Clonare il bene – Incipit di Una strana Apocalisse

Clonare il bene è l’incipit di Una strana Apocalisse, romanzo di Rodolfo Bersaglia che uscirà nei prossimi mesi per Argolibri. Si narra la storia di Padre Yàp e Padre Gurla, un sacerdote-scienziato e il suo assistente che inseguono un sogno impossibile: la clonazione del Messia a partire dai resti della Sacra Sindone.

Padre Yàp tenne per molti decenni un sintetico diario. Con la sua inconfondibile calligrafia faceva cenno all’usanza di castigarsi leggendo i misteri dolorosi.

Ebbe un figlio prima di prendere i voti. Sarà stato per tale colpa che Yàp auspicava una nuova evangelizzazione: quel che capitava al mondo non pareva niente di confortante.

Aveva creduto strenuamente in Dio, prima che in ogni altra cosa, ma pure nella scienza. Ponendosi il tarlo medievale di credere per capire o capire per credere, di fronte al “miracolo” più grande della scienza: la clonazione, s’era sentito un po’ in difficoltà.

Per una volta nella vita, voleva approfondire. La sorte gliene diede presto la possibilità. Laureato in medicina e scienze biologiche, prese i voti al termine della seconda facoltà, fu presto avviato a una brillante carriera scientifica in seno alla religione di stato.

Fu poi nominato membro della commissione che doveva operare una nuova ricognizione sul Sacro Lenzuolo: analizzare nuovamente la Santa Sindone.

Questo capitò quando concepì un sogno: il ritorno del Messia! Così gli ebrei sarebbero stati contraddetti e ogni altra religione avrebbe accettato il Cristianesimo con genuflessioni e successo generale.

Replicare un comune individuo era considerata un deprecatissimo anatema, ma clonare il Messia sarebbe stato un bene per l’umanità. Quest’idea lo tormentava come l’uscio mal serrato è scosso dal vento. Insomma volle clonare il re di tutti i santi, colui che avviò la scuola dei santi e che vocò i santi stessi… volle clonare Gesù Cristo dalla Sindone.

Voleva incrinare il regime di quei preti che l’avevano voluto prete, poiché anche scienziato era, pure se doveva accertare l’imperfettibile credo, dimostrando appunto che nessun fenomeno scientifico potesse essere in disaccordo con quanto la chiesa chiariva riguardo dell’umano divenire e a riguardo d’ogni aspetto della vita.

Il suo acuto cervello era una fonte di splendori, sempre occupato in ricognizioni sui cadaveri mummificati dei santi.

Fu proprio in quel percorso che gli venne l’idea: raccogliere il necessario dai resti delle santità, sparsi e scompaginati nelle teche, per assemblarli nella forma organica di una perfetta replica.

Sarebbe bastato un brandello di pelle, la cica incartapecorita di una velatura d’osso…

La sua carriera era stata consumata dalla soda caustica delle gerarchie, che aveva corroso lo smalto del suo genio e, seppure fedele al messaggio d’umiltà, era stufo di vestire quella palandrana: né saio né clergyman. Senza porpora, così mezzo prete e mezzo scienziato, aveva la concessione di girare indisturbato, vestito in borghese, mangiare al refettorio carne in stufato con uova e verdure. Quella fricassea era l’unico piatto commestibile dello chef del suo reparto vaticano, su cui gravava il più assoluto riserbo anche riguardo la ricetta.

Fiasco dopo fiasco, dopo errori di datazione sulla clavicola di un martire, dopo un’eccessiva senescenza attribuita ad una santa impacchettata nel tufo di una catacomba, gli vennero commenti severi sui fraintendimenti. Tutto ciò gli procurò un certo scoraggiamento e di lui non si diceva gran che in quegli austeri corridoi.

Addirittura lo mandarono per un po’ di tempo a servire presso l’ambulatorio dei focolarini, ma lui non si sentiva un seguace dei laici movimenti cristiani. Avrebbe dovuto riscattarsi.

Impegnato nella ricerca, dimagrì e indossò giacche e camicie strette in vita, capi sfiancati. Fece trovare un tralcio d’ogni varietà di rose rampicanti sulla scrivania sul presidente della commissione per le beatificazioni e raddoppiò la disponibilità su tutto il territorio nazionale ad effettuare ogni sorta d’accertamento anatomico, su tronconi, falangette e scalpi d’ogni ritaglio di beato.

Avreste dovuto vederlo: s’immergeva nelle cripte e, preso il fiato, annegava nei sarcofagi. Usava i suoi strumenti d’analisi e incideva stilando grandi referti.

Concludeva ogni ricognizione scritta in forma di relazione scientifica mentre il Giubileo trionfava e si fece famoso in tutt’Italia. Intervistato in uno dei canali nazionali, disse:

«Un buon santo, intendo dire, un buon cadavere, con tutti gli organi e gli arti al loro posto, lo si trova di rado, quanto di rado si presenta la cometa di Halley…»

«Che intende dire?», gli chiedevano servilmente i giornalisti televisivi più osservanti, e lui rispondeva:

«Perché ho già settantasei anni e non ho ancora ritrovato un corpo di santità su cui avviare una “perfetta” ricognizione…»

«E dunque? Ci faccia capire!», lo incalzava ancora più confuso l’intervistatore.

«…oh, scusi… intendo dire… che mi resta sempre la grande curiosità d’immaginare, quando magari analizzo un teschio, la faccia che quell’uomo beato avrebbe mostrato a chi l’avesse visto a suo tempo… capisce…»

«Intende dire che le resta il cruccio di non capire per intero l’aspetto dell’uomo che analizza nelle sue ricognizioni…?»

«Appunto. Per fare un esempio che tutti capiranno, immaginiamo: sulla sacra Sindone… per noi credenti il sacro lenzuolo in cui fu avvolto Gesù… dovrebbe essere stampato il suo volto… m’intende?»

«Oh, sì… credo che adesso anche tutti i nostri telespettatori abbiano capito il difficile concetto che vuole esporci…»

«Ecco, mi sono sforzato d’immaginare l’aspetto del nostro Signore Gesù Cristo… insomma tutti si sono sforzati di fare questo… ma nessuno ha ottenuto, neppure al computer, le sue certe sembianze…»

L’intervista finì tra i sommessi singhiozzi del prelato, soffocati in un fazzolettino da educanda, molto ammirati dall’ufficio scientifico centrale. Le aspettative dei fedeli furono così alte che padre Yàp fu convocato per sovrintendere l’annuale ricognizione sulla sindone.

La gioia vinse sull’afflizione per i precedenti fallimenti: non esisteva esperto più avanzato di lui in materia.

Negli ultimi cinque anni aveva segretamente alternato ardite ricognizioni su santità eremite a fervide indagini di laboratorio sulla clonazione di “soggetti umani”.

Si era anche recato negli Stati Uniti, ospite del governo, per accertare che negli orridi laboratori non si cercasse di replicare altro che pecorelle dai dolci nomi di bambola.

Quante ne aveva viste: peggio degli Ufo precipitati. Lui indagava dalla giovinezza sui resti che la misericordia lascia dai vermi, ispezionando carcasse scuoiate nell’abbandono secolare della morte.

Seppe tutto ciò che gli scienziati tentarono di produrre nel sec. XXI. Fece crescere nella sua serra gli embrioni, forse al fine di creare nuovi schiavi senza doverli deportare. La scienza voleva sanare gli organi malati dell’uomo poiché la morte di quegli organi avrebbe posto la parola fine all’uomo stesso.

Fu informato sui mostri, che furono descritti con secoli d’anticipo dai visionaristi, e ora creati dall’uomo. Con la sua duplice funzione di religioso e ricercatore, lui non avrebbe incontrato l’inferno toccato ad ognuno dei mortali ma avrebbe compiuto la Grande Opera: avrebbe fatto rinascere Cristo, come lo fece nascere Dio stesso. Avrebbe compiuto un atto spirituale estremo: ridonare una santità al mondo. L’avrebbe materializzata, con un esperimento di laboratorio. Insomma: avrebbe clonato la trascendenza!

Invitarono padre Yàp in America.

Il laboratorio W. I. L. M. A. acronimo di “World International Laboratories for Man Assistance” era fuori Los Angeles, dove il deserto fa sentire il suo calore insopportabile e le case svaniscono come soffiate via da un ordigno nucleare.

Lì dentro avevano tentato di ricreare il più vasto assortimento di esseri redivivi.

Per un miliardario locale avevano tentato di clonare un cane chow chow a lui assai caro.

Un altro magnate aveva perso un figlio e ne voleva uno nuovo, ma senza crearlo con lo sperma. avevano reclutato a suon di migliaia di verdoni i luminari giusti per imprese del genere. Senza insulsa leziosaggine, aveva intimato:

«Voglio riabbracciare mio figlio… ricominciare ad imboccarlo…», aveva impetrato il committente della clonazione.

Quelli s’erano messi ad armeggiare e avevano riesumato il cadavere, che non finì mai davvero sottoterra, ma riposava beato in una cella frigorifera e, nottetempo, erano pronti.

«Neppure una strage di bacilli avrebbe riportato in vita mio figlio: la medicina tradizionale è impotente…»

La vettura del figlio era stata schiaffeggiata contemporaneamente da due camion di una trentina di metri di lunghezza. Troppe tonnellate d’impatto perché il suo hard top reggesse.

Il miliardario trovò ciocche di capelli e alcuni tronconi: circa dodici reperti. Ora non restava che sperare nella scienza.

Poi, nelle teche, assieme a doviziosi appunti sui passaggi degli esperimenti che padre Gurla, l’assistente di Yàp, ebbe in consegna, stavolta senza troppi problemi, iniziavano a mostrarsi gli strazi del tentativo focale: la clonazione del figliolo di Mister Hans Paer.

Padre Yàp fu invitato nei laboratori della W. I. L. M. A. senza che trapelasse notizia dei lavori in corso. Fu solo informato dei propositi e messo al corrente sugli strumenti e sulle potenzialità di essi.

Lì avrebbe portato con sé un lembo della Sacra Sindone.

«So benissimo, so benissimo della responsabilità che grava su di me… restituirò tutto alla fine dell’esperimento…»

Quello che poteva sembrare ad occhio ingenuo un inventario d’aborti sotto formalina era in realtà un disastro di tentativi. Pareva che la visione si sfocasse, che occorresse ridare il filo alle lame dello sguardo, mezza testa e la restante parte sgonfia, un forte odore di fienagione e tutti i disinfettanti che facevano girare la testa.

«Nella sua valle Dio giudicherà le genti…», mormorava Gurla «Oh Giosafat, Giosafat!», pareva piangere da un istante all’altro… persino singhiozzava.

Sugli elementi strutturali che delimitano superiormente il vano delle porte, ordinatamente, numeri in progressione, stampati di seguito dalla migliore serigrafia per ognuna delle stanze del laboratorio, comparivano a colori tenui le insegne avvitate sulla piatta banda dei serramenti.

Tutto in ordine, una tecnologia che difficilmente avrebbe visto superare in altri laboratori abusivi.

«Un laboratorio come questo non lo ritrovo certo facilmente…», ribadiva al suo aiutante, frequentatore assiduo e compiaciuto d’obitori. Come l’ammirava il suo faccendiere. Come pregava padre Gurla mentre fissava il cielo lunare e chiedeva che il sogno del suo padrone si fosse potuto presto avverare. Yàp con quel vestitino nero e l’immancabile camicia grigia dal collarino affogato nella barba aveva un alito da scolafritto.

«Ha preso le chiavi?», chiese Yàp a padre Gurla e quello assentì con i follicoli in un moto sussultorio. Si sentiva più alto e poteva vedere oltre. Avrebbe dormito quella notte Gurla, avrebbe russato come il torchio gemeva nelle tipografie polverose. Quel russare tanto piaceva a Yàp che ne godeva origliando alla parete comunicante della sua cella.

Intanto si avverò il sogno di Yàp: la nomina del suo ruolo a Presidente la Commissione d’esame del Santo Telo.

Chissà perché mentre preparava le valigie per Torino ricordò di quando ancor giovane aveva accompagnato un gruppo di scout, i ragazzi bravi della parrocchia, e aveva sentito l’odore di fumo addosso ad alcuni di loro, un aroma che non aveva mai assaporato.

«Che effetto fanno quelle cose che vi fumate?», chiese agli scout.

«Eeeh cosa vuole che sia…», gli rispose uno di loro sorridendo.

Si risvegliò da quel ricordo e l’agitazione ricominciò a squillare come un sonaglio. Doveva avere un lembo del lenzuolo per avere una rivincita secolare. L’ansia tinniva ancora simile all’emicrania all’interno del cranio, si tagliò pure mentre radeva quel suo cuoio bianchiccio, senza badare al fatto.

