Claudia ⥀ Racconto di Sara Nissoli

 

 

Vado da Claudia ogni mercoledì sera alle ventuno, da quasi due anni.

Rimango un’ora, poi torno a casa. Abita in via Regina Giovanna numero ventotto, sesto piano, interno dieci. Esattamente sopra l’Unes. Fuori dall’Unes c’è un mendicante che rimane anche dopo che il supermercato ha chiuso. È marroncino, ma non so se sia sporco oppure negro, proprio non si capisce. Se ne sta lì, rannicchiato, con una scatoletta di tonno nemmeno lavata in cui tenta di raccogliere qualche moneta e una coperta di lana bucata sulle gambe. Quando esco, alle ventidue, non c’è più. Probabilmente lo ritira qualcuno dei suoi. Magari è pure zoppo, l’hanno storpiato per mandarlo in strada. Ah no, se fosse zoppo starebbe in piedi. Allora, forse, magari non ha i piedi. Ma sono convinto che se non li avesse li terrebbe in bella mostra. Per modo di dire.

“Era ora” mi dice sempre Zia Claudia – è così che vuole essere chiamata – appena citofono, anche se non sono in ritardo. E a me già solo a sentire quella voce scoppia il cazzo. Ma devo tenerlo a bada, perché se lo vede, se davvero se ne accorge, è peggio. E se penso che è peggio mi diventa ancora più duro, e allora provo a immaginare qualcosa, come scoparmi mia nonna che ha novantasette anni, o mio suocero mentre guarda il telegiornale, e mi si ammoscia un po’. Oppure mia moglie. Mi basta pensare a mia moglie per spegnermi.

Quando oltrepasso la porta d’ingresso, l’orologio a pendolo che troneggia nel salotto di Zia Claudia segna le nove spaccate. Se arrivo prima, devo aspettare fuori. Se arrivo anche solo un minuto più tardi, Zia Claudia prende subito la cinghia. Ma io preferisco quando la usa dopo, alla fine, verso le nove e cinquanta.
Claudia è stupenda. Ha questi capelli neri, lunghi e liscissimi, che le arrivano poco sopra il sedere e una carnagione bianca come la porcellana, che prima di incontrare lei non avevo mai visto. Le labbra sono sottili, perfette, come disegnate. Non mette il rossetto e il suo trucco è leggero. Una riga di matita e un po’ di rimmel bastano a renderla ciò che è: la mia padrona.

Succede sempre così: quando entro in casa lei mi aspetta seduta sul divano, le gambe accavallate, la gonna appena sotto il ginocchio e una delle tante giacche strette, da educatrice, che possiede ed esibisce sempre insieme a una camicia che abbottona completamente. Una sera, finito il tutto, ho notato che, forse nella foga di frustarmi, alcuni bottoni si erano slacciati. Le si intravedevano due tette sode, una terza abbondante, che non avrei forse mai più avuto occasione di guardare così bene. Non ho potuto fare a meno di sorridere, alla vista di quello spettacolo così raro. Zia Claudia se n’è accorta subito e mi ha detto che non sarei andato da lei il mercoledì dopo, ma che avrei pagato comunque, in quel momento, per non andarci. E quella sarebbe stata la mia punizione. Mi è venuto duro mentre prendevo duecento euro dal portafoglio, i soldi per i primi due mesi delle lezioni di violino di mio figlio. È la cosa a cui tiene di più, l’insegnante ha detto che è molto bravo per avere appena otto anni e che se vorremo presto potremo pensare di iscriverlo al Conservatorio. Era settembre e lui non ci è andato. Ha pianto per due giorni e mia moglie a letto mi ha abbracciato, mi ha chiesto cosa stesse succedendo al lavoro, o se mi fossi messo in qualcosa più grande di me, mi ha pregato di parlare, di dirglielo. Il suo alito puzzava di vecchio e mi faceva vomitare. Per sbaglio, muovendomi, ho urtato quelle tette flosce che non riesco più a toccare da quando è nato il nostro secondo bambino, quattro anni fa. Le ho risposto che andava tutto bene e mi sono girato dall’altra parte. L’ho sentita piangere piano, mi ha fatto ancora più schifo.

“Smettila di toccarmi” dice Zia Claudia il mercoledì, quando sto ai suoi piedi e tento di baciarglieli e leccarglieli. Provo a morderle le caviglie perché mi fa impazzire e allora lei mi punta il tacco su una guancia e preme. Io sono nudo, lei completamente vestita. Io ho un collare e quando ho sete c’è una ciotola per me con un po’ d’acqua, vicino al calorifero della stanza dove passo l’ora più felice della settimana. È una stanza grande, col soffitto altissimo e quasi spoglia, se non fosse per un armadio di legno scuro in cui Zia Claudia tiene fruste, spazzole, catene e bastoni più o meno rigidi. Il pavimento invece è di legno chiaro e anche le tende sono bianche e grandi e vorrei proprio starci di giorno lì dentro, quando dalle finestre filtra la luce.

Avevo già pagato altre mistress prima di Zia Claudia, ma le loro case erano buie e i loro attrezzi raccapriccianti. Mi riducevo sempre a fare qualcosa che non mi piaceva veramente, preso dall’eccitazione del momento. Obbedivo a ogni richiesta e quando me ne andavo, a volte, mi sentivo nauseato e infelice. Mi sentivo triste. Un uomo di merda.

Invece con Claudia è stato diverso da subito, da quando ho avuto il suo numero e l’ho chiamata, ma ancora di più da quando l’ho vista per la prima volta in un bar del centro, all’ora di pranzo. Lì ci siamo accordati: io sarei stato il suo schiavo, lei la mia padrona. Di giorno, poi, non l’ho mai più vista. Dopo soli tre mesi di mercoledì ho sentito che stava accadendo qualcosa che non sarebbe dovuto succedere. Un sabato pomeriggio, mentre facevo la spesa con mia moglie, ho immaginato che ci fosse Claudia con me, proprio lì, a prendere la lattuga, senza frusta e senza armadio e mi è venuto duro comunque.
Una notte l’ho chiamata, non ha risposto. Avevo nascosto il numero. Il mercoledì dopo, appena sono entrato in casa sua mi ha detto “non ti ho mai dato il permesso di chiamarmi. Non lo devi fare. Sai quello che devi fare e quello che non puoi. Sai che se non verrai devi scrivermi un messaggio e basta”. Era molto pallida, più bianca del solito e poi, mentre mi frustava, si è fermata due volte. Forse non si sentiva bene. Da quel giorno al supermercato non ho mai smesso di pensare a lei, anche se tentavo continuamente di cacciare quel pensiero altrove, ma non troppo lontano, perché tornava indietro quasi subito. Ci immaginavo in una serie infinita di situazioni normali: noi al cinema, in centro per negozi, sul tram, a letto. E più ci pensavo, più non riuscivo a farne a meno. Soffrivo molto. Soffrivo come quando si sa di desiderare qualcosa che non si potrà mai avere, ma non con ossessione, solo con il desiderio di sentirsi felici. Lontano da quel lavoro di merda, da mia moglie che non è più la donna che ho sposato, dai miei figli che la sera non sopporto, con quella cazzo di musica, i compiti in classe da firmare, le visite dal pediatra, le merendine per colazione, la pizza la domenica sera, il film di Natale all’Epifania. Dopo un po’, a vivere così, ti ammali per forza. Ed è una malattia da cui puoi guarire solo scappando lontano. Ci ho pensato tante volte, sullo zerbino di casa, tornato dall’ufficio.

Una sera avevo in mano un pacchetto di pasticcini comprati per l’anniversario con mia moglie e mi sono fatto talmente schifo che ho ripreso l’ascensore, sono uscito dal portone e li ho buttati nel cestino accanto al semaforo. Compravo i pasticcini e volevo scappare via. Zia Claudia ancora non c’era. Claudia, con cui sogno di avere altri bambini e mettere le palle all’albero l’otto dicembre, una di cui non so niente e che mi frusta fino a farmi sanguinare. Claudia che forse non prova nemmeno emozioni, che forse non si è mai innamorata. Magari addirittura non esiste fuori da quell’appartamento, se ne sta lì e basta, è nata lì dentro, è nata per frustare quelli come me, che poi a letto, la sera, si sparano le seghe mentre pensano di sposarsela, nemmeno di scoparla fino a farle male. Sposarsi, ancora, come se ancora non avessimo imparato la lezione.

Così la settimana scorsa ho pensato di dirle tutto quello che provo per lei. Di martedì, vaffanculo. Perché non so cosa faccia di martedì, e quindi ho preso un permesso dal lavoro. L’ho deciso il sabato prima, quando ho toccato l’apice della mia tristezza. Mia moglie, che fa volontariato in un canile, mentre stavo guardando l’anticipo di campionato, mi è venuta vicino e mi ha mostrato una fotografia. Si è messa di fianco a me e mi ha fatto vedere questo cane, accucciato davanti a una gabbia aperta. “Si chiama Ciccio”, mi ha detto. “È un wippet”, ha continuato. “Un cane di razza, eh. Vedi? Gli manca una zampina. Non sarebbe bello avere un animaletto qui a casa?”. E io all’improvviso mi sono sentito impazzire, non so cosa mi sia successo, ma era mia moglie, mia moglie convinta che avessimo bisogno di un animaletto che mi ha reso folle. Un cane senza una zampa, come se non fossimo già abbastanza felici. E i bambini “sì papà, prendiamolo, prendiamolo!”. Ho spento la televisione, sono uscito più in fretta che potevo e fuori ho iniziato a correre. Non so per quanto ho corso, avrò fatto cinque chilometri credo. Non mi fermavo più, non ci riuscivo.

Quando finalmente mi sono stancato, ho preso l’autobus e sono tornato a casa.
E martedì sono andato in via Regina Giovanna.
Ho suonato. Lei ha risposto.
“Sono Fabio, mi apri per favore?”
Mi ha detto che stava lavorando, di andare via. “Il tuo giorno è domani”, così ha risposto, prima di riagganciare.
Allora io ho suonato di nuovo e le ho detto che dovevo parlarle, e lei ha messo giù un’altra volta. E così ho suonato ancora. Ma niente. Sono rimasto con il dito incollato al citofono un minuto. E poi ancora, e ancora silenzio. Allora mi sono piazzato davanti al palazzo e l’ho chiamata, prima piano, poi urlando come un pazzo. Una vecchia dal secondo piano si è affacciata e mi ha detto “abbiamo il citofono, lo sa?”. E io ho urlato più forte. Stava lavorando? Ma che cazzo voleva dire? Era un lavoro quello? La vecchia è uscita una seconda volta. “Ma la smetta di urlare, la smetta di chiamare quella puttana”. E poi anche lo storpio fuori dal supermercato. “Basta” ha mugugnato lamentandosi. Io allora ho tirato un calcio alla scatoletta di tonno non lavata, che ha iniziato a rotolare e dentro non aveva nemmeno una moneta.

Sono tornato a casa. Mio figlio era appena rientrato dalla gita a Ravenna. Mia moglie gli ha detto: “Racconta al papà quello che hai visto”. E lui ha iniziato a farmi le feste, a corrermi attorno e meno male che almeno non c’era quel cazzo di cane. Mi ha fatto le feste e parlato di mosaici, di una piazza e di un bellissimo musoleo. “Si dice mausoleo” gli ho urlato in faccia, “mausoleo, cazzo!”. E mi è venuta voglia di picchialo forte, e poi di picchiare anche lei, perché sono la mia prigione e la casa sapeva di cavolfiore bollito ed erano solo le cinque del pomeriggio e nessuno mi aveva chiesto come mai fossi già a casa.
Sono corso in cantina, l’ho ribaltata. Cercavo una borsa, ho trovato solo quelle valigie di merda prese con i punti della benzina. Ma poi ho visto uno zaino, quello che usavo da ragazzo per andare in vacanza, giallo e nero. Allora ho rovesciato uno scaffale e ho cercato anche il sacco a pelo, che doveva essere lì per forza. E mi sono ricordato di quando ero libero e tutto andava bene, di quando non mi tirava il cazzo all’idea di farmi frustare. Di quando ancora non ero cattivo.

Sono risalito in casa, ho aperto l’armadio e iniziato a riempire lo zaino con le prime cose che mi capitavano tra le mani, sotto gli occhi sconvolti dei miei figli e quelli terrorizzati di mia moglie.
Sono sceso, ho raggiunto l’auto e ho messo in moto. L’insegna della farmacia segnava diciotto gradi. Ormai erano le cinque del pomeriggio, avrebbe iniziato a fare buio entro un paio d’ore.