L’assente da ogni mazzo: la poesia di Mallarmé ⥀ La Punta della lingua 2021
In occasione dell’intervento di Valerio Magrelli sulle sue traduzioni di Mallarmé del 12 Luglio 2021 nella cornice del festival La Punta della lingua, uno scorcio sulla poetica mallarmeana e sul lavoro del traduttore (qui il video completo dell’incontro)
«Une rose dans les ténèbres»
(Mallarmé)
Sebbene sia senz’altro vero che nulla ha senso, la comprensione autentica di una siffatta – checché apodittica e sdoganata – proposizione non è concessa che a pochi. Non tanto – o non solo – perché ai più manchino adeguate facoltà intellettive come il felice accordo sensibile che forse la consentirebbe, bensì poiché non è lì in gioco né una proposizione né ciò che di solito viene inteso per comprensione. Si tratta, piuttosto, di possedere una generale disposizione ad assumere su di sé un tipo di sapere che anche soltanto per forza di analisi è capace di distruggere tutto quello che, consapevoli o meno, intesse la nostra esperienza quotidiana. Mallarmé
Ciò che è essenziale nella lingua non è un mero fatto comunicativo. Lo stesso concetto di essenza, qualora rimandi a un che di recondito, a qualcosa che sia posto altrove rispetto ad una qualsivoglia superficie fisica del linguaggio, risulta fuorviante. L’essenziale, semmai, è interamente dato con e nel non essenziale, con questo intrecciato e – per così dire – ad esso profondamente avviticchiato. Perciò il metodo dialettico separante lo è sin da principio.
Il livello comunicativo della lingua, ciò che ci è offerto nel proposizionale, sarebbe quindi proprio quel non essenziale da cui l’essenza ci guarda, muta e interrogativa. Nella prosa testuale, così come in quella del mondo, la lingua viene costantemente fraintesa e ridotta a questo o a quello specifico messaggio, non meno di quanto la vita sia così livellata su uno o più singoli fatti, ancorché questi siano composti da fattuali relazioni. Diversamente che nell’ambito della prosa, nella poesia la lingua è certo meno costretta tra le rigide maglie del computabile, e perfino lo stesso – talvolta sorvegliatissimo – rigore formale delle poesie conduce il computabile al suo interno a deporre le proprie armi e vieppiù sfilacciarsi nell’indefinibile. In essa il fatto comunicativo, se ancora comunica qualcosa, è ridotto alla sua funzione fàtica. Il non essenziale viene così rarefatto sino al suo ultimo limite. La poesia sarebbe perciò il luogo dove massimamente la lingua mostra la propria essenza in quanto sospinge ai margini di sé ciò che essenziale non è.
I
Ai molteplici mutamenti tecnici che negli ultimi due secoli invasero anche il suo campo segnandolo irrimediabilmente, l’arte, avvertita l’imminente crisi, reagì con la dottrina dell’art pour l’art, una teologia dell’arte. In seguito da essa è emersa addirittura una teologia negativa nella forma dell’arte pura, la quale non soltanto respinge qualsivoglia funzione sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di un elemento oggettivo. Nella poesia, Mallarmé è stato il primo a raggiungere questo stadio1. Si potrebbe dire che l’abbia codificato egli stesso. Non a caso, questi fu capace di crearsi un linguaggio quasi totalmente proprio grazie alla scelta raffinata delle parole e delle strutture singolari che inventò o sviluppò, rifiutando costantemente la soluzione immediata che gli veniva offerta dal senso comune. La sua, pare non fosse altro che una difesa, sin nei minimi particolari e nel funzionamento elementare della vita mentale, contro l’automatismo.
I termini della situazione di Mallarmé possono forse essere riassunti da una osservazione del giovane Hegel, che recita: «ognuno può e ritiene d’essere migliore del mondo cui appartiene, eppure colui che sopravanza il proprio mondo non fa che esprimere meglio degli altri quello stesso mondo»2. Se l’automatismo coincideva, per Mallarmé, con l’ultima faccia del caso, con quello cioè che per lui era realtà allo stato grezzo – in vero storia cristallizzata ad un livello tale da venir sistematicamente scambiata per, dunque accettata come, casuale e inesorabile corso naturale della vita e del mondo –, il caso andava vinto parola per parola. Occorreva perciò opporvi l’agire di un soggetto poetico che obbediva invece ad una propria necessità interna, tale da imprimere il suo stesso – necessario – carattere alle creazioni. Se la sua poesia giungeva così ad essere il disumano prodotto di una ferrea maestria dinanzi a condizioni che le erano ostili, paradossalmente è per amore dell’umano che si costituiva come tale innanzi alle automatiche e livellanti determinazioni dell’esterno che agivano sempre più come una seconda, opprimente, natura. La gratuità di una poesia fuori dal mondo diviene altresì lo spazio duramente conquistato di una differenza negativa rispetto ad esso. La sua (del mondo) vera espressione.
