sua versificazione fu costantemente contraddetta e combattuta dall’ideologia psichiatrica, da sempre e per sempre incapace di comprendere gli uomini e le donne, fino a fare di uomini e donne semplici e nudi corpi sacrificali di una non scienza, di uno scientismo squisitamente moderno, volto a reprimere la sacrosanta libertà di donne e uomini ad essere se stessi. La psichiatria, specie nel secolo scorso, ma anche nel nostro, è uno scientismo. Né più né meno.
Interiezioni tiene presente la nozione di «Teatro della crudeltà», per cui la parola deve perdere il senso e diventare piuttosto gesto, soffio e pausa?
Il Teatro della Crudeltà ha il suo fondamento nell’idea stessa di Teatro, quella dove per Teatro si intende Vita, finalmente vissuta fino in fondo, quella dove il Gesto è parola, e il silenzio narrazione.
Per Artaud, la svolta nella sua idea e rappresentazione di teatro avviene nel 1931 all’esposizione coloniale di Parigi, dove assiste ad uno spettacolo teatrale particolare, tutto basato sul gesto e il silenzio, sulla fisicità: il teatro balinese. Che impatto avrà questo sul suo spettacolo?
Nessuno. Affronterò il poeta attraverso le sue parole, non attraverso la suggerita gestualità. Non sono Carmelo Bene. Meno male.
Appariranno durante le sue letture forme glossolalico-schizofasiche? Quale reazione si aspetta dalla platea?
Non ci saranno episodi glossalico-schizofasici. Li ritengo inessenziali.
Artaud è come Van Gogh: un suicidato della società. In cura a Rodez dal 1943 al 1946 conosce il dottore Gaston Ferdière, pioniere dell’elettro-shock. Viene sottoposto a terapia elettro-convulsivante anche quattro volte a settimana, arrivando a deteriorarsi nel corpo e nella mente. Lei pensa che questa psichiatria abbia ancora oggi degli effetti disastrosi sui pazienti psichiatrici?
L’elettro-shock viene praticato molto raramente nel sistema sanitario e psichiatrico italiano. Ci sono alcuni tristi esempi, come quello del professor Fazzari, ma sono del tutto interstiziali nel panorama della cura psichiatrica nel nostro paese. Per fortuna. È tutto il resto che non torna. La sedazione psico-farmacologica, la contenzione meccanica, il TSO (ai quali il Fazzari era tanto affezionato), e via dicendo. Ci sono 323 Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) nei nostri ospedali. Fra loro quelli che non praticano l’approccio della violenza e della vessazione della contenzione meccanica sono solo una ventina.
Malattia mentale = stigma sociale? Ancora oggi i pazienti psichiatrici vivono spesso ai margini, come reietti, esuli e dimenticati. Pensa che il suo spettacolo possa contribuire a dare una voce a queste «navicelle che non tornano alla base»? Crede che il suo spettacolo possa avere una parte catartica che sensibilizzi gli spettatori su tematiche così spinose e delicate?
Ne sono certissimo.
Schizofrenia e mente divisa, realtà e non realtà. Il doppio è fondamentale in Artaud, si pensi anche al rapporto col dottor Ferdière, un odi et amo. Come renderà questa idea del doppio nel suo spettacolo?
Ci penserà il poeta stesso. Sarà sufficiente enunciarne il verso, e tutto il dolore e la sopraffazione che c’è, perché c’è, in quel doppio, verrà semplicemente e inevitabilmente a galla, come a galla sorge un cadavere nel fiume della vita.
Artaud affermava: «Chiunque scriva, dipinga, scolpisca, modelli lo fa di fatto per uscire dall’inferno». Quanto è d’accordo con questa affermazione? Crede che la sua musica possa essere utile a lei e alla collettività per uscire dall’immenso concerto di inferni di cui già parlava, a soli 17 anni, Arthur Rimbaud nella sua Une saison en Enfer?
Non posso non essere d’accordo con Artaud. Viviamo in un inferno (un purgatorio?) nel quale pochissimi hanno tutto, e tutti hanno niente. È in questo niente la nostra immensa ricchezza.
La citazione del titolo di questo articolo sembra esplicita e ovvia, è presa da Pessoa, ma invece di lasciarla invariata come appare, «La luce a te dovuta», si è deciso di trasformarla in La voce a voi dovuta: la voce che è mancata ai pazzi e che ancora ai pazzi manca, il non detto, il non espresso, per dirla con il De André della canzone Il Matto («Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole»).
Ecco, il dramma del collasso della parola, in Artaud, non è solo legato alla condanna che è per l’uomo il lemma stesso (una volta pronunciato, muore). No, la vera crudeltà del verbo è quando esso ci viene privato: i pazzi sono come tante Filomela cui un tirannico Tereo tagli ogni giorno la lingua. E succede sempre così: se non si viene ascoltati, il linguaggio si ripiega su se stesso, si disintegra, si condanna e si fa incomprensibile.

Martina Belelli
Martina Belelli, classe '94, è originaria di Pazardjik, in Bulgaria.
A un anno e mezzo è adottata e vive con la sua famiglia ad Ancona, dove si diploma al liceo Linguistico. Si laurea in Lingue e Culture Straniere, con una tesi in Letteratura Inglese presso l’Università degli Studi Roma Tre, il 17 novembre 2016. Nella città di Roma ha tenuto diverse conferenze in Letteratura Francese.
Nel settembre del 2016 si trasferisce a Trento dove si laurea in Letterature Euroamericane, Traduzione e Critica Letteraria con una tesi in Letteratura Francese presso l’Università degli Studi di Trento, il 30 gennaio 2019.
Si occupa della traduzione de I Fiori del Male, è impegnata in seminari studenteschi e conferenze di letteratura e sta conducendo una ricerca sull'intraducibilità della glossolalia e sul corpo e il senso delle lingue schizofreniche nell'opera del francese Antonin Artaud. Già autrice della raccolta di poesie AltreTrento (2018), nel 2019 pubblica D'istanti con Santelli editore.