Breve viatico per Fabio Pusterla | di Massimo Raffaeli | La Punta della Lingua 2019

Il 3 luglio, a La Punta della Lingua, Massimo Raffaeli presenta e introduce il poeta Fabio Pusterla

Dei grandi poeti Fabio Pusterla manifesta ab origine il tratto nucleare e distintivo, nel suo caso la forza di trasmettere la complessità nella semplicità, e viceversa. Intanto la parola-chiave che ne presagisce già all’esordio tutto quanto lo sviluppo, o almeno ne delinea la prospettiva, è nel titolo Concessione all’inverno (1985). Il poeta sa di muovere come da una glaciazione che oltretutto è duplice e investe sia lo spessore dei contenuti sia la liceità dell’esempio formale ricevuto dai maestri (Vittorio Sereni, via Giorgio Orelli, e il non meno grande Philippe Jaccottet di cui Pusterla, per una congiuntura di assoluta fedeltà, è da sempre la voce italiana).

La sua poesia viene cronologicamente dopo quella che una dubbia categoria definisce la linea lombarda, estrema propaggine a nord della negatività montaliana e del senso di arida reificazione, però è subito connotata da una ansia di dire e quasi da una violenza del comunicare: in pochi altri poeti si avverte il fisico spasmo, una torsione espressionista verso il lettore e ciò vuol dire che per colui che sta scrivendo il lettore è una necessità e non un riflesso narcisistico ovvero una pura convenzione retorica. In Bocksten (’89) l’apertura dialogica, nel senso di una drammatica richiesta di senso dentro un presente che si percepisce abbandonato, desertificato, egli accoglie e riattiva uno dei grandi emblemi della poesia secolare e della poesia come simbolo di umana resistenza, come segno di dolore ma insieme di sopravvivenza inopinata. E’ L’anguilla del Reno, dove viene detto in clausola:

“è un profumo lontanissimo, il sospetto

di un sogno interrotto poco prima dell’alba,

quanto basta alla pinna e al tuo testardo

palpito delle branchie, per strappare

un attimo all’asfissia, un’idea di vita

all’evidenza dei fatti, l’ultima sfida all’ansia, un’utopia

alla paura di tutti”.[1]

La sua poesia nasce dunque nei pieni anni settanta, nel frangente di massima turbolenza politica e sociale, l’età che fu detta dell’antagonismo, quando la poesia non pareva più avere spazio pubblico se non nelle anonime testimonianze della militanza politica o del disagio esistenziale. (Chi aveva avuto l’ultima parola ufficiale, la neoavanguardia, da tempo ne aveva decretato anche la liquidazione e poi la archiviazione e infatti allora in pochi rammentavano che l’aggettivo sostantivato latino della loro insegna,“Novissimi”, può significare certo gli ultimissimi, ma anche gli inauditi…). In tanta spoliazione, la parola di Pusterla esprime la nativa esigenza di una umanità, di uno stare comunque al mondo dove si vogliano riconciliate nella purezza per l’appunto dell’esistenza comune, umana senza ulteriori aggettivi, sia la parte affettiva e segreta degli individui sia quella propriamente etico-politica, nell’interfaccia fra l’io e il tu che riconoscono a vicenda il proprio volto tracciando inconsapevolmente la sola forma futuri che la poesia abbia il mandato di testimoniare. Quel legame non spetta soltanto ai vivi come tali ma anche e specialmente al loro rapporto con i morti, che è un topos della poesia moderna ma così universale che qualcuno lo associa alla sopravvivenza della poesia tout court. Riguardo a Pusterla, basterà pensare ai titoli di alcuni fra i suoi libri maturi (Pietra sangue, ’99, Folla sommersa, ’04, Argéman, ’14, Cenere, o terra, ’18) oppure a certi testi in tal senso più espliciti, quali lo stupendo Le scale di Albogasio (movimenti ascensionali) dove una domestica discesa agli inferi si muta via via in un itinerario di ascesi e di drammatica conoscenza del mondo:

“E tuttavia dal basso

sale qualcosa, un soffio umido e denso;

una mano d’aria o un gonfiore

s’insinua e chiede ascolto,

vita remota che risale dall’acqua, ancora informe

eppure già presente, già imperiosa

nel suo esistere scarno”.

È, in senso figurale, l’insorgere di quanto dà forma ed una qualche compiutezza alla vita, fosse solo per un attimo. Questa, per un poeta, è l’unica utopia accessibile.

Note:

[1] Non so con precisione da quando, ma da molto tempo ogni volta che mi capita di riaprire un libro di Pusterla si innesca fatalmente una associazione di idee a proposito dell’utopia e mi viene in mente un libro di Eduardo Galeano, Las palabras andantes. Qui lo scrittore racconta che durante una conferenza in una università americana gli capitò di usare più volte la parola utopia davanti a un pubblico di studenti ricchi, arroganti, non interessati e a un certo punto visibilmente spazientiti. Finché uno di costoro sbottò: – Ma cosa sarà mai questa utopia, che senso ha? Galeano si limitò a all’immagine dell’orizzonte che sta sempre davanti a noi per quanto noi cerchiamo di raggiungerlo. Al che lo studente, con un sorriso di compatimento: – Ma appunto non serve a niente, a cosa serve se no? E Galeano: – Sciocco, serve a camminare… La stessa cosa io ho sempre pensato dei versi di Fabio Pusterla, che sì, essi servono a camminare.

Massimo Raffaeli

(foto di copertina di Andrea Gambacorta)