“Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino ⥀ di Enrico Carli
Recensione del film di Luca Guadagnino “Chiamami col tuo nome”
Regia: Luca Guadagnino
Genere: sentimentale/drammatico
Durata: 132 min.
Cast: Timothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg, Amira Casar
Paese: Italia, Francia, Brasile, USA
Anno: 2017
Guardando questo film si ha la sensazione di trovarsi già di fronte a un classico. Oltre ai molti elementi che compongono un’opera cinematografica e che, amalgamandosi o meno, ne fanno un’opera più o meno riuscita, c’è un fattore magico, risultante non solo di un perfetto equilibrio tra le componenti e una consonanza con le emozioni trasmesse ma, sopra tutto ciò, a contenerlo, c’è lo stile con cui l’autore ci trasmette la storia che ha deciso di filmare.
Già nelle sue precedenti opere, Io sono l’Amore e A Bigger Splash, Luca Guadagnino aveva dato prova di una potenza di stile fuori dal comune, che subito lo consegnava, agli occhi di chi se ne accorse, nel poco affollato olimpo dei nuovi autori italiani. Basti pensare al finale di Io sono l’Amore, dove Tilda Swinton letteralmente s’invola, sparisce a suggellare il ciclo del film che inizia dall’imposizione del titolo. La cosa fa pensare a un altro autore del cinema italiano, Paolo Sorrentino, che quando esplose con Le conseguenze dell’amore (un titolo/seguito ideale, anche se venuto prima, del titolo di Guadagnino), ci mise di fronte a delle sequenze cinematografiche inedite, pensate per essere tali, al punto da diventare in seguito maniera – anche qui, in nome dell’amore, alla fine il protagonista scompare, ma con conseguenze molto diverse dalla protagonista del film di Guadagnino.
Come suggerisce anche il penultimo titolo dell’autore – il quarto della sua filmografia – A Bigger Splash (omonimo al famoso quadro di David Hockney, che raffigura una piscina con un grande spruzzo d’acqua, come se qualcuno si fosse appena buttato), di ciò che c’era fino a un attimo prima non rimangono che le conseguenze. Allo stesso modo, i due protagonisti di Chiamami col tuo nome, scambiandosi per gioco e identificazione i loro nomi, specchiandosi l’uno nell’altro, Elio e Oliver si preparano a fare i conti con l’assenza di quella parte di loro che verrà meno con la separazione e che pure, più in profondità nell’ambito dei ricordi, si è creata una nicchia speciale, sempre accessibile, dove quella parte mancante diventa un pieno, e quel pronome personale senza genere accompagnato dal verbo essere, quell’ “Io sono”, non smette di ricordargli la natura effimera, transitoria, ma anche eterna del sentimento amoroso.
In fin dei conti, con le dovute differenze, Luca Guadagnino ha raccontato quasi sempre la stessa storia: un idillio campestre destinato a stravolgere le vite dei suoi protagonisti, un rinnovato eden, un modo di essere e di amarsi con naturalezza in mezzo alla natura (che sia al nord o all’estremo sud), perché ciò consente, attecchendo al vissuto dello spettatore, di evocare le stagioni e i luoghi più belli, più brillanti di luce, e dunque anche della particolare luminosità della memoria (guarda caso André Aciman, autore dell’omonimo libro da cui è tratto il film, è un esperto dell’opera di Marcel Proust), in cui l’amore si compie e successivamente celebra nel ricordo, spesso le due cose sciogliendosi in un unico flusso atemporale.
Ambientato nel 1983, in un posto imprecisato del nord Italia, come ci dichiara fin da subito il film, la storia racconta l’incontro e la relazione del diciassettenne Elio Perlman (grande interpretazione del giovane Timothée Chalamet) e dello studente americano Oliver (Armie Hammer), che passerà l’estate nella villa di famiglia del giovane per preparare, con l’aiuto del sig. Perlman (Michael Stuhlbarg), professore d’archeologia, la sua tesi di dottorato. Una sinossi poco originale per un film che è pieno di dettagli e di personaggi memorabili, pressoché assente di conflitto – a parte il lungo e esitante approntamento della relazione tra i due amanti. Dettagli che, come i costumi lasciati appesi alle manopole della vasca da bagno, le vecchie musicassette o l’uovo alla coque che Oliver mangia ogni mattina, sono evocativi di sapori, suoni, sensazioni e tessuto comune di un tempo andato, e che rendono questa storia d’amore omosessuale ancora più universale della maniera così “moderna” con cui viene accolta dai genitori di Elio, che vedono e sanno senza intervenire, e anzi sono consapevoli dell’incanto d’amore che il figlio e lo studente stanno vivendo.
Il fascino di questi personaggi è che sono tutti buoni; come ha dichiarato il regista: “Molti non hanno finanziato il film proprio perché mancavano i cliché (…) come la presenza di un antagonista, che di solito alla fine permette agli amanti di superare ogni avversità o, se si tratta di una storia gay, di soccombere. Viceversa qui c’è un atteggiamento di supporto del mondo esterno, che mi ha dato la libertà di essere molto vicino ai miei personaggi”. E al di là del supporto dei genitori di Elio, della loro intelligenza emotiva, Elio e Oliver sono due anime pure che cercano e trovano un incontro proibito da molti e più che lecito per alcuni. Questa storia di iniziazione all’erotismo omosessuale però finisce qui, nello stesso punto in cui cede il passo a una storia di iniziazione erotica senza distinzioni di genere.
Elio Perlman suona, scrive musica, legge – ha quasi sempre un libro in mano – è un giovane che sa scendere in profondità e risalire in superficie con altrettanto slancio, prova ad avere rapporti con le ragazze, a muoversi a tempo in una pista da ballo, ma quello che cerca di fare è avvicinarsi per tentativi al tempo dell’amore di cui ha letto così tanto e del quale il rapporto tra i suoi genitori è un esempio. La statuaria bellezza di Oliver, il suo muoversi sicuro nel mondo, è il contraltare della sua giovane goffaggine e anche del lavoro di Perlman padre, appassionato conoscitore di scultura greca classica e quindi raffinato specialista della grazia e della bellezza di un epoca dedita alla conoscenza, così lontana da far sì che i suoi dissepolti reperti provochino l’emozione del tempo, tanto più potente perché introiettato, conosciuto, reso speciale dall’amore. E così Oliver si muove e continuerà a muoversi nella memoria di Elio, come un fuoco che scalda e illumina, anche se lontano, un reperto speciale riesumato all’occorrenza, o per caso, da un passato in cui la bellezza risplendeva alla luce del sole.

Enrico Carli
Enrico Carli vive a Senigallia (AN). Ha pubblicato un romanzo breve, "L’uomo in mare" (Ventura Edizioni). Suoi racconti sono apparsi nelle raccolte "3x9 - Tre scrittori per nove racconti" (Grinzing); "Taccuino di viaggio nelle terre del duca" (Weekend&Viaggi); "Pagine Nuove" (Cattedrale); "Tremaggio" (Ventura Edizioni); "Tutti i gusti" (Ventura Edizioni). A gennaio 2020 uscirà il suo romanzo "Tupilak o come si diventa sciamani". Scrive di cinema su Argonline.it