Caro Davide, quanto teppismo santo! ⥀ Una lettera di Giacomo Lilliù per Rovi di Davide Nota

Giacomo Lilliù ha letto in anteprima Rovi di Davide Nota, in pre-order fino al 18 gennaio e in libreria dal 3 febbraio, e ha scritto questa lettera. La proponiamo come un prologo a voce alta di introduzione al testo

 

Caro Davide,

è vero quello che chiedi ne L’origine: cosa posso capire io che vivo adagio? D’altronde, mi resta difficile assumere fino in fondo il ruolo di quel “prossimo generico”, il lettore non specialistico a cui affidi il lascito di questo libro: la pietra che mi trovo in mano posso dire di conoscerla, in qualche modo. Eppure, nonostante tutto questo, ricoperta dai tuoi rovi quella stessa pietra incomincia a stillare una cosa magica, fluorescente.

C’è quest’ostinazione che non so spiegare, ma che mi trascina. Flutti che si abbattono insistenti contro una scogliera. Mi sorprende questa verve inquieta, pulsante, quanto pulsante, irrimediabile: “ma piango / per te o signore che hai morto / come adesso si muore un ragazzo”. Abita in un’insoddisfazione che prega forte e si mangia le unghie questo libro. E dovrei forse andare nello specifico delle sezioni, fare un viaggio in tappe, ma ora posso parlarti solo di questa istantanea che ho, questo lampo che ho impresso da qualche parte dietro la fronte. Tipo i tuoi cadaveri, bloccati in una sospensione del giudizio, in attesa di essere consegnati alla pelle tirata, non-morta, di un video, di una rappresentazione – o di essere salvati nella resurrezione aperta dalla smagliatura, dallo slaccio del fascicolo di una vita codificata, dallo sfacelo biologico e dall’anomalia del glitch che sorridono entrambi “come un tronco marcito”. E tuttavia, dei morti, del morto, del Grande Morto, tieni tra le braccia tanto l’amore della voce quanto la croce del corpo martoriato da piaghe insanabili: “Per sempre rovinato il tuo saluto resta / come inchiodato a questa / percezione magnetica”. E con che rabbia allora ringhi: che resurrezione è mai questa, “che cosa hai risolto nel mondo?”

“Ghiaccia / la sinfonia del grande oceano, stipa / il frantoio delle ore diurne / la vita. Non esiste / altro dio che questo freddo eterno / in cui chi va ritorna / alle soglie meschine di un universo / che si espande e comprime.” C’è un tormento che più volte fa salire il pianto e che però lo blocca tragicamente sull’orlo delle ciglia, “come davanti a un morto” appunto. Perché è radicalmente inconsolabile, elementalmente irato. Mi parla questa incapacità a placare il fremito che abita dentro, dove nessuna unghia gratta. Ti confina in una solitudine tenue, violetta, e in questo ti scopro così tanto meglio vicino a me, con un odore nuovo, e il desiderio di trovarti una coperta.

Ma pure, quanto teppismo santo! “È così che… che non lo so come si dice / però ti ho preso un fiore, ecco, prendilo…” Versi che scoperchiano i massi, con le nocche sbucciate e il naso che cola, da asciugare seduto accanto al Tronto. E canti per la strada, e forse ti sente in un altro vicolo Esenin, e vi aggirate entrambi minacciosi, a caccia di pugni, con il rovello dietro gli occhi arrossati. Ti avventi contro un arido male, un nemico mortale che chiami potere, e vorresti slogare, spodestare qualsiasi concetto di morsa, far regnare una voce nuova che annunci “a parte i fatti c’è dell’altro”, “io cerco un occhio che mi veda ancora”. Ma il potere sempre ti tiene in scacco (sennò che mitologia sarebbe) e allora ti ritiri all’alba nel tuo regno di esiliato, “nella grotta degli ombrelli, / nella scritta blu cobalto, nella stella / che di notte brilla”, come brilla quella poesia che non-può, ma che ancora salta come un petardo, come un big bang.

La gioia è di sorprenderti in un’officina, alle prese con una parola che si scarta, articola ed armeggia, e che scintille, in scatenato esprit di sabotaggio, con la narice aperta dall’idea (dall’aroma) della macchina sventrata. Una parola che ancora non sa che dovrà immergersi nella lingua del silenzio – e anzi! Che bellezza sgamarti a graffitare: “ridere commuoversi gridare / antisociali e belli parlare / a voce alta, parlare sempre” (con a margine un post scriptum pesante come un mic drop: “il silenzio è volgare”).

Quando si chiedono dove te ne sei andato, in che monti sei salito da allora, io adesso ti vedo lasciare i tuoi strumenti proprio in quell’officina, forse perché ormai sono diventati utili, fedeli, troppo addomesticati; e nel viaggio che ti allontana da lì ti immagino masticare nuove erbe per distillare l’amaro, apprendere altri rigetti, coltivare lo sputo per tutto il tempo necessario a renderlo un gesto non di ostilità, ma di ringraziamento.

 


 

Giacomo Lilliù (1992) è attore e regista teatrale. Tra i suoi ultimi lavori: Teoria della classe disagiata, adattamento di Sonia Antinori dell’omonimo saggio di Raffaele Alberto Ventura, di cui è regista e, con Matteo Principi, interprete; il progetto PPSS, con Collettivo ØNAR e Alice Piergiacomi, tratto dal romanzo sperimentale Lilith. Un mosaico di Davide Nota; la performance in realtà virtuale WOE – Wastage Of Events, realizzata con Lapis Niger.