Biografia dei campi di Edoardo Occhionero ⥀ Passaggi

La rubrica Passaggi presenta oggi Biografia dei campi di Edoardo Occhionero. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Illustrazione in copertina di Noemi TiofiloAlla finestra, 2020.

 


 

Si sbiadisce la voglia di tenere delle parole per gli altri. La Gianna inviava sms d’amore al nonno Tullio che non era capace di pigiare i tasti e la chiamava il giorno dopo. Così sono passati quasi dieci anni da quando ancheggiava sbilenco tenendosi per l’ultima volta allo scheletro di una parete. Così si fanno i conti coi morti: disseppellendoli fino a quando le immagini si incendiano e sbiancano per la troppa luce.

Tanta la luce da ricoprire. Il pane fatto scongelare al sole sullo stendino per accelerare. L’autotreno sulla provinciale infittitasi a mezzogiorno.

La nonna mi chiamava per nome di tutto urlo, arrivando all’angolo della casa. Io scendevo dal pollaio di corsa con le uova delle livornesi; altrettanta la luce strizzata nelle mani.

 

 

Una volta siamo andati a piedi fino a Sant’Ambrogio attraversando i boschi e l’ecologica. Le vespe annidate nel terreno, gli alberi sfasciati dal vento, ma un’atmosfera comprensibile nei raggruppamenti di bidoni metallici e rastrelli abbandonati. Le case affiliate alla cascina emergevano da una corona d’erba. Ci siamo fermati per rassodare un po’ il respiro, le vacche scodinzolavano mentre il gallo rinsecchiva nella voce l’ultima ora del pomeriggio.

Di fagiani ne sono passati molti, il nonno aveva comprato un guadino con la trama viola per catturarli ma non siamo mai riusciti: ancora indistinto quel verso che planava fino al punto più basso del prato.

L’uva, talmente spessa e dal sapore selvatico. Quando la si raccoglieva nel cesto io mi sentivo dire «portala a scuola alle maestre», come se per lui vivesse ancora lo strano rito di condivisione che si allaccia ai sandali, nel periodo della roggia che si scopriva interamente sulla miseria del paese.

Qualche anno dopo, al ricovero di Costamasnaga regalava i salami ai fisioterapisti che l’avevano aiutato a ravvivare le gambe e l’andatura postoperazione.

 

 

La casa moriva gradualmente nella visione della sera, qualunque sera sorseggiata nella gazzosa con l’orzata, le ore che frinivano sotto al portico parlato nel buio, l’accensione dei lampioni comandata. Qualunque parola, qualunque biascichio nella sera fischiata mentre si stava ancora fuori a prendere il fresco, quando sostenevamo «di sicuro due o tre gradi in meno che in paese».

 

 

Forse un giorno di novena, io sdraiato sulla neve a guardare sopra di me l’albero coi cachi che attirava le cinciallegre; la luce si spandeva solo dall’interno della casa; la nonna mi ha trovato così disteso e sbalordito da tutto il bianco e dai fischi tra i rami.

«Alzati», e mi sono alzato, «è tardi per stare qui». Ho camminato scosso dall’ombra nel buio, l’impressione che anche i gradini fossero volati via.

 

 

Il papà non lavorava perché era la festa di Giussano e la ditta era chiusa. Era di lunedì e mi veniva a prendere a scuola in un altro paese e andavamo alle giostre che allestivano nella pista d’atletica di fianco alla casa dei malati. Mangiavamo le frittelle e salivamo sul “tappeto volante” che dondolava come un metronomo. A me le giostre mi hanno sempre turbato, insieme ai bambini che ci vanno e i genitori che li aspettano. Sembrava di essere in uno di quei film solo che qui la lingua è diversa, i dialetti fermentano nella gola dei vecchi. I capelli dei passanti erano di tinta di parrucchiere, le camicie prese ai mercati di rione. Il cielo spezzato dagli alberi e dai grossi camion.

Tutti gli altri lunedì il papà lavorava e io in testa avevo altri film, altre strade in macchina fatte con giù il finestrino.

 

 

 


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Edoardo Occhionero
Noemi TiofiloAlla finestra, 2020.