Da qui, le sue (di Mallarmé) affermazioni sulla poesia come gioco. Da qui, il rinnovarsi di quel culto della splendida menzogna già inaugurato da Baudelaire. In definitiva, se il gioco significa libertà del proprio fine, e la menzogna diviene lo specifico dell’arte in quanto irrealtà che pretende d’essere realtà, allora la poesia di Mallarmé registra nel momento del gioco quella stessa lontananza auratica che già Kant riscontrava nell’arte come sottrazione rispetto agli scopi esterni.
Giotto, Bacio di Giuda, 1303-1305, Cappella degli Scrovegni
Riassumendo, la contro-necessità che innerva la poesia di Mallarmé sta alle pressioni esterne come, in quanto gioco, l’interna libertà del proprio fine sta innanzi al mondo degli scopi (dei fini esterni). Proprio per questa sua presunta libertà poetare può diventare l’eco mimetica dell’originario atto creativo del linguaggio, nel quale il dire possa esser sempre un dire ciò che non è ancora stato detto, sicché l’arte – con tutta evidenza qui la poesia – compia il gesto di dire senza dire alcunché. Infatti, in Mallarmé la lingua poetica non è già più comunicazione: essa dismette tutta la propria inessenzialità. Piuttosto, è sé medesima che esprime. Si capisce bene allora che l’oscurità che tanto gli è stata biasimata ne rappresenti invece un fattore decisivo. Quest’ultima, propriamente quello che dapprima Benjamin e in seguito Heidegger chiamarono il poetato, ossia ciò che della poesia non viene pensato, diviene qui programmatica. In questo senso essa oscurità è meditata o – se si preferisce – mediata. L’impensato come tale viene pensato. L’oscurità non è in Mallarmé che il preciso risultato di un’operazione artistica.
Se il parlare poetico di Mallarmé è un parlare che ha in sé stesso la propria evidenza, questo avviene proprio in virtù della sua capacità di rendere via via gli oggetti meno concreti, vaghi e indefiniti, mantenendo però la più assoluta e ferrea precisione nella resa dei movimenti dello stesso processo di smaterializzazione, così come in virtù della facoltà di racchiudere elevate tensioni energetiche in campi linguistici ristrettissimi, cercando l’universale nei centri di forza del particolare. Soltanto su questo cammino diviene possibile a poetato – l’elemento oscuro – e poesia di rifrangersi l’uno nell’altra, in un gioco di specchi senza fine che sfocia nel più estremo dei cortocircuiti. La sua poesia era (ed è) un vicolo cieco per chi volesse comprenderla, e poiché nessuno prima «si era arrischiato a rappresentare il mistero di ogni cosa attraverso il mistero del linguaggio»3, più che all’intelletto è alla vita che si rivolge, più che a comprendere essa esorta a divenire.
II
Rebus sic stantibus, sorge spontanea la domanda su chi sia il potenziale lettore di una siffatta, criptica, poesia e se sia lecito fruirne in una modalità più che in un’altra. Perfettamente coerente con la tesi dell’arte come religione, Mallarmé poteva annotare che «toute chose sacrée et qui veut demeurer sacrée s’enveloppe de mystère. Les religions se retranchent à l’abri d’arcanes dévoilés au seul prédestiné: l’art a les siens»4. Osservazione che fa idealmente il paio con quella, ancora più perentoria, di Benjamin, secondo il quale «nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli ascoltatori»5.
Al pari di come l’arte pura di Mallarmé è tale in quanto allontana da sé ogni funzione sociale come ogni determinazione oggettiva, nondimeno essa tende a respingere il lettore. Ma il punto vero sarebbe che coloro che non venivano scoraggiati dalla complessità dei suoi testi si ritrovavano a dover imparare di nuovo a leggere. Questo perché l’esperienza cui introduce la poesia mallarmeana è al tempo stesso antichissima e del tutto inaudita per l’uomo moderno.