Un paziente e rapido lavoro con la forbice più affilata del mondo. Nessuno se ne sarebbe accorto. Sul taglio aveva posato la mano e sotto il piccolo lembo asportato. Lo ficca in tasca fingendo di estrarre la lente d’ingrandimento.

«Neppure i veli che ammantano le spose hanno un così intricato ricamo… questo è quello che vedo in questo rozzo telo…», e tutti si diedero da fare quando Yàp aggiunse: «Io comincerei a fare le foto macro, da questo punto… scattate, scattate pure…», e tira il fiato. Padre Gurla lo guardava con ammirazione e la sua barba pareva un groviglio di fil di ferro da quant’era teso per l’impresa del padrone. Chissà se pure quell’anno l’avrebbe invitato per il Santo Natale nella casa dei suoi, tra le campagne presso Loreto.

La sera restarono da soli e lasciarono il gruppo.

Yàp dice a Gurla:

«Perché non ceniamo fuori dall’albergo…?»

«Non darebbe nell’occhio la nostra assenza?»

«Chi crede possa dubitare di fronte alla nostra santa missione?»

«Oh nessuno, nessuno… piuttosto… com’è andata?»

«Come immaginavo…»

«Cioè?»

«Cioè avevo nella memoria lo spostamento d’alcune gocce di sangue che avevano raggiunto l’estremo della sindone e lì ho potuto tagliare…»

«La provvidenza è stata dalla sua parte…»

«Per questo volevo festeggiare… ho praticamente… un grumo di sangue rappreso di nostro Signore e… e lo farò rivivere…»

«Ce n’è tanto bisogno, nel mondo, tanto bisogno…»

«Ora, non posso mostrarti nulla… ho riposto il brandello in una teca a temperatura controllata e in uno stato d’umidità perfetta. È tra le reliquie più recenti, quelle di poco peso… santi minori. Non rischiamo neppure che a qualcuno venga in mente di rubarla…»

La risata di Yàp preludeva al risarcimento delle sue tristezze. Si contenne quasi soffocando in molti sussulti.

Gurla sorrideva di fronte all’armoire, il mobile ottocentesco a specchiera, in cui era insospettabilmente celato lo scrigno pressurizzato delle reliquie. Cominciò a camminare veloce come un levriero russo mentre dietro quel saltellare Yàp attutiva i passi.

«Andiamo al ristorante? È ora!», dice Yàpe, Gurla annuisce.

Un crepitio di chicchere e posate preannuncia il ristorante; girano l’angolo e sono all’ingresso. Siedono ritti come la lancetta di un manometro alla massima pressione. Hanno un posto di lusso nel piano di sotto.

Il volto di Yàp era pieno di rughe da sembrare la superficie del nostro satellite, una luna piena di crateri e dai suoi pori scoppiò un riso ininterrotto, che avrebbe voluto fare chissà quante altre volte in passato.

Gurla cominciò a singhiozzare sinché il fratello Yàp non gli spalancò per la prima volta le braccia. Gurla naufragò nell’abbraccio e cominciò a tossire appoggiando le labbra al collo di Yàp, che le spostò verso le sue mucose orali rosse e gonfie come pomodori pelati. S’accarezzano e l’evanescenza delle fotografie mostra le loro reciproche sbiadite sagome.

Gurla quella notte ebbe un orgasmo esplodendo un ettolitro di sofferto e antico seme.

Il giorno dopo Yàp avanzava con la barba strozzata dalla sciarpa. Gli era restata un’espressione di assente tristezza stampata sul volto, mentre sondava il terreno col bastone come se non si fidasse d’avere ancora terreno dinanzi che reggesse i suoi deboli passi. Due donne avanzavano in senso opposto. Una di esse, benché poggiasse su due bastoni, riusciva a fissare davanti a sé più sicura dell’altra che non riusciva a togliere gli occhi dalla via.

Quando Yàp le incrociò e non si dissero nulla, si guardarono i solchi acuti del volto e fu come se si fossero sorrisi e salutati. Le donne entravano in chiesa mentre lui veniva dalla penultima funzione della giornata. Dalla chiesa usciva pure la comare col caffè pronto per il parroco. Gli ultimi vecchi della scena si reggevano a stento sul margine estremo della canonica e portavano due grossi ceri decorati. Nessuno trovava la forza di sorridere.

