Bor-Amman-Beer Sheva di Ianus Pravo ⥀ Passaggi

Per il suo ultimo appuntamento prima della pausa estiva, la rubrica Passaggi ospita le tre prose Bor-Amman-Beer Sheva di Ianus Pravo. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Illustrazione in copertina di Marta Goldin, Incomprensione (2), 2022.

 


 

(Bor)

Nel piccolo cimitero addossato alla chiesa di Sant Marcel, la tomba di Oriol Solé Sugranyes era segnalata da una lapide di forma ogivale, di pietra grezza. Sotto uno strato di neve di quattro o cinque centimetri, non vi era un monticolo: la superficie della tomba era irregolare, seguiva il rilievo naturale del terreno. La neve non aveva del tutto cancellato la sagoma di una croce adagiata sotto la lapide. Con la mano colpii i bracci della croce e portai alla luce il legno. Sulle estremità erano conficcati dei bulloni di ferro. Sotto un mucchietto di neve, appoggiato alla lapide, c’era un mazzo di fiori. Li toccai, erano finti, di stoffa. I petali avevano un color rosso leggero sulla faccia esterna, all’interno erano striati di bianco. Sulla lapide, incisi, il nome di Oriol, la data di nascita e quella di morte, e le parole mort pels seus ideals. Il cimitero era come un praticello, punteggiato da poche lapidi. In fondo c’era una parete di loculi, molti vuoti: di quando in quando i passeri venivano a ripararsi nelle cavità aperte. Guardando al di là del muretto di cinta, vedevo giù, oltre una fila di pioppi, dei rettangoli d’acqua scura (allevamenti di trote?). L’urlo di una sega elettrica attraversò i campi e i cani abbaiarono dai casolari. Il muro nero e bianco dei Pirenei chiudeva lo spazio del mio sguardo e ne conservava la forza.

Col mio corpo e col mio sguardo intorno alla tomba di Oriol, io mi prendevo cura della morte. Avevo delle immagini chiave nella mente: da un vecchio libro d’arte greca avevo scelto, per la mia vita, due raffigurazioni del suicidio di Aiace. La prima è una pittura di figure nere che appare in un cratere del VI secolo A. C., attribuita a Exekias. Quando la vidi, avevo undici anni, non sapevo che in essa fosse rappresentata la preparazione di un suicidio: pensavo narrasse l’allestimento di una trappola letale per un nemico. Aiace è in ginocchio conficcando l’impugnatura della sua spada in un monticolo di terra. Una palma, come piegata dal vento, segue la curva della spina dorsale di Aiace. Il corpo dell’eroe appare molto pesante, due piedi spoporzionatamente piccoli lo sostengono a malapena. Lo squilibrio tra le parti del corpo ci dice che il corpo cadrà ineluttabilmente sopra la punta dell’arma. (Perché avevo pensato, da bambino, che la deformazione del corpo, la precarietà dell’equilibrio, trovasse una causa nella cura della violenza al nemico?). Le dimensioni fisiche del corpo, così lontane dal canone di bellezza di Policleto, manifestano anche l’instabilità mentale del personaggio, impazzito per opera di Atena. Alla destra di Aiace, catturando il suo sguardo, ci sono un casco e uno scudo, forse l’armatura di Achille. Nel centro dello scudo è dipinta la testa bianca di Medusa. Qualche anno più tardi, a quest’opera di Exekias affiancai l’immagine della morte di Aiace che appare in un sigillo corinzio dell’VIII secolo A. C., dove si vede il corpo nudo di Aiace che cade sopra la spada. I talloni sollevati, la tensione dei polpacci e delle cosce e la curva della schiena che segue il contorno circolare del sigillo, le mani aperte e distese che giungono quasi a toccare i piedi, descrivono lo squilibrio che nell’Aiace di Exekias era reso con la deformazione del corpo. La narrazione, nella prima immagine, sta all’atto, della seconda, come la cura della morte sta al suo proprio dramma.

 

(Amman)

Ancora una piazza notturna. Un uomo in piedi davanti a un kebab, ha in mano un panino avvolto in carta macchiata di grasso. Fissa un punto all’altro lato della piazzetta, poi sposta nervosamente lo sguardo a sinistra e a destra, e torna al punto osservato inizialmente. Come un cane, legato fuori della porta di un supermercato, che attende il ritorno del padrone. Il padrone arriva e gli passa un sacchetto di plastica in cambio di denaro. L’uomo-cane si rilassa, scarta il panino e se lo mangia in pochi morsi. Gli osservo le labbra unte di salsa di yogurt, le labbra che si fermano, socchiuse, sotto la coppia d’occhi che torna a fissare l’altro lato della piazza, torna a riflettersi nello specchio del padrone. In un vicolo ci sono una donna anziana e due più giovani, le segue a distanza un’altra ragazza con sindrome di Down che le chiama con un lamento ripetuto. Una delle giovani donna la insulta, si scaglia contro di lei e la caccia a spintoni in fondo al vicolo. Spariscono. Poi la ragazza che insultava riappare, risale la strada e alla vista delle altre due donne alza le mani in segno di vittoria. In un vicolo adiacente ci sono dei ragazzi, quattordici, sedici anni? che hanno raccolto delle siringhe da sotto un’auto parcheggiata. Mettono un’arancia sul tetto di una Volkswagen nera, lanciano le siringhe cercando d’infilzare l’arancia. Sono molto divertiti dal fatto di tenere in mano le siringhe, se le mostrano l’un altro come un trofeo. Mentre il tiratore prende la mira, gli altri saltellano al suo fianco, come inscenassero una danza rituale. Il gruppo sembra una mano aperta, il lanciatore ne è il palmo, gli altri le dita che si muovono per segnalare qualcosa, forse solo il tremore di una mano nella notte. D’improvviso la mano si richiude. Si stringono l’uno all’altro, confabulano. Iniziano a muoversi piano, uniti in un pugno chiuso, verso una donna che entra nel vicolo costeggiando l’edificio fatiscente che lo chiude su un lato. Il pugno dei ragazzi sgranchisce lentamente le sue dita, la donna gli si approssima con maggiore risolutezza, il pugno si apre, un ragazzo raggiunge la donna e la colpisce in pieno volto, la donna stramazza al suolo, il ragazzo agita la mano e soffia sulle nocche che hanno colpito, ride, ridono e fuggono tutti i ragazzi, uno dietro l’altro, come anelli serpeggianti di una catena trascinata da un fantasma.

 

(Beer Sheva)

Il suono delle parole Beer Sheva (sette pozzi) mi ricorda uno scroscio d’acqua. Quello di Tel Aviv (collina della primavera) un liquido che si incendia.

A Beer Sheva, in una libreria specializzata in fumetti c’è una parete coperta di disegni e fotografie. Immagini di donne che si succhiano l’un l’altra i piedi. Cunnilingus e fellatio. Ventri aperti chirurgicamente da cui escono gli intestini. Spade che attraversano corpi da cui zampilla il sangue come un getto di sperma. Una donna nuda che pratica il seppuku, dal sangue prendono forma e volo innumerevoli uccelli. Corpi in preda alle fiamme. Una donna con la vagina al posto della bocca e un fallo al posto del naso. Poliziotti a cavallo che reprimono manifestazioni. Hitler vestito da marinaretto, in ginocchio con un rosario tra le mani. Marilyn Monroe a cavallo di una enorme bottiglia di whisky, sinagoghe che fumano come ciminiere e scimmie che volano come angeli dispiegando cartelli pubblicitari. Libretti rossi di Mao agitati sotto il sole dell’avvenire. Uno scheletro che defeca. Uno scheletro impiccato a un albero. Feti serviti in vassoi a un tavolo, i commensali sono rabbini con i pantaloni calati che si sodomizzano col crocefisso. Nudi di obesi di Lucian Freud. Ana Mendieta che si strofina sul corpo nudo il sangue di una gallina decapitata. Una ragazza che balla e intorno a lei volano würstel con braccia, che si spargono addosso il ketchup e la senape. Un cartello su una autostrada americana che dice attenzione, pazzi atei e i loro difensori, anti-Dio è anti-Americano, anti-Americano è Tradimento, i Traditori portano alla Guerra Civile. Nazisti denutriti, vestiti come prigionieri di un campo di sterminio, la svastica cucita sugli indumenti, inginocchiati sotto la bandiera con la stella di David. L’Alice di Carroll nuda nella cornice dello specchio infranto, il sesso leccato dal Coniglio. Un maiale crocifisso. Una scritta in giallo e nero: e al terzo giorno il Dio Bambino risuscitò, e proprio all’ora dei cartoni animati. Una scritta in bianco attraversa la scritta precedente: En Sof. Una donna giapponese apre il kimono ed espone il sesso, una lucertola le si arrampica su una coscia. Un pinguino con bombetta, sul fondo la bandiera d’Israele con la falce e martello al posto della stella di David. Nell’angolo in basso a destra, come una firma o un titolo, in rosso: Gernika. Su un’altra parete hanno tracciato in bianco, con una bomboletta spray, un grande anello di Möbius. In un angolo della sala ci sono quattro televisori sui cui schermi vengono proiettati diversi modelli di evoluzione e movimento cellulare nel Gioco della Vita di Conway (un automa cellulare, un gioco senza giocatori, il cui sviluppo è determinato dallo stato iniziale senza mai l’apporto di dati ulteriori). Un uomo è fortemente concentrato sugli schermi. Fissa lo sguardo sull’evoluzione completa di un modello diehard fino alla sua estinzione (dopo 130 generazioni). Si gratta il mento, ha ora gli occhi chiusi e si dice: il dado è tratto.

 

 

 


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Marta Goldin, Incomprensione (2), 2022.