C’era una volta Quentin Tarantino | intorno a “The Hateful Eight” | di Enrico Carli
Genere: western
Durata: ne esistono due versioni da 167 e 182 min.
Cast: Kurt Russel, Jennifer Jason Leigh, Samuel L. Jackson, Tim Roth, Walton Goggins
Paese: USA
Anno: 2015
C’era una volta Quentin Tarantino. Era un regista geniale, spiazzante, autore di almeno un capolavoro riconosciuto (qui ognuno metta il proprio, i posteri sanno già qual è il loro), di sparpagliate sequenze magistrali, sceneggiature anarcoidi, non lineari, che avevano un rapporto tutto loro con il tempo, e soprattutto, cosa non da poco, che funzionavano. Anche quando si dava all’ucronia, riscrivendo la Storia, o rifaceva a modo suo vecchi B-movie sommergendoli nelle sue molte parole: beffarde, ciniche, brillanti; monologhi dell’onnipotenza o istanze fondamentali e fondamentalmente nerd, in cui coloro che hanno visto di tutto non facendone mai un problema di genere o di qualità (semmai in un secondo momento per divertirsi a confrontare le idee) si riconoscevano così come le generazioni pre-lobotomia tecnologica si sono riconosciute nelle parole del giovane Holden, che tra l’altro odiava il cinema.
E così quando sentivi uno dei suoi personaggi farti il sermone sulla critica alla società che Superman allestisce recitando l’umano troppo umano Clark Kent, ti veniva da pensare sì, certo, grande! Non necessariamente perché ti eri già baloccato con quell’idea, ma perché scattava un click e in un certo senso era come se quell’idea ti appartenesse. Ti rappresentava, anche quando era talmente geniale da dover essere tu una specie di mostro strafottente solo per aver concepito che Quentin era come te. Non lo era naturalmente, ma aveva questa dote che hanno i grandi di coinvolgerti in un gioco di affinità e immedesimazione, e nello stesso tempo di depistarti, continuamente, in un certo senso menandoti sotto il naso che lui era molto più avanti di te.
Non voglio andare a parare sul fatto che in questo suo ottavo film sono tutti così cattivi che è difficile empatizzare ecc., non ritengo che per forza ci debba essere un personaggio che attiri le simpatie, perché Tarantino è sempre stato nel suo universo un cattivo demiurgo, e difficilmente ha salvato qualcuno perché magari sembrava aver scritto per quel personaggio delle battute che potevano moralmente riscattarlo da una fine terribile (al momento mi viene in mente la sua adorata musa Uma Thurman/Beatrix Kiddo, l’eccezione “sentimentale”). No, non è quello che fa. Di solito anzi il suo proverbiale sadismo si spinge fino a non cedere a questa tentazione: se sei buono muori esattamente come tutti gli altri. Perché è così che funziona, spiacente.
Non è dappertutto così, ci sono delle eccezioni tematiche – Django Unchained: un nero che fa fuori tutti i bianchi, vendetta sulla Storia; Bastardi senza gloria: dove la gloria invece c’è ed è l’uccisione dell’uccisore di ebrei per eccellenza Adolf Hitler, e quindi: vendetta sulla Storia parte seconda, seguendo l’ordine cronologico degli eventi storici e non quello della realizzazione dei film – ma lì Quentin Tarantino sì è concesso il riscatto solipsistico dell’immaginazione sugli orrori del passato, ha fatto ammenda a nome di tutti. Anzi, peggio: ci ha vendicati. L’immedesimazione cui accennavo prima è di tipo diverso da quella rivolta normalmente al personaggio di un film, perché in fin dei conti tutti i suoi personaggi parlano esattamente come lui, Quentin, e hanno lo stesso modo di proferire il verbo che ha il timorato Jules Winnfield o chi vi pare dei suoi, compreso l’apparentemente tranquillo Vincent Vega – e dunque in definitiva se avviene un riconoscimento questo è con il demiurgo Tarantino, che dispone di loro a suo piacimento, e ci va benissimo così, perché è equo questo suo modo di non giudicare e di considerarci alla fin fine un po’ tutti delle merde, compresi i buoni, che a ben vedere, come diceva Woody Allen, sono tali perché ignorano qualcosa che i cattivi hanno capito, del resto sono potenzialmente cattivi.
