Borgopoli ⥀ Opera collettiva solarpunk #10

Continua il viaggio nella Borgopoli marchigiana, raccontato in un’opera collettiva solarpunk. Il Conducente, il racconto che vi presentiamo oggi, è di Stefano Sanchini; l’illustrazione è di Silvia Mengoni. È possibile leggere qui l’editoriale della rubrica e la lista dei contributi pubblicati finora

 


#10

Così ho trovato lavoro in un’azienda di trasporto pubblico. Un buon compromesso, io sono il conducente, un autista di linee urbane e suburbane. Si srotolano le strade sotto le gomme, fiumi senza foce che girano e rigirano su se stessi ramificandosi in migliaia di affluenti, percorse per soddisfare bisogni, adempiere doveri, o per il piacere della carne. La stampella del senso per dare colore ai giorni che zoppicano l’uno sull’altro in una noiosa catena di montaggio. Gorghi di traffico intasato tra sconosciuti che condividono bestemmie e il tempo che scivola via in ansie e ritardi. Per me no, sono un autista di bus, Giovanni matricola 1202, per gli amici Giò, non mi preoccupa affatto il traffico e nemmeno i ritardi, tanto devo guidare fino a fine turno. Occupo il tempo a rimettere a posto mentalmente i versi che scrivo. Osservo i passanti per strada, conosco le loro abitudini, gli orari, come trascorrono le giornate, dove salgono e dove scendono. Sono lo spettatore della vita urbana e di periferia, cerco di farla diventare poesia, rubo i discorsi e il profumo o il fetore del passeggero. Sì, a volte capita che salga qualcuno che non si lava da mesi e ti tocca stare sul finestrino aperto laterale. Parlo con chi ne ha voglia, anche se spesso me ne sto in silenzio, nelle mie cose. Parlo con Charlie, uno che non arriva nemmeno alla sessantina, dalla barba lunga e incolta, un tipo grosso dalle palpebre gonfie e leggermente socchiuse di chi si è svegliato da poco. Entra ed esce da ospedali psichiatrici imbottito di farmaci e poi si infila in qualche bar a bere. Viene da un quartiere dove negli anni Ottanta tutti abusavano di droghe, la leggenda cittadina racconta che qualcuno gli avesse infilato un trip nel caffè a sua insaputa, quasi per gioco e quasi per gioco non fu mai più quello di prima. Oppure alla fermata con porte aperte osservo il tipo giovane dalla pelle olivastra e dai tratti peruviani, con le cuffie, nel primo pomeriggio. Lo spio dal riflesso del parabrezza, mentre quello canticchia sorridendo una litania il cui testo sono solo bestemmie, lo guardo canticchiare e ogni tanto specchiarsi di profilo sui vetri laterali del bus. Poi riprendo la marcia, in quello schermo sempre in movimento sulle notti e sui giorni della provincia. In pochi chilometri sei già sulle colline di una primavera esplosa nei profumi e nei colori. Le albe autunnali dalle improbabili sfumature di viola dopo una notte di pioggia. O quelle estive, fresche di un azzurro infinito e sfuggente, in cui anche il sole sembra abbia voglia di alzarsi prima. I tramonti sul palazzo ducale d’Urbino, un arancio di pace rinascimentale sui torricini, dove i piccioni si godono la vista degli Appennini e li inseguono volando giù verso Roma. Le belle ragazze, le ambiziose signore, i neri con i racconti dei deserti e dei viaggi d’Africa, le storie di tremendi naufragi dove la vita è un esilio. Le donne dell’est che alla domenica si incontrano nel verde cittadino, dopo il lavoro e per sentirsi meno sole, stendono coperte sui prati improvvisando pic-nic come se fossero davanti al Danubio. Gli anziani tristi che perdono la memoria e quelli che raccontano le prodezze giovanili in conquiste romantiche ed eroiche. Il down simpatico che quasi impazzisce per gli stivali delle donne, il cieco che senza vedere sa dove scendere, il senza tetto che mi chiede se so di un lavoro, il giovane dei graffiti che mi mostra qualche bozza nei fogli che porta con sé. A me il lavoro piace, perlomeno è il giusto compromesso per rimanere immerso nell’esistenza, stare al volante è come stare su una torretta d’avvistamento ad osservare il viavai della gente, la vita degli altri, mi sento uno scrittore o immagino di esserlo, e tutto quello che vedo dal posto guida deve essere un ricco materiale per un libro. Capita a volte che chiami al telefono il mio amico poeta e lui puntualmente si fa trovare alla fermata, sale e ci scambiamo versi, con pochi altri passeggeri proseguo alla guida verso la periferia. L’amico poeta, Milan Jodic, con il quale ho scritto un poemetto dialogico, o meglio, tutto cantato oralmente. Così era, se uno dei due trovava la risposta a quella dell’altro, non
importava il luogo o gli impegni, ci dovevamo vedere, era l’unica regola nello scrivere un poemetto orale. Poteva essere sul bus, in un parco oppure per strada, altre volte in un bar. Una necessità, un sangue fraterno, una gioia eterna, non importava vincere ma essere all’altezza dell’ispirazione dell’altro. Continuare i versi uditi dall’altro. Riprendevamo dall’inizio il poemetto, cantandocelo nel viaggio del bus, poi Jodic aggiungeva il pezzo nuovo e da lì io avrei continuato i versi fino al prossimo incontro. Canto canzonette quando sono solo alla guida del bus, fumo sigarette rientrando in deposito, ci dormo nell’attesa della ripartenza e due volte ci ho fatto anche sesso sul bus. Per me il bus è un po’ una casa dove ci passo sei ore e quaranta, sei giorni della settimana. Qualche volta ascolto stazioni rock ma principalmente sono sintonizzato su Radio Tre, una radio fantastica, ti fa sembrare l’Italia un paese civile, si fa informazione e si discute su temi alla portata dell’essere umano, si conoscono cose, qualsiasi cosa ma approfondita con fine interesse. Si ascolta jazz, blues, musiche etniche e sperimentali. Non è forse meglio nell’alba invernale la musica classica di Haydn per l’operaio che va verso la fabbrica, calma e gioiosa, piuttosto che la musica che si confonde alla pubblicità in quelle radio dove un rumorio continuo accompagna la voce di un simpatico dj? Che i passeggeri ascoltino qualcosa di interessante, è importante il tempo. Per me è come un atto patriottico mettere Radio Tre sul bus, perché ancora un’Italia c’è di persone intelligenti che amano le differenze. O almeno non perdo tempo, mentre guido ascolto e sfamo la mia curiosità. E il tempo del lavoro si fa più leggero. Sembra che oltre al lavoro ci sia la vita e le passioni che ognuno ha. Qualche passeggero a volte viene a ringraziarmi prima di scendere, dicendomi «Grande radio», e ci si sente più vicini anche da sconosciuti. A volte il compromesso non basta, e penso che dovrei lasciare tutto, per dedicarmi alla mia passione. Quale peccato più grande se non quello di non
rispondere alla propria chiamata. Eppure, ormai sono vent’anni che guido. Come puoi guadagnarti da vivere a fare il poeta? E pensare che a dare calci ai palloni si guadagnano milioni. Quindi ti serve un lavoro che ti dia da mangiare per fare poesia. Sì, sto scrivendo questo libro, per mettermi alla prova con la prosa, come scrittore in cerca di un vasto pubblico di lettori, si potrebbe chiamare Confessioni del Conducente, dove il conducente si improvvisa scrittore di prosa, e vuole che questo libro sia per lui un biglietto vincente della lotteria per i troppi lettori, che lo faccia cadere sui cuscini soffici dei milioni come i calciatori, così finalmente lasciare il lavoro di autista di bus e dedicare tutto il tempo alla scrittura. Mettendo subito in chiaro al lettore che comprare questo libro è una specie di colletta per quello che l’autore potrà donarvi licenziandosi da conducente e dedicandosi a performance in piazza o in teatro, che vi faranno pensare a quale strada prendere, su quale bus salire in cerca della giusta via. Basterebbero anche solo migliaia di lettori in fondo, giusto per pagare le bollette, per il resto me la caverei con un orto, e tutto il resto lo dedicherei alla scrittura. Non è un libro autoreferenziale, perché potrebbe parlare anche di voi, di chi vorrebbe fare il pittore nell’intento di vendere i quadri e dedicare tutto se stesso alla propria passione, all’attore di teatro che forse riesce quasi a cavarsela e farne una