Come fiori tra i rifiuti ⥀ Il documentario sentimentale di Ferrente e Piperno

Il cinema del reale è un genere oggetto di continue ridefinizioni. I film di Giovanni Piperno e Agostino Ferrente mettono in scena una personale drammaturgia del reale, condizionata tanto dal contesto sociale quanto dal coinvolgimento emotivo degli autori.

 

È stato proprio grazie alla relazione profonda che abbiamo avuto coi protagonisti che qualsiasi rappresentazione falsata o atto inautentico è diventato impossibile. Piuttosto abbiamo dovuto fermare l’irrompere di tutto ciò che era intorno che a volte ha cercato di sfondare la cornice delle inquadrature – Giovanni Piperno
Non so fare documentari diversamente, ho bisogno di immergermi a fondo nella realtà che voglio raccontare, fino a diventarne parte. Non so realizzare documentari d’osservazione, raccontare in maniera neutra. No: io sprofondo nella realtà di cui mi innamoro e non voglio più raccontarla, voglio modificarla, “ripararla” – Agostino Ferrente

 

Nella mente degli spettatori che hanno poca dimestichezza con il cosiddetto “cinema del reale”, è facile che il genere del documentario sia istintivamente associato a quei prodotti audiovisivi che “registrano la realtà”, ciò che accade ed è indipendