Casematte | Racconto – di Gunter Spiegelmann & Marco Benedettelli

Pacifico oggi si è spinto fino alle Casematte, un posto del tutto stralunato dove da cento anni forse non vive più nessuno, dove tutto è sfasciato, le finestre sono divelte, dentate di scheletrici infissi e le porte sfondate e i muri delle case marce e l’amaranto delle tegole dei tetti è maculato di muffa come la pelle di una creatura anfibia. Le Casematte sono una zona nascosta e isolata che sembra riposta in fondo a una botola dentro cui solo i più lunatici spingono lo sguardo. Sono una cittadella abbandonata, una antica postazione militare sopra il porto, in cima a una collina, tagliata fuori dal boccheggiare della vita urbana. Sono invisibili, perché circondate da una cintura di pini, di faggi, di fronde dense e di cespugli spinosi che solo le anime malinconiche attraversano. E oltre il silenzio dei tronchi c’è una cinta muraria alta, costruita durante il secolo dei lumi e quindi poderosa di razionalità geometrica. Solo che ora il tempo l’ha logorata, il vento e la pioggia hanno eroso i suoi mattoni plasmandoli in porose gibbosità irregolari. Sulla superficie delle mura e lungo i suoi basamenti ci sono feritoie o altri piccoli e luridi passaggi che in pochi conoscono e che è possibile valicare e che portano direttamente dentro il cassero, fra gli antichi caseggiati diroccati.

Pacifico nelle Case Matte si sente una goccia dentro a una spugna. Esce dal grande stanzone dove la venere paleolitica disegnata su un muro resta a custodire il vuoto circolare dello spazio e inizia a passare da un edificio abbandonato all’altro come se delirasse, entra e esce di soglia in soglia senza sentire il bisogna di pianificare nessun percorso. Dentro le palazzine disabitate fili di luce illuminano rampe di scale silenziose o cumuli di sudiciume. Le pareti sono fumose, la liquidità del buio sembra essersi impossessata di loro e di averle consumate.

Pacifico è andato dentro le Casematte perché gli piace girare come un cane, anche da solo, lui è uno di quelli che non ama la televisione, non riesce a rimanere chiuso in casa se non a leggere, anzi la sua camera – la stessa da quando è nato, dove ha passato le notti dell’infanzia e dell’adolescenza – con le sue pareti bianche, le sue mensole e le sue pile di libri gli sfascia il cervello. Così Pacifico si mette spesso cappotto e scarpe e va sempre a infilarsi ovunque, anche nei buchi più scuri e polverosi dove nessuno sente il bisogno di spingersi. Le Casematte sono uno di quegli antri che Pacifico va a calpestare solo in rare e speciali occasioni, quando vuole osservare l’invisibile sbriciolarsi della vita materica e biologica del mondo e assorbire il silenzio del tempo che frana.

Le Casematte una volta piacevano tanto ai fattoni. Ci andavano a bucarsi a frotte, accucciati negli angoli degli edifici abbandonati o all’ombra di tronchi o sotto le frasche intorno alle mura. Nella sua primissima spedizione alle Casematte Pacifico era rimasto impressionato dal reliquario di siringhe e di mezzi limoni spremuti e spappolati che coprivano, in un tappeto, diverse sacche di spazio dentro e intorno la cittadella abbandonata. A cosa servivano quegli aghi sporchi di sangue e i limoni che marcivano all’aria? Chi li aveva lasciati lì? Quell’immondizia era per lui materia potentemente enigmatica. Poi Pacifico aveva imparato che ci sono liquidi misteriosi al mondo, e persone che osano iniettarseli sotto la pelle pur di sfidare gli astri e l’ordine geometrico dei giorni. Oggi le siringhe alla Casematte non ci sono più, sono scomparse, rimosse, liquefatte, inghiottite dalle stagioni. I loro adepti sono morti tutti o hanno dovuto rinnegare se stessi. Per terra ci sono solo calcinacci e pezzi di plastica che si sono moltiplicati indisturbati fra le ebracce umide e la polvere. Ma le frasi scritte su muri e pareti delle stanza abbandonate sono rimaste tutte. Sono sbiadite e consumate e ancora trattengono e la voce di chi le ha scritte, le voci dei giovani divenuti presto tossici che venivano da queste parti a trasformarsi per mezzo della droga in ombre arcaiche. Sono scritte tremolanti, sono pensieri raggruppati in strofe, sfoghi pieni di accapo, attorcigliati su se stessi, quasi sempre involute, banali, che non vale la pena tenere a memoria, pensa Pacifico mentre cammina sui vicoli acciottolati, fra l’erba alta e le finestre che quasi muggiscono come bocche dalle tonsille strappate.

Ora Pacifico entra dentro una vecchia polveriera, con stanze e corridoi che si diramano verso antri oscuri. Per terra, sul pavimento, c’è buttato un materasso sfondato e mangiato da macchie nere. È un materasso dove qualcuno sembra essersi disteso, la sua superficie conserva il calco di un corpo che s’è raggomitolato per non disperdere calore. Qualcuno ci ha dormito su quel materasso, qualcuno che è venuto qua mentre la gente era da tutt’altra parte a lavorare. Pacifico pensa a Gaia. L’ultimo giorno che si erano visti avevano fatto l’amore sul divano, con le finestre della stanza aperte, tanto non c’era nessuno per le strade che potesse sentire il loro respiro convulso. Era primo pomeriggio, era piena estate e erano a Bologna, il caldo era così avvolgente da moltiplicare il sapore della pelle in mille goccioline di sudore e la luce era totale nella stanza e i loro corpi erano bianchi sopra i cuscini lisi del divano. Poi Gaia era tornata a Milano e da allora non si erano più sentiti, forse lei s’era rimessa con il suo ex, forse, così qualcuno gli aveva detto. Pacifico aveva provato a cercarla ma lei aveva traslocato e il suo cellulare dava sempre irraggiungibile, come se lei avesse cambiato numero. Sembra impossibile ma di Gaia non c’era nemmeno una qualche traccia in internet. Era scomparsa, del tutto, come in una favola metropolitana. Pacifico guarda il materasso e pensa al volto di Gaia nel caldo appiccicoso dell’estate, l’estate silenziosa e senza traffico, stralunata come le Case Matte dove lui ora gira solitario di soglia in soglia, lasciandosi alle spalle stanze vuote, avanti e dietro per passaggi contorti e acciottolati. L’ultima immagine che ha di Gaia è di lei che si aggiusta i capelli dietro la nuca, con lo smalto nero sulle unghie, mentre fissa il riquadro degli orari alla stazione di Bologna, prima di prendere le scale del sottopassaggio e scomparire nel tunnel illuminato al neon.

Pacifico guarda l’erba verde che spunta fra i sassi, fruga nelle zone di ombra fra le mura diroccate, poi sale in alto attraverso una rampa di scale e arriva sul punto più alto delle Case Matte, il suo bastione centrale, che un tempo primeggiava sull’orizzonte attorno. Pacifico s’affaccia dal parapetto del bastione e da lì osserva il porto dentellato di container e moli e gru mobili e a nord la spiaggia che si srotola sul golfo fino a infrangersi contro il groviglio di lamiere della raffineria in lontananza. I tubi scintillano sotto al sole come lombrichi d’argento. La città vista dall’alto è un insetto dalle migliaia di antenne immobili o una schiuma di gusci d’uova rotte. Pacifico si ricorda di un mito che racconta di quando cielo e terra si sono divisi per sempre. Lui ha fatto le scuole professionali, però è più colto di tanta gente che si vanta esibendo scuole come titoli araldici, perché lui legge molto, legge sempre e non smette mai di cercare e non si accontenta mai di se stesso, delle storie che conosce e che può raccontarsi da solo, mentre cammina. Pacifico si racconta la storia di Gea e di Urano, che è la storia delle origini del mondo. Prima di tutto ci fu il Caos che si illuminò come una grande ferita, una fenditura, uno spacco, una voragine e diede origine a Gea, la madre di tutto dal ventre florido e i seni ricchi. Gea poi generò Urano, l’ha fatto da sola, e con Urano, suo figlio, si è subito iniziata ad accoppiare e a generare ancora figlie e figli in amplessi cosmici e mentre sono distesi in uno dei loro amplessi, mentre il figlio Urano cielo stellato si stende sui seni di Gea madre di tutto, succede una cosa che scatena colori infiniti, i più lividi e incandescenti che Pacifico possa mai immaginare. Crono, un titano, uno dei primi figli di Gea e di Urano, un bel giorno arriva e taglia i coglioni al padre. Gli taglia i coglioni con una gigantesca falce, e lo fa proprio mentre il padre Urano suo fratello è stretto nell’amplesso con la madre Gea e lo fa con una falce che la madre Gea ha costruito per lui e lo fa perché il padre Urano vuole uccidere i figli suoi e di Gea, vuole impedire che nascano forse perché sono troppo mostruosi. Crono allora evira il padre e divide il cielo da Gea, per sempre, distingue il cielo dalla terra il sangue di Urano schizza e imbratta il corpo di Gea fecondandola di nuovi giganti e ninfe e furie e i coglioni del padre Urano cascano dal cielo stellato nel mare e sprofondano negli abissi e ribollono generando una schiuma spumosa e dalla schiuma nasce Afrodite, la dea dell’amore, la dea che rende gli uomini folli e coraggiosi e ogni volta che vede un’alba e un tramonto Pacifico pensa alla divisione fra il cielo e la terra e il rosso del cielo è il sangue di Urano che coi suoi coglioni incandescenti ha generato la schiuma e la bellezza. Potesse un giorno il mare schiumare di nuove creature, ad ogni alba rossa e dardeggiante e viola di sangue, tutto quel silenzio che Pacifico attraversa nel giorno avrebbe un senso, sarebbe solo una anticamera abbandonata verso una rinascita fatta di follia luminosa e di luce e di schiuma e di bellezza. Pacifico guarda ancora il porto davanti a lui, denso di container e di scafi e di spiazzi come placche e antenne e schegge di gusci frantumai, poi si gira su se stesso di scatto e scende di nuovo fra i vicoli ritorti e pieni di erbacce delle Casematte.

Gli edifici si ingroppano uno all’altro, sembrano denti sghembi in una bocca labirintica e su uno dei muraglioni che cingono il bastione più altro si apre l’ingesso di una galleria molto stretta che sprofonda nella muratura e si fa buia. Sopra l’arco di pietre bianche e squadrate che rifiniscono la bocca del tunnel qualcuno ha scritto con un carboncino: “Non avere troppo caro il sole e le altre stelle, vieni, seguimi giù nel regno oscuro”. Pacifico vorrebbe scendere là in fondo, del regno oscuro lui non ha paura. Vorrebbe spingersi in quelle cavità abbandonate e buie e trovarsi in un antro nero come il petrolio, dove il mondo gli frana da sotto i piedi e il tempo scorre all’incontrario. Pacifico pensa come sarebbe bello se alla fine di quella discesa nei budelli del mondo, da quel fondale limaccioso e madreperlaceo e non più buio, da quella cavità viscerale uscisse proprio Gaia, Gaia che non si sa più dove sia, Gaia che per un po’ ha continuato ad esistere solo in una fotografia che Pacifico teneva fra le pagine di un vecchio libro. Ma ora nemmeno quella fotografia si trova più, è scomparsa, lui ha rivoltato il libro dappertutto e la foto non c’è più, come se la mano del tempo fosse venuta a riprendersela. Nella foto lei guardava l’obbiettivo in una festa di carnevale, ed era quasi una bambina col grande naso e gli occhi che sembravano non essersi mai offerti a nessuno. Gaia ferma oltre la soglia, oltre il sole e le stelle, ferma ad aspettarlo in una stanza, in un regno sconosciuto, pronta a ricongiungere tutto, a riportare Pacifico indietro, indietro nei ricordi, indietro nell’esatto punto dove tutto è iniziato, nell’ingranaggio dell’orologio da cui si è espanso il franare dei giorni. Pacifico in quel momento capisce qualcosa, è come se il suo tempo mentale tornasse a scorrere, come se il sangue dei suoi capillari riuscisse a inghiottire e a dissolvere un grumo di cellule morte che gli hanno occupato una zona del cervello. Pacifico vorrebbe andare a Milano. Andrà a Milano, salirà domani o molto presto su un treno e passerà i prossimi giorni a cercare Gaia. La cercherà fra gli amici, fra i conoscenti in comune che ancora vivono in quella città. E quando l’avrà trovata, finiranno ancora assieme, in una stanza piena di luce, con l’estate che bagna i loro corpi nel calore e nel sudore e nei gemiti che escono dalla finestra e arrivano sulla strada dove non passa nessuno e c’è solo il sole. Domani lo farà, Pacifico partirà per Milano.

C’è una feritoia su un muro, Pacifico la conosce, è una delle vie di uscita. Si arrampica sulle scanalature dei mattoni, la imbocca e ci sguscia attraverso e con un piccolo salto si ritrova a ridosso della cintura di alberi che circondano le Casematte. Fuori la luce è diversa, meno crudele che fra le stanze abbandonate. Ci sono pini e faggi che coprono il cielo con le fronde pesanti e filtrano i raggi del sole e i colori sembrano più rarefatti, distesi sulle cose con tocchi di pennello lunghi e densi. Pacifico imbocca un sentiero che si snoda fino a disfarsi su un tappeto di foglie. Dal sottobosco sale un odore di legno marcito e feci che si decompongono, i rumori impercettibili crescono. Poi sbuca in un ansa erbosa sotto a un muro di cinta delle Case Matte, una schiera di alberi lo divide dalla strada asfaltata che scende a gomito, grigia, oltre i tronchi rugosi. Dritta e puntuta fra l’erba Pacifico vede una minuscola croce, montata con due barre di ferro saldate e arrugginite. Sotto la croce c’è una lapide nana, piantata per terra, stesa e orizzontale. Pacifico allarga lo sguardo su tutto il prato chiuso fra gli alberi e vede minuscole croci ovunque che spuntano fra l’erba umida e alta. Ci sono anche lapidi conficcate per terra che sembrano funghi, sembrano gnomi . Pacifico si china su una croce. È la tomba di un cane. C’è una foto di un cane, di un bastardino dal pelo lungo dietro a una lastra di plexiglas ovale. Pacifico si china su un’altra croce, e poi su un’altra e un’altra. Sono tutte tombe di cani. Dove riposano Margot, Asso, Maciste. I nomi stanno scritti in dei medaglioni saldati alle croci, oppure incisi sulle lapidi nane, alcuni disegnati con la vernice. Pacifico non conosceva il cimitero per cani, è una scoperta, ne ammira la dignità e la compostezza dolciastra che sembra caduta dai rami degli alberi. Pensa alle ossa dei cani sotto la terra.

Poi Pacifico avverte un movimento che rompe il silenzio, una fronda che si scuote violenta da un cespuglio dietro a dei tronchi Pacifico vede muoversi qualcosa. Una testa che ondeggia dietro le foglie. Una felpa nera, un corpo tozzo che sgattaiola via da dietro il cespuglio con un moto incongruo e disastrato per poi restare impigliato in dei rami e voltarsi goffamente. L’uomo si volta e mostra a Pacifico il suo volto di adolescente con le guance grommate di fuliggine e di catrame, sembra un figura diabolica ma è solo un bambino con la pelle olivastra, tutto sporco di fuliggine, in fuga da qualcosa, che si stente braccato, si libera con uno scossone dalla presa dei rami e scompare via oltre le greppie senza lasciarsi fermare o prendersi il tempo per dire qualcosa.

 

(foto di Alessandro Tesei, prese per gentile concessione dal blog Ascosi Lasciti. Esplorazioni, racconti e leggende nei luoghi abbandonati del Centro Italia e non solo)