Borgopoli ⥀ Opera collettiva solarpunk #7
Continua il viaggio nella Borgopoli marchigiana, raccontato in un’opera collettiva solarpunk. Il racconto di oggi è di Francesco Terzago, che lo ha anche illustrato servendosi di Midjourney, programma di intelligenza artificiale che crea immagini da descrizioni testuali. È possibile leggere qui l’editoriale della rubrica e la lista dei racconti pubblicati finora
#7
L’entroterra appare così, un insieme disorganizzato di guglie verdi. Le querce secolari sono maritate alla Lacrima di Morro, un vitigno autoctono di origine antichissima; ciò significa che fusti e tralci hanno come loro sostegno la struttura arborea prodotta dagli alberi.
Simili strutture silvestri ricordano cattedrali; la foschia marina che le raggiunge si insinua tra le foglie e distribuisce preziosa umidità e fa così anche con il sale che forma un’invisibile crosta sui grappoli capace di proteggerli.
La brezza muove le fronde diffondendo un suono che ricorda migliaia di sussurri. È ciò che qui chiamano “il respiro” e si sostiene che dia conforto e rinvigorisca. Un fenomeno che, secondo la tradizione locale, coincide con il sovrapporsi delle voci di quella moltitudine di persone che hanno lavorato qui, generazione dopo generazione.
Gli spiriti degli antenati e delle antenate albergano in questa terra dove il confine tra umanità e natura sembra non essere mai esistito e questo sarebbe il loro modo di rammentare a ogni vivente che la materia di cui erano composti contribuisce a sostenere la crescita delle querce e delle vigne.
La sepoltura che contraddistingue le usanze locali (già documentata da Plinio il Vecchio), e che anche ai nostri giorni conosce la massima diffusione, è definita modernamente “compostaggio umano” e consiste nel trasformare, con un processo controllato, le salme in terra fertile.
La foresta del Morro rappresenta un ecosistema unico al mondo nel quale la comunità ha indirizzato lo sviluppo degli alberi: la crescita dei rami è stata guidata, grazie a un’arte tramandata nei secoli, in modo da costituire scale e passerelle che raggiungono dimensioni ragguardevoli. Esistono camminamenti con un’ampiezza superiore ai due metri e una lunghezza di trenta, come nel caso della Loggia della Maliarda – lungo i tronchi sono stati ricavati sgocciolatoi capaci di raccogliere l’acqua in ampie vasche di pietra, nascoste tra le radici, dove nuotano tritoni e altri anfibi.
L’ordito della foresta è così fitto che, qualora un albero muoia, altri lo sostituiscono nelle funzioni – sebbene l’imponenza degli alberi possa comunicare rigidità, il sistema nel suo complesso è molto flessibile. Comunque, specifiche tecniche consentono l’impianto di nuovi alberi nei lacerti di quelli più antichi. In questi termini la foresta si sviluppa strato su strato in quella che, al visitatore esterno, potrebbe sembrare un intrico disordinato, dove è difficile orientarsi.
La foresta è allagata per brevi periodi, in inverno, così da combattere – senza l’utilizzo di innesti – la filossera.
Per consentire alla luce di raggiungere le aree più profonde della foresta, i coltivatori utilizzano lenze e funi così da produrre varchi tra le fronde; in alcuni casi, sono adoperati semplici meccanismi azionati dal vento per poterle orientare con dinamicità. Ciò consente, con semplici automatismi, il passaggio dei raggi solari in specifici momenti del giorno.
L’intera comunità si prende cura di un bene considerato collettivo e indivisibile – non esistono differenze di salario derivanti né dalla mansione né dal genere – tutti gli abitanti della contrada ricevono in egual misura i proventi dell’attività agricola.
(Racconto di Francesco Terzago)