E poi Tarantino gioca, si e ci diverte, ha mangiato e digerito la nostra cultura cinematografica a noi stessi rivelando che c’è del genio anche in posti insospettati; mette tutto insieme questo ricco immaginario trash-gore-pulp-pop ed è capace di vestirlo e imbellettarlo da grande cinema, perché lo ama, il cinema (lo promuove lo scrive lo allestisce lo ragiona), e questo sentimento gioioso permane anche nelle sue sequenze più crude. Sempre evviva per chi esercita una tale onestà d’intenti.
È passato da un pezzo il momento di spendere due parole sulla trama di The Hateful Eight, eccola: una diligenza sta fuggendo una tempesta di neve nel Wyoming, trasporta il cacciatore di taglie John Ruth e Daisy Domergue (Kurt Russell e Jennifer Jason Leigh), una fuorilegge che l’uomo sta per condurre al suo appuntamento col boia a Red Rock. Sulla strada danno un passaggio prima al maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), un ex soldato nordista ora cacciatore di taglie pure lui, poi a Chris Mannix (Walton Goggins), un tizio che dice di essere il nuovo sceriffo della città a cui sono diretti. Si fermeranno a una locanda-emporio sulla strada, dove incontreranno gli altri quattro odiosi del titolo. Qui, dopo qualche misterioso omicidio, comincia per buona parte del film quello che è per stessa ammissione di Tarantino – che durante una conferenza stampa cita Dieci piccoli indiani – un “whodunit”, il giallo da camera per eccellenza: chi l’ha fatto?
C’era una volta Quentin Tarantino, dicevo. Da Django in poi il suo guizzo sembra essere un po’ latitante, solo a sprazzi il brio dei dialoghi ci ricorda cos’era in grado di fare, i personaggi sono sempre più macchiette meno capaci di sorprenderci, didascalici ben oltre il divertimento e programmaticamente puerili, e in tutto questo sembra di vederlo curvo sulla scrivania a cercare di ritrovare quell’effetto, e allora eccolo immaginare la scena del pompino sulla neve di The Hateful Eight, che deve essergli sembrata lì per lì una delle sue trovate geniali ma che di quelle è poco più che un eco soffocato dal bianco (nessun riferimento al soffocare del bianco nella summenzionata scena). E se nel suo fare cinema continuano ad esserci richiami ad opere precedenti, porte che si aprono su altre stanze – o meglio botole – situazioni che riportano a situazioni già viste, empori sulle Montagne Rocciose che rimandano a baite sulle Alpi che ricordano ben altre stamberghe nella Francia occupata (in cui altre facce da guerra si studiavano sinistramente fingendosi altre persone, e dove la tensione però montava davvero), può essere anche perché il nostro demiurgo ha preso delle sue vecchie buone idee e le ha espanse, perché verosimilmente riteneva non solo di poterlo fare (cosa buona e giusta), ma che era proprio il caso di farlo.
Il che, ripeto, va benissimo, perché quell’immaginario è suo e lui può farne quel che vuole, ma se come in questo caso non aggiunge altro e sa un po’ troppo di maniera, rischia che tali glosse a margine (asterischi “portali” all’interno del suo cinema) anziché arricchire il suo immaginario lo impoveriscano, gli tolgano il senso del mistero e paradossalmente quell’unità necessaria a cui aspira, e i suoi personaggi non facciano che ripetere le medesime cose in tutti i tempi possibili allo stesso modo, in un ininterrotto, espanso déjà-vu. Immagino un ipotetico, tarantiniano Giulio Cesare che schiva la coltellata fatale di Bruto all’inguine, e tutto sanguinante ma ancora vivo, monologa sul senso di avere dei fidi, che poi i fidi ecco che fanno: non solo ti tradiscono, ma tentano di castrarti. Perdono, Quentin.

Enrico Carli
Enrico Carli vive a Senigallia (AN). Ha pubblicato un romanzo breve, "L’uomo in mare" (Ventura Edizioni). Suoi racconti sono apparsi nelle raccolte "3x9 - Tre scrittori per nove racconti" (Grinzing); "Taccuino di viaggio nelle terre del duca" (Weekend&Viaggi); "Pagine Nuove" (Cattedrale); "Tremaggio" (Ventura Edizioni); "Tutti i gusti" (Ventura Edizioni). A gennaio 2020 uscirà il suo romanzo "Tupilak o come si diventa sciamani". Scrive di cinema su Argonline.it