Alcune rapide indicazioni di Valéry, che mostrano ancora la loro attualità e confermano a distanza di un secolo quanto egli avesse la vista piuttosto affilata sui sintomi della modernità, possono aiutare ad approcciare il genere di esperienza cui si vuol fare riferimento: «nelle Lettere, la facilità di lettura è di regola da quando si è instaurato il regno della fretta generale e dei fogli che la favoriscono e la provocano. Tutti quanti tendono a leggere quello che tutti quanti avrebbero potuto scrivere. […] Chiedere al lettore di applicare intensamente la propria mente, e di giungere al possesso completo del testo con un’operazione complessa e faticosa; pretendere di farlo diventare, da passivo quale egli spera di essere, un semi-creatore – ma questo significava colpire le abitudini, l’indolenza, ogni intelligenza insufficiente! L’arte di leggere nel tempo libero, in disparte, con competenza e lucidità, quest’arte che un tempo rispondeva alla fatica e allo zelo dello scrittore con una presenza e una pazienza della stessa qualità, sta scomparendo: è ormai scomparsa. […] La ricerca dell’effetto immediato e del divertimento incalzante hanno eliminato dal discorso ogni preoccupazione di struttura; e dalla lettura, quella lenta intensità dello sguardo. Ormai l’occhio assapora un delitto, una catastrofe, e vola via. La mente si smarrisce in una quantità d’immagini che la rapiscono; e si abbandona agli effetti stupefacenti dell’assenza di legge. Se viene preso a modello il sogno (o il puro ricordo), durata e pensiero lasciano il posto al momentaneo»6.
R. Magritte, Il paese dei miracoli, 1964
Antichissima, si diceva, poiché pare richiami il lettore ad una modalità di fruizione dell’arte – qui della poesia –, che un tempo era essa stessa un’arte: quella della lettura. In essa, non soltanto il lettore era capace di sprofondarsi lentamente nell’opera in assorta contemplazione, ma ancora di più egli – pena il tornarsene a mani vuote – doveva ripercorrerne gli snodi interni, svolgendone l’immanente oggettività che sola imprime all’arte la sua apparenza di necessità, per cui infine poteva cibarsi del vero frutto di questa esperienza: la possibilità di farsi anch’esso creatore, fors’anche in misura maggiore che l’autore. Ma tale esperienza è nondimeno inaudita. Se Mallarmé pensava ad un lettore aperto ad una comprensione multipla, poiché l’ambiguità della sua lirica potenzialmente esorta quest’ultimo a proseguire un atto produttivo-interpretativo costantemente in fieri e virtualmente infinito, egli non è in vero tanto invitato, per così dire, a decifrarne i geroglifici, bensì a vivere, nell’enigma dell’opera, il mistero della propria esistenza.
Al pari di come la poesia scaccia da sé, perché la riduce all’osso, la comunicazione come non essenziale, l’esperienza della sua lettura minimizza tanto l’oggetto libro quanto il soggetto che ne fruisce: smaschera le loro false pretese di autonoma e indipendente sussistenza e ne fa vettori di un dispositivo che veicola piuttosto l’enigmatica interezza di una densità esperienziale. Il soggetto vedrebbe allora svaporare la propria apparente e chiusa fatticità nella fruizione dell’opera, ma solo per capire che non era mai stata quella la sua verità, e dell’opera verrebbe fugato ogni sciocco alone di autorevolezza surrettiziamente affibbiatogli per poter infine creare un mondo nuovo, pienamente relazionale, che sia distruzione del vecchio mondo reificato. In una battuta si potrebbe dire che nella reale esperienza dell’opera dilegui la cattiva soggettività ossificata.
L’enigma, così nell’opera come nella vita, resta il medesimo: se la promessa di felicità in esse riposta sarà mai adempiuta.
III
Come l’opera lirica di Mallarmé può esser vista quale suprema risposta all’ostilità del caso, nondimeno essa porta in sé il proprio amaro scacco. La tendenza di cui è calco negativo, quella che la sospinge verso l’assoluto, non le consente l’accesso in questa sfera. L’assoluto è tale in quanto irraggiungibile. La sua verità (della lirica) è nel naufragio poiché è da questo che affiora, invisibile, l’idealità. Ciò che invece non fallisce è la parola capace d’indicare il fallimento. Così, chi mai volesse cimentarsi con la traduzione dell’opera di Mallarmé dovrebbe, guidato dall’intento ben preciso di un allargamento della propria lingua, una volta quindi che sia stato capace di lasciar trasparire in essa l’oscura densità dell’originale, a suo turno coraggiosamente andare incontro alla rovina della propria impresa: occorre che anch’egli sappia naufragare.
Ancora in Benjamin vengono forniti preziosi insegnamenti sul lavoro del traduttore. Se, ci spiega, ciò che tacitamente ispira ogni traduzione è «il grande motivo dell’integrazione delle molte lingue nella sola lingua vera», risulta fin troppo significativo che proprio a questo punto egli si rivolga a Mallarmé come a colui che di questo fatto possedeva la più limpida delle coscienze. In sostanza, scrive Benjamin, se c’è «una lingua della verità in cui gli ultimi segreti intorno a cui ogni pensiero si affatica sono conservati senza tensione e quasi tacitamente, questa lingua della verità è la vera lingua. E proprio questa lingua, nel presentire e descrivere la quale è la sola perfezione cui il filosofo può aspirare, è intensivamente nascosta nelle traduzioni. […] Poiché c’è un ingegno filosofico il cui carattere più intimo è l’aspirazione a quella lingua che si annuncia nella traduzione: Les langues imparfaites en cela que plusieurs, manque la suprême: penser étant écrire sans accessoires, ni chuchotement mais tacite encore l’immortelle parole, la diversité, sur terre, des idiomes empêche personne de proférer les mots qui, sinon se trouveraient par une frappe unique, elle-même matériellement la vérité. Se ciò a cui alludono queste parole di Mallarmé si lascia definire rigorosamente dal filosofo, allora la traduzione, con i suoi germi di una lingua siffatta, è a metà strada fra la poesia e la dottrina». È necessario allora che il traduttore sappia esprimere, nel suo lavoro, ciò che intrinsecamente connota ogni grande opera, ovvero «la grande aspirazione all’integrazione linguistica». Sicché la vera traduzione sia «trasparente» ed essa non soltanto non «copra l’originale bensì su di esso lasci cadere tanto più interamente la luce della pura lingua, come rafforzata dal medium di quest’ultima». In conclusione, il compito del traduttore sarà quello di «redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella versione»7. Perciò, assodato che ciò che inerisce essenzialmente all’originale come tale non è già il suo contenuto meramente comunicativo non essenziale, bensì la lingua nella sua purezza, allora l’autentica traduzione sarà pura lingua liberata dalla menzogna d’esser originale. Altrimenti, a che cosa «servirebbe la meraviglia di trasporre un fatto naturale nel suo quasi scomparire vibratorio secondo il giuoco della parola, se non a far scaturire, senza il disturbo di un richiamo vicino o concreto, la nozione pura. Io dico: un fiore… e musicalmente s’innalza, idea stessa e soave, l’assente da ogni mazzo»8.
Note
1 L’intero periodo fino alla presente nota parafrasa più, o meno, liberamente un passo tratto da W. Benjamin, Aura e choc, saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino, 2012, p. 23. Lo stesso dicasi per il periodo appena seguente, tratto da P. Valéry, Opere scelte, a cura di M. T. Giaveri, Mondadori, Milano, 2014, p. 1098.
2 La frase è in vero tratta da A. Breton, Nadja, Gallimard, Paris, 1998, p. 160. La traduzione dal francese è nostra.
3 P. Valéry, op. cit., p. 1089.
4 S. Mallarmé, Oeuvres complètes, texte établi et annoté par H. Mondor et G. Jean-Aubry, Gallimard, Paris, 1945.
5 W. Benjamin, op. cit., p. 129.
6 P. Valéry, op. cit., pp. 1083-1084.
7 Le citazioni, tra virgolette, sono tratte da W. Benjamin, op. cit., pp. 136-138.
8 S. Mallarmé, op. cit.
Bibliografia
T. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, Einaudi, Torino, 1979.
Id., Teoria estetica, a cura di G. Matteucci e F. Desideri, Einaudi, Torino, 2009.
W. Benjamin, Aura e choc, saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino, 2012.
A. Breton, Nadja, Gallimard, Paris, 1998.
H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano, 1983.
L. Illetterati, Who is afraid of translation? Contro il mito della purezza
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 2011.
G. Macchia, La letteratura francese. Il Novecento, Rizzoli, Milano, 1992.
S. Mallarmé, Oeuvres complètes, texte établi et annoté par H. Mondor et G. Jean-Aubry, Gallimard, Paris, 1945.
P. Valéry, Opere scelte, a cura di M. T. Giaveri, Mondadori, Milano, 2014.
Gabriele Gallina
Gabriele Gallina è laureato magistrale presso l'Università degli studi di Bologna, con una tesi in estetica contemporanea la cui ricerca ha analizzato quel nodo cruciale del Novecento che ha al suo centro la complessa figura di Paul Valéry, muovendo da una prospettiva che si è rivelata feconda e tuttora in grado di rivelare risultati inattesi, ossia la diagnosi sulla modernità estetica. I suoi interessi oscillano tra filosofia e letteratura di otto e Novecento.