«Bugs were the dreams within virtual reality» ⥀ Oltre i limiti del tecnicismo VR per un approccio umanistico

Diversione e immersione: l’apparente contraddizione ontologica della realtà virtuale

 

Non sorprende il successo di prodotti mediali che restituiscano agli spettatori un prospetto alquanto distopico della tecnologia, nella fattispecie relativamente all’immersività – minacciosa nei suoi eccessivi ed estremi utilizzi? – che contraddistingue la realtà virtuale. Inutile menzionare il popolare Black Mirror, unitamente alla copiosa letteratura al riguardo. Eppure, l’etimologia sottesa al termine divertire – direzione cui tende la maggior parte della tecnologia odierna – rimanda etimologicamente ad un fattuale allontanamento dalla realtà.

Soprattutto se applicato a contesti non ludici, l’utilizzo della realtà virtuale potrebbe certamente risultare contraddittorio se visto come una sovrapposizione di allontanamento e immersione: in apparenza l’utente abbandona un’esperienza per immergersi in un’altra prettamente virtuale, la quale, come una lente di ingrandimento, evidenzia (o crea) sfaccettature del reale spesso impossibili da percorrere nel pratico, talvolta semplicemente ignorate, ma pronte all’utilizzo per l’utente che intenda conoscerle in profondità. L’invito è pertanto a decifrare al meglio i simboli di un ambiente virtuale senza il timore che questo agire possa condurre all’edulcorarsi dei confini tra reale e virtuale.

La tensione tra i nuclei del reale e del virtuale rimanda a tempi antichissimi, o meglio mitologici. Il desiderio di andare oltre i limiti fisici e compensare la debolezza insita nell’essere umano sono alla base del concetto di τέχνη, ‘magnanimo’ dono degli dèi nonché spinta motrice delle ali dedalee. Parimenti tecnicamente fragili e ambiziose risultano le prime esperienze note in realtà virtuale. Si fa riferimento alla ricostruzione della città di Seattle che l’informatico Jaron Lanier, pioniere della VR e fondatore della startup VPL, ricevette su floppy disk nei primi anni ‘80, pronta per venire esplorata con occhio non giudicante, ma compassionevole negli intenti nobili sottesi alla sua creazione.

Effettivamente, la percezione riscontrata era quella di aver indossato i panni di un nativo di quella realtà ibrida dispiegatasi sotto gli occhi e di aver abbandonato le vesti di un semplice osservatore. La mano virtuale, anziché afferrare gli oggetti, li penetrava, eppure questo errore offriva una nuova possibilità percettiva, una diversa idea di fisicità. Da voyant1, Lanier decide di accantonare momentaneamente l’istinto che normalmente lo avrebbe portato a correggere i numerosi bug della riproduzione urbana e si pone un unico e categorico quesito: “Cosa resta di se stessi quando si ha la possibilità di modificare virtualmente l’intera realtà?”. Ma al giorno d’oggi ha davvero ancora senso chiedersi ciò, di fronte cioè alle nuove possibilità esplorative dischiuse da questa straordinaria tecnologia, suscettibile di un perfezionamento potenzialmente infinito? In fondo, come sostenuto dallo stesso Lanier in tempi più maturi:

«The real world is a sea of mystery; we huddle on our tiny island illuminated by science and art».

 

Jaron Lanier

Questa prospettiva vede scienza ed arte come eterni portatori di luce per l’uomo che si senta disposto ad uscire dalla propria zona di comfort per esplorare gli anfratti della piccola isola che ne ospita la breve esistenza. In un parallelismo con il mito della caverna platonica, il virtuale potrebbe a tutti gli effetti aiutare a direzionare lo sguardo verso la fonte reale della luce conoscitiva, non più sulle sue ombre. Secondo lo studioso Simone Furlani, il rapporto immagine-realtà risulta esasperato nel virtuale: l’immagine non rappresenterebbe più, infatti, un tentativo di imitazione del reale, ma offrirebbe agli utenti nuovi e molteplici orizzonti di significato, provocando nei soggetti un senso di alienazione.

L’avvenuto abbandono della mimesis da parte del virtuale ha condotto al bombardamento di immagini dotate di proprie essenza e realtà, onnipresenti nei media. Non si tratta di semplice moltiplicazione, ma di iper-riproducibilità con conseguente necessità di un utente allenato al punto da non essere sopraffatto dall’invasione delle immagini. Ma cosa significa, a questo punto, non lasciarsi sopraffare e liberarsi idealmente dalle catene? Relegare le immagini nell’idea che si tratti ‘solo’ di immagini, quali infinite sfaccettature di una poliedrica ed opinabile realtà, oppure sposare l’opinione che queste siano, di fatto, la realtà stessa? L’iper-realismo che contraddistingue le immagini andrebbe a costituire

una realtà letteralmente costruita (made-up), ma che disporrebbe di tutte le caratteristiche di una “presenza” da affrontare sul piano non solo della visione, ma addirittura su quello della tangibilità (tactility). Le immagini […] si imporrebbero come “surrogati di presenza” che richiederebbero le prestazioni non di un semplice soggetto, bensì di un “iperspettatore”.2

Non potrebbe essere usata migliore metafora se non quella dello sguardo ‘prensile’ a cui fa riferimento lo stesso Furlani.

Introducendo la mission di VPL, Lanier contempla una linea di demarcazione tra i concetti di mondo e di realtà nell’ambito del virtuale. Con il primo si riferisce al costrutto nonché frutto di una mente fiduciosa nella persistenza delle proprie intuizioni, mentre con realtà egli fa riferimento alla convinzione di una singola mente nel ritenere che le altre condividano la stessa percezione del mondo. Sarebbe proprio quest’ultimo concetto a rendere possibile lo sviluppo dell’empatia e l’instaurarsi della comunicazione. E sarebbe proprio questo il motivo per il quale egli preferisce parlare di realtà virtuale, meno di mondo.  «Then add the somatic angle: a mind can occupy a world, but a body lives in a reality, and with VPL’s somatic interfaces like gloves and body suits, we were designing for the body as well as the mind»: la storia degli anni a seguire dimostra quanto l’impegno di Lanier sia andato in questa direzione.

“Artwork Of Millennium Bug With Beetle On Microchip”, di Victor Habbick Visions

Per quanto riguarda il futuro della tecnologia VR, Lanier non si discosta dalle precedenti premesse. Egli infatti sostiene nel recente saggio Dawn of the New Everything. A Journey Through Virtual Reality, che l’umanità vada verso quella che definisce postsymbolic communication. In breve, «instead of telling a ghost story, you’ll make a haunted house», letteralmente parlando. Sulla demonizzazione del virtuale Lanier sostiene che il tracciamento dell’attività umana per il suo perfezionamento sia sì spaventoso, ma ugualmente essenziale per garantire la migliore user-experience possibile. Insomma, si potrebbe seriamente giungere alla peggiore delle ipotesi per l’umanità, ma tutto può essere evitato direzionando gli utilizzi in nome del buonsenso – la virtù sta nel mezzo.

Una narrazione per immagini, quella virtuale, è stata troppo spesso penalizzata da una lettura eccessivamente tecnicistica. Il riferimento è alla riflessione di Dalpozzo, Negri e Novaga, i quali evidenziano la necessità di lavorare ad un approccio all’informazione di tipo umanistico, per nulla osteggiato dagli informatici. Lo stesso Lanier sostiene che la VR suggerisca «an inner-centered conception of life, and of computing».

Anche qui l’uomo è misura di tutte le cose: dal design, alla creazione, fino al miglioramento delle esperienze proposte. L’uomo avrebbe sempre attuato, grazie alle proprie capacità tecniche, delle pratiche trasformative atte a rimodellare, quindi ad aumentare, il proprio mondo-ambiente. Un esempio chiave di tale tecnicità o empowerment tecnico è il linguaggio articolato, con cui in alcune lingue vengono adottate diverse variazioni fonetiche per indicare stati diversi di uno stesso elemento, ma potrebbe benissimo farvi parte anche il corpus crescente di competenze sviluppate dagli utenti nell’utilizzo sistematico di tecnologie immersive, basti pensare allo smartphone e al suo risultare indissolubilmente unito al suo utilizzatore. Allo stesso modo, soffermandosi sulla differenza tra realtà virtuale ed aumentata, Negri specifica come, nella prima, la tecnologia indossabile necessaria per fruirla corrisponda ad una sorta di ‘seconda pelle’, in quanto inglobata al corpo umano.

Eppure, la realtà virtuale catapulta i soggetti in una realtà diversa, costituita da un ossimorico trovarsi ‘dentro’, in quanto immersi e ‘fuori’, nel senso che non si trova nuova collocazione in uno spazio fisico, ma si “soggiorna nelle cose che costituiscono il luogo del suo agire” e consente di aumentare la conoscenza del mondo, offrendo un flusso percettivo continuo. In questi termini Roberto Diodato ha parlato di fenomeno paradossale, esperito da un utente contemporaneamente de-corporeizzato e ipersensibilizzato, sottolineando come la realtà virtuale sia costituita dall’interazione tra le immagini e il corpo, ma anche tra l’immagine del corpo e quei corpi, ovvero le immagini. Di conseguenza, anche l’architettura del mondo virtuale risulterà da relazioni e incontri. Contesti o ambienti virtuali, definiti anche come ‘ecologie digitali interattive’, non solo sono caratterizzati da ubiquità, trasparenza e intelligenza, ma si fanno acceleratori quotidiani di comunicabilità tra elementi remoti capaci di anticipare le esigenze degli utenti.

 


Note

1 « Je dis qu’il faut être voyant, se faire voyant ». Prendo (umilmente) in prestito Rimbaud: il virtuale non ci lancia forse un invito ad aprire i sensi verso una nuova percezione del reale, senza soffermarci eccessivamente sul “tradire la realtà comunemente intesa”? Abbiamo ancora bisogno di mimesis?

2 Cristiano Dalpozzo, Federica Negri, Arianna Novara (a cura di), La realtà virtuale. Dispositivi, Estetiche, Immagini, Milano-Udine, MIMESIS EDIZIONI, 2018, p. 71.

 

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