Blade Runner 2049 | di Denis Villeneuve | recensione di Enrico Carli

Genere: fantascienza
Durata: 163 min.
Cast: Ryan Gosling, Harrison Ford, Robin Wright, Jared Leto, Ana de Armas, Dave Bautista
Paese: USA
Anno: 2017

Cominciamo da una supposizione facile (tanto più col senno di poi): nel proporre, dopo 35 anni, il sequel di un capolavoro di science fiction di questo calibro, è dato presumere che gli ideatori avessero ben poco da concedere all’aggiornamento di velocità più azione richiesto dal pubblico odierno, trovando controproducente non solo scontentare i molti fan dell’originale, ma anche tradire lo spirito del cult dell’82. Anche se pur sempre di affari si tratta, bisognava comunque usare un po’ di riguardo (il massimo del tatto sarebbe stato ovviamente non pensarci nemmeno, a un seguito). È dunque ragionevole supporre che, chiunque avesse dovuto prendere in mano il sequel del film di Ridley Scott (stavolta nelle vesti di produttore), sarebbe dovuto essere un regista con all’attivo un curriculum che avesse convinto sia pubblico che critica, che si fosse già misurato con la fantascienza, e che l’avesse fatto con intenti seri. Chi meglio di Denis Villeneuve per “rifare” Blade Runner?

Questa lunga premessa vuole portarci a una breve considerazione: il sequel di Blade Runner non avrebbe potuto essere che così. Senza voler attribuire più meriti di quelli che abbia a questo nuovo capitolo, ciò non significa che “il sequel di Blade Runner non avrebbe potuto essere meglio di così”. E non perché, necessariamente, fosse lecito aspettarsi di più (le aspettative sono per chi vuole che le cose rimangano come sono, appena appena aggiornate), ma perché Villeneuve sembra puntare a non offendere nessuno più che a riaggiornare un film che non aveva alcuna necessità (perlomeno artistica) di essere riproposto quasi sulla copia carbone del precedente.

In maniera molto simile a un altro recente sequel come T2 Trainspotting – che rifà qui la scena di Renton-sul-cofano, là rimanda, remixata, Born SlippyBR 2049 impiega troppo tempo a citare il già fatto piuttosto che a sviluppare tematiche e personaggi che avrebbero meritato un trattamento meno schematico e furbo. Come se non potesse darsi un sequel a ricambio generazionale che tralasci di riprendere scene e musiche iconiche del genitore.

In un’ottica priva dei filtri della nostalgia – o meglio, della moda della nostalgia – si potrebbe immaginare ben altro dispiegamento di forze creative, che mirano ad aumentare l’universo fantascientifico di riferimento piuttosto che riproporne il modello. Più che di ossequioso rispetto, operazioni del genere sanno un po’ troppo di facile ammiccamento. Non erano necessarie le ambientazioni, il ritmo lento del noir fantascientifico, certe tematiche replicant-esistenzialiste, l’androide ultima generazione cacciatore di androidi obsoleti e il tutto sommato buon soggetto di partenza per conseguire il mirabile intento di non replicare?

È dunque parso necessario che i compositori (J. Jòhannsson, H. Zimmer e B. Wallfisch) riecheggiassero i Vangelis, che ogni tanto qualcuno, intenzionalmente o meno, sfondasse qualche parete (come dimenticare lo scontro attraverso le pareti di Rick Deckard e Roy Batty in BR di Ridley Scott), che manufatti in legno sostituissero gli origami, che qualche personaggio indossasse il guardaroba di qualcuno del film precedente e, non da ultimo, che sequenze madri fossero sulla falsariga di quelle già viste, con affine intento poetico. Omaggi dei quali si poteva fare a meno tanto più che, inseriti in una sceneggiatura che fa già del suo meglio per ricalcare i tempi e l’incedere della precedente (lo script è del redivivo Hampton Fancher), abbondano e eccedono di tutto il peso della caduta di stile.

Il talentuoso regista canadese osa ben poco, non corre il rischio di deludere fan, cinefili e grande pubblico, che in larga misura sa, anche se non l’ha visto, che BR è un film di fantascienza lento. Si prende un paio di belle libertà d’autore, organizzando i suoi spazi metafisici e riproponendo in altro universo finzionale quelle che in Arrival erano le maxi-navicelle aliene e che qui (stessa forma, stesso colore nero opalino ma mini dimensioni) sono una specie di hardware ad uso del produttore di replicanti Niander Wallace. Purtroppo quest’ultimo è, anche se lo vediamo “incidere” un addome nel presentarci la sua crudeltà, un cattivo ben poco incisivo (i suoi monologhi non aiutano ma anche Jared Leto lavora in maniera un po’ scontata), come anche la sua assistente che mena calci marziali e utilizza lame taglienti così come vuole il copione standard del perfetto braccio destro coi tacchi.

Invece Ryan Gosling, qualificatosi in ruoli dove è richiesta la minima capacità espressiva, ogni tanto strafà e mostra una collera che si addice meno a lui che al replicante cui dà il volto. La sorpresa è invece il wrestler Dave Bautista, capace di dare profondità al suo personaggio nella sola sequenza in cui appare. Al netto dei suoi difetti e preso in sé (se fosse possibile farlo) Blade Runner 2049 non è un film insoddisfacente sul piano dell’intrattenimento e della realizzazione. Come è stato ormai ampiamente detto, puntando unitamente a reggere il confronto col cult movie anni ottanta viene meno la sua necessità di essere.