Bestiario II, 6, T4 ⥀ Marco Benedettelli

Marco Benedettelli riporta il secondo episodio del Bestiario

 

La Tiergartenstraße è piena del verde straripante del parco e di edifici centrifughi e curvilinei. Sono tutti palazzi di Stato ornati di bandiere, cancelli e guardiole blindate. Ogni tipo di rumore sembra sospeso e le presenze, se ci sono, sono invisibili. Incontro un diplomatico in impermeabile color castagna, cammina nervoso lungo i marciapiedi con le gambe corte e il viso butterato.

Dirimpetto ai palazzi spigolosi c’è il parco, il Tiergarten, voluminoso di chiome e di tronchi rugosi che si affacciano fin sulla strada. Oltre il primo filare di alberi e aiuole i sentieri del Tiergarten affondano nel silenzio e mi arriva nelle narici un odore silvano, denso, di legname e di terra bagnata, l’odore di trapasso che hanno i parchi in autunno. Devono esserci telecamere piazzate dappertutto, sui muri delle ambasciate, sopra i cancelli in mezzo alle foglie fra i rami e la mia immagine in questo momento è riprodotta attraverso decine di video e di schermi e osservata nel chiuso di qualche stanza da funzionari che riesco a immaginare solo di spalle. Una volta ero già stato qui, ma era molto più buio, era inverno e avevo solo intuito lo scintillio architettonico dei grandi palazzi intorno, i cortili attraversati dal vento e la presenza del parco oltre la strada. Ora, sotto il sole mattutino, gli edifici mi appaiono nudi nei loro colori, spigolosi e pluridimensionali, assediati in se stessi dalle loro superfici di vetro che riflettono lo spazio circostante in sagome deformate.

All’incrocio con Hiroshimastraße il mio sguardo si ferma sull’ambasciata giapponese, tutta bianca e di marmo e intrisa di un severo ronzio sprigionato dalla solitudine del suo colonnato. Oltre il cancello il cortile è deserto, due leoni di pietra vegliano immobili davanti a una scalinata seduti su dei pilastri. Hanno la bocca incomprensibilmente aperta e i denti a sciabola e gli occhi sgranati che risucchiano la mia immaginazione. Da piccolo ho letto dei libri sul grande sole di Hiroshima e ho visto dei film e penso alla luce che squaglia la pelle e a uomini e donne ridotti a pozzanghere. Domenica scorsa ho fatto un giro turistico, sono stato in un immenso rifugio antiatomico che durante la Guerra Fredda, in caso di attacco, era destinato ai quadri dirigenziali della DDR. Oggi, sopra ai suoi cunicoli abbandonati, sorge il centro commerciale di Gesundbrunen. Una guida ci ha fatto entrare attraverso una massiccia porta metallica e poi ho visto una grande pompa meccanica per il ricambio dell’aria, in altre stanze colorate d’azzurro c’erano tantissimi letti a castello e i neon attaccati alle pareti e al soffitto davano all’ambiente il distacco di un obitorio.

Dall’altra parte di Hiroschimastraße riconosco l’Ambasciata d’Italia, piena di fregi fascistoidi e di feticci italici, proprio lì, petto a petto con l’Ambasciata nipponica, come ai tempi del Führer e dell’asse Roma-Tokyo-Berlino. Gli archetti, le colonne, i capitelli, i frontoni, le sue forme monumentali sembrano le labbra gonfie di un ragazzino grassissimo, schiacciato dal suo stesso pachidermico peso, che tronfio e imbolsito dentro le sue sfrontate volute nasconde un cervello ritardato e aggressivo. Un odore di aria ghiacciata mi punge le pareti interne del naso. Trattengo il fiato e l’aria mi arriva al cervello, sento farsi largo nella mia bocca un aroma impastato di terra e di sangue, di sfasciume e di foglie ambrate, l’odore del parco in autunno che casca pezzo per pezzo, che marcisce e mangia se stesso.

Il vento gelido preannuncia l’inverno e scuote appena le fronde gialle e verdi nel parco. Ora cammino verso Potsdamer Platz e riconosco la sagoma gialla della Berliner Philharmonie. Asimmetrica penetra nello spazio schiacciato dal cielo, con i merletti di pietra e le finestre ad oblò. Ma è un’altra piccola costruzione che mi desta dallo stato di galleggiamento in attesa dell’autobus che voglio prendere. Sono due lastre d’acciaio, alte forse un paio di metri, rugginose e piantate orizzontalmente per terra. Lo spazio che colma il loro congiungersi all’infinito è un piccolo vuoto, un buco buio, che risucchia la dilatazione ellittica in cui le due lastre si curvano, sfiorandosi appena nel loro spasmo tangenziale d’acciaio. Da quello sfiorarsi, da quel buco nero, vedo balzare improvvisamente una creatura pennuta, una bestia saltellante col collo muscoloso e paonazzo e cogli occhi pungenti come due stelle. È il tacchino, ne sono sicuro, anche se schizza via così velocemente che non riesco a mettere a fuoco le sue forme e vedo solo i suoi colori smerigliati farsi cometa mentre sotto il sole saltella impazzito davanti a me, da destra a sinistra, da sinistra a destra, finché si blocca a guardarmi impettito, con gli artigli piantati per terra e la sua cresta carnosa protesa come un arpione. Continua a fissarmi con occhi ottusi e pieni di sfida, un’ultima volta, prima di infilarsi e scomparire in quel vuoto tra le due lastre d’acciaio da cui prima è sbucato improvvisamente. C’è qualcosa di gelido che esce da lì, vorrei cacciare la testa tra le due curve ma sento che non è ancora il momento. Poi, mentre cammino, pochi metri più in là riconosco delle lettere conficcate sul pavimento a caratteri d’acciaio. C’è scritto, sopra una lapide circondata da piccoli faretti ora spenti:

An dieser Stelle, in der Tiergartenstraße 4, wurde ab 1940 der erste natio- nalsozialistische Massenmord organisiert, genannt nach dieser Adresse Aktion T4.Von 1939 bis 1945 wurden fast 200.000 wehrlose Menschen umgebracht. Ihr Leben wurde als “lebensunwert” bezeichnet, ihre Ermordung hieß “Euthanasie”. Sie starben in den Gaskammern von Grafeneck, Brandenburg, Hartheim, Pirna, Bernburg und Hadamar. Sie starben durch Exekutionskom- mandos, durch geplanten Hunger und Gift.
DieTäter warenWissenschaftler, Ärzte, Pfleger, Angehörige der Justiz, der Polizei, der Gesundheits- und Arbeitsverwaltungen.
Die Opfer waren arm, verzweifelt, aufsässig oder hilfsbedürftig.
Sie kamen aus psychiatrischen Kliniken und Krankenhäusern, aus Altenhel men und Fürsorgeanstalten, aus Lazaretten und Lagern.
Die Zahl der Opfer ist groß, gering die Zahl der verurteilten Täter.*

Sapevo che era qui, da queste parti, in Tiergartenstraße, ma non mi immaginavo di arrivarci proprio oggi, risucchiato dal buco fra quelle due ellissi d’acciaio, che sono, ora capisco, un monumento alla memoria.Tutt’intorno era pieno di case fino a sessant’anni fa. Ora Tiergartenstraße 4 non esiste più. È stata bombardata, è crollato tutto con lei, le pareti e i tetti e le ossa di quegli uomini che decisero quali erano vite degne di essere vissute e quali no. Mi porto le dita al naso, odorano ancora di sangue, un odore disgustoso che mi fa venire la nausea. Dall’altra parte della piazza c’è la Berliner Philharmonie, con i suoi oblò e il suo tetto conico come un tendone del circo, arioso, come le vele spiegate di una grande nave sospinta solo dal soffio multiforme delle note, dalla musica degli archi e dei pianoforti che dilatano gli spazi interni, le asimmetrie, trafiggono fori invisibili inondano i limiti esterni. Poche domeniche fa sono stato lì, nella Berliner Philharmonie, ad ascoltare un concerto di Schubert, dove la musica era una foresta di miele rivoltata dal vento, intrisa di scalini e di schegge di vetro colorate, e adesso, dinnanzi alle ellissi di acciaio che si sfiorano all’infinito, li vedo i visi degli uomini e delle donne uccisi dall’eutanasia dei nazisti, li vedo i volti dei disperati, volteggiano nelle note di Schubert, nel cristallo e nel- la carne, li vedo ed hanno occhi dolcissimi, di chi è sereno, di chi è innocente e dentro la musica bisbiglia qualcosa.

 


 

*«In questo luogo, in Tiergartenstrasse 4, dal 1940 fu organizzato il primo sterminio di massa nazionalsocialista, che riprese da questo indiirzzo il nome “Azione T4”. Dal 1939 al 1945 furono uccisi quasi 200.000 uomini inermi. La loro vita fu catalogata come “indegna d’essere vissuta”, il loro omicidio si chiamò eutanasia. Morirono nelle camere a gas di Graeneck, Brandenburg, Hartheim, Pirna, Bernburg e Hadamar, morirono per mano di plotoni d’esecuzione, attraverso fame programmata e avvelenamento. I carnefici furono scienziati, medici, infermieri, rappresentanti della giustizia, della polizia, del sistema sanitario e degli uffici del lavoro. Le vittime furono poveri, disperati, ribelli o bisognosi di aiuto. Venivano dalle cliniche psichiatriche e da ospedali pediatrici, da ospizi, da case di accoglienza e da campi di prigionia. Il numero delle vittime è grande, minuscolo il numero dei carnefici condannati».