Padre Gurla guardava le funzioni serali con tristezza. Ogni sera gli era parso di galleggiare nella dimessa noia della cupezza. Lui che traghettava tante anime aveva descritto quel periodo come un toboga che scivola verso il buio.

La lastrina per l’osservazione al microscopio l’aveva convinto che il materiale era buono, anzi ottimo. Ciò che era depositato sul vetrino conteneva materiale sufficiente per vari tentativi.

Avrebbe visto divenire uomo compiuto quel grumo di sangue e un parlamento dei grandi sacerdoti, vi avrebbe riconosciuto il figlio di Dio. Aveva seguito Yàp nel dolore a sprecare il suo talento nelle più squallide parrocchie, ma ora avrebbero fermato la luna e il sole.

«Basta!», pensava Gurla a fare il terminalista per il suo padrone al fine di smistare telefonate su presunti avvistamenti di miracoli e congeneri. Basta analizzare campioni di sangue e ossa su piatti di porcellana fino alla nausea, benedicendo la marcescenza della cartilagine.

Furono riaccolti con tutti gli onori nel laboratorio della W.I.L.M.A.. Il gruppo elettrogeno s’accendeva premendo un soft-touch.

Organizzarono una specie di cella, sebbene in quella grotta di cemento armato non ci fosse affatto umidità in eccesso. Tutto era stato curato dal bravo Kurt Hans, il nababbo che aveva riabbracciato suo figlio redivivo. Ora ridevano in qualche paradiso con il loro capo laboratorio Malbus, un ebreo che indossava ancora le ghette, abile operatore d’acceleratori nucleari; nell’ambiente lo chiamavano il Re del betatrone.

«Lo facciamo a fin di bene…», aveva detto Malbus e le sue parole echeggiavano ancora nelle grandi stanze ipogee della W.I.L.M.A..

Padre Yàp ripeté le stesse parole assai più convinto:

«Lo facciamo a fin di bene…», e condivise dal suo aiutante Gurla: «Sì, lo facciamo a fin di bene…»

Non calzavano da tempo gli abiti talari; erano in jeans e sweater con scollo a “v” sopra una t-shirt.

C’era poco tempo purtroppo per approntare e per nascondere. Gurla s’accorse che molti dei macchinari erano superflui. Notte dopo notte cominciarono a lamentarsi dei primi insuccessi. Finirono per insultarsi, quando Yàp fiatò: «Non è con questo spirito che può riuscirci un miracolo…»

«Non può riuscirci un miracolo in un luogo d’orrori…», aggiunse timidamente Gurla, che odiava ormai il despota.

«Hai ragione, fratello mio, perdonami… io, io non avevo capito: è il luogo sbagliato?»

«Già», fece Gurla con ritrovato affetto.

«Non possiamo creare il paradiso in un inferno.»

«Già.»

«Questo orribile posto sta influenzando il nostro lavoro…»

Padre Yàp stilò un inventario particolareggiato d’ogni elemento indispensabile ad intraprendere nuovamente l’impresa.

«Non ci occorrerebbero troppe cose che non riusciremmo a trovare dalle nostre parti…», notò.

«Direi che se questi sono stati i risultati con i macchinari della W.I.L.M.A. potremmo fare anche di meglio a casa… abbiamo fatto esperienza!»

Fissarono la pianta d’Italia, dopo che padre Gurla aveva dichiarato di abbandonare gli Stati Uniti per motivi di salute.

«Potremmo trovare un luogo, lontano da ogni interesse, da ogni inquisizione. Né al nord per la maniacalità, né al sud per la scanzonatezza…»

«Al centro.», fece Yàp.

«Al centro.», echeggiò Gurla.

Rodolfo Bersaglia

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Rodolfo Bersaglia (Ancona 1958) è dottore di ricerca al Dipartimento di Urbanistica dell’Università Politecnica delle Marche e docente di Storia dell’Arte. Studia storia dell’arte marchigiana e, più in generale, del bacino adriatico-ionico. Oltre a opere di storia dell’arte, ha pubblicato una prima serie di prose grottesche, raccolte nel libro di racconti Il fiato del mangiatore di fuoco (Pequod, 2002). Clonare il bene, con il titolo Una spassosa Apocalisse, ne era l’explicit e anticipava lo strano romanzo che pubblicheremo nella collana Fari di Argolibri nei prossimi mesi.