Con La battuta perfetta di Carlo D’Amicis la narrativa corre finalmente in aiuto di una saggistica ancora ferma ai tempi in cui Aldo Grasso denunciò l’assenza di una storia dei programmi a fronte di un eccesso di dibattito ideologico attorno al mezzo televisivo in sé. Questa è senz’altro l’idea forte del romanzo, la sua ossatura: srotolando la trama, D’Amicis restituisce ai programmi della nostra storia il loro esatto peso, accertando l’inevitabile ambiguità del rapporto tra tv e società, tra società e tv. Così, una tv bulimica divora via via ogni momento della narrazione: apparsa in una società primitiva, versione materana del monolite di Kubrick, essa procede alla conquista dello spazio e tempo del lavoro, della parentela, dell’amicizia, dell’amore e, infine, di un potere politico che, al di fuori dello schermo, assume sembianze patetiche e grottesche. Ma, per quanto si sforzi, questa tv non riesce ad essere la vera protagonista di un complesso affresco umano.
In effetti tre sono i protagonisti del romanzo, come tre sono i suoi luoghi: l’io narrante lo attraversa tutto passando dal dialogo con il proprio padre a quello con il proprio figlio e dalla primitiva Matera alla Milano indecisa tra il Martini bianco e le toghe rosse, passando attraverso la Roma di governo.
Tre sono poi i poteri, nel romanzo: il padre e marito materano, la capillare burocrazia capitolina, il grottesco e scintillante appeal economico dell’era berlusconiana. Ma tre sono anche le rivolte: la carne, il corpo, la gioia primitiva nella cupa e sassosa Matera; la risata e la violenza nella Roma bacchettona; la profondità dell’amore in una Milano che l’amore l’aveva confuso con la soddisfazione di piacere (agli altri).
In una sorta di educazione sentimentale, l’io narrante passa dalla crudezza sentimentale della Matera pasoliniana fino alla semplicità del sentimento puro, libero dall’obbligo di piacere. Così facendo, egli torna al punto di partenza ripulito della propria rabbia, capace di una quasi inaspettata ventata di speranza. Lo stesso percorso segue la collettività, in una parabola che va dall’ignoranza alla totale decadenza ad un nuovo possibile seme di consapevolezza.
Quello di D’Amicis è un affresco narrativo della società italiana: come negli affreschi del Rinascimento, non a caso, si riconoscono i personaggi più importanti. Là c’è Lorenzo de’ Medici, di là gli Sforza, quello dev’essere il Montefeltro. Tra le pagine del nostro passeggia nervoso e ammonitore uno scarno Pasolini, campeggia l’immarcescibile Andreotti ritratto in tutto il suo splendore arguto, si avvita disperato e sorridente l’uomo che di fatto ha unito i due binari della vita televisiva e della vita terrena: Berlusconi. Con questi personaggi il protagonista si trova ad armeggiare, sempre più dietro, e soprattutto dentro, lo schermo televisivo, sempre più padrone, e soprattutto schiavo, del proprio bisogno di piacere (agli altri). Un bisogno che coltivava innocente da bambino e si rivela colpevole adulto, sebbene egli continui a professarlo come alibi perfetto per ogni genere di mascalzonata, quasi fosse un alter ego del suo onnipotente datore di lavoro.
Come negli affreschi dei Lorenzetti, i grandi personaggi della storia si muovono a cavallo lungo sentieri immaginari punteggiati di uomini al lavoro, di beghe quotidiane, di vacche magre, ladri e poveri cristi sommersi dai pesi. C’è tutta una complessità del vivere, sia buono o cattivo il Governo rappresentato: una difficoltà che nasce in seno all’individuo e alla famiglia e nel contempo si sviluppa dall’alto, a cascata, nelle viscere del potere che è, nel romanzo, il vero terribile protagonista. Esso è la malapianta che cresce nella frustrazione ma anche nel godimento, che si nutre del bisogno di piacere ma anche della volontà di far del bene, che si fa bestia nella violenza ma anche nella silenziosa ritirata. Non c’è un solo personaggio del romanzo che non sia investito di un qualche potere (familiare, politico, economico, sessuale), e non c’è un solo potere, nel romanzo, che non investa qualcuno spezzandogli gli affetti, le gambe, la coscienza. Perché sembra proprio non sia possibile piacere senza esercitare del potere.
È, quindi, molto ambizioso il romanzo di D’Amicis.
Sorretto da una scrittura chirurgica, alterna caldi e freddi in un gioco di spirali dove la storia del Paese si avvolge attorno a quella dei programmi televisivi che a sua volta circonda quella dei luoghi della narrazione, della famiglia e infine del protagonista; ma la spirale va letta anche al contrario, si muove dal piccolo protagonista delle prime pagine e si allarga come sfoglia di una pasta passata al matterello.
A tratti, il racconto sembra camminare sul filo: il suo è un equilibrio sottile e la bravura dell’autore, la sua fermezza, risiede nella capacità di non cadere eccedendo nell’uso del sarcasmo e/o del pietismo, dell’ironia distaccata e/o del grottesco. Questo equilibrio sembra perdersi, per un attimo, nel passaggio dalla prima alla seconda parte: da quella in cui l’io narrante si rivolge al padre a quella in cui parla con il figlio. Qui, la farsa e la concitazione strappano il lettore alla meravigliosa, anche se drammatica, alternanza di ambienti che caratterizza la prima parte del romanzo.
Ma a ben vedere non è un difetto della narrazione. È un difetto della nostra storia.
Paolo Marasca