professione. O quelli del cinema che guadagnano tanto, ma ci vogliono conoscenze e sapere come muoversi. Al giovane rapper direi che non basta essere bravi o credere di esserlo, bisogna saper vendere l’immagine, essere mediatici. A settecento anni dalla morte di Dante, non esiste ancora un lavoro da poeta. Il poeta è famoso da morto, da vivo è in esilio. Per lo meno quelli bravi tipo Dante, per i cortigiani alloro e oro sempre. O tipo Giacomo quello nostro di Recanati, Giacomo quello che stava sempre dietro a quella siepe, non era un tipo che poteva fare il manager di se stesso, non era mediatico. Nell’infinito silenzio tra lo stormir di fronde era cosmico, nella sua solitudine divenne eterno. Nelle mortali spoglie quando ancora era posseduto dai desideri e dalle voglie, non ebbe fama e successo. Perché non era mediatico ma cosmico. Cerca altro il poeta, non il successo. Se fosse stato mediatico, cioè famoso quanto lo è ora, sai quanta figa e quanti soldi avrebbe avuto Leopardi oggi. Quindi giovane rapper ti auguro fortuna e di trovare la giusta misura tra il mediatico e il cosmico. E quando sarai ricco ricordati di me come io farò con te, se dovessi vincere questa lotteria. Ci servono nuove idee e collaborazioni, e servono soldi e tempo, come al giovane regista servono fondi, tanti, per fare un film. Chiunque ha una passione o un via che mette da parte spostandosi su un altro binario, diverso da quello che voleva percorrere e dove sente di dover andare, e vede sempre più all’orizzonte e lontana la sua passione o chiamata, la vede scomparire come un sogno fanciullesco convincendosi che era solo un’illusione. Sarà anche un’illusione, ma è quella che fa la differenza tra gli esseri umani, se no sono solo macchine in funzione di un sistema. Producono capitale, ma guadagnano quello che gli basta per sopravvivere. Si possono permettere di comprare quello che il mercato offre al loro potenziale economico. Scriveva Guy Debord: «Hanno creato desideri senza che fossero mai stati dei bisogni». Il capitale è subdolo, è un cavallo di Troia, ogni cosa appare come un dono, ma dentro c’è la guerra. Il capitale è astratto, non è nessuno. Non c’è un responsabile, quindi è inattaccabile dal suo interno, ma, chissà, potrebbe forse un giorno essere sostituito come avvenne per le aristocrazie. È un sistema in cui chiunque al suo interno partecipando diventa la causa del male del pianeta. Se lo si osserva con attenzione, si vede che il capitalismo è la causa principale di ogni cosa che non va. L’immigrazione, il clima, l’inquinamento, la competizione e la distanza tra gli uomini, le guerre. Il cibo, l’aria, l’acqua perdono le loro qualità nutritive e diventano causa di malattie. La cosa più inquietante del capitalismo è che vivendo all’interno del suo sistema, diventa normalità quasi fosse naturale. L’uso quotidiano del denaro per sopravvivere, lo fa percepire come un elemento naturale, come per il cacciatore della preistoria lo era un cervo. Abbiamo fede nel denaro, per quello Dio è morto, ma il denaro è solo carta, alla quale diamo valore. Oggi il denaro è un file che striscia dalle carte di credito, passa invisibile da una carta a una banca dati, così ti liberi del tempo che hai dedicato al lavoro che se lo prende il commerciante, e tu torni a casa con un ombrello o una macchina nuova. Il denaro ti sfama, ti diverte e concede a chi ne ha tanto il lusso di vivere come i nobili del passato. A quelli che non ce l’hanno resta il desiderio di averlo. Quindi il capitale crea falsi valori che diventano la morale di chi è degno di parteciparvi. Un’omologazione al pensiero unico. Chi è povero è tagliato fuori, è un clandestino. Scorre il ruscelletto della vita ignaro del capitale che nutre i suoi grossi serpenti striscianti, il denaro e il tempo di ogni uomo che non è libero, ed io sono per metà poeta e per metà autista di bus. Io guido il mezzo di chi è tagliato fuori.

(Racconto di Stefano Sanchini)

 


Illustrazione di Silvia Mengoni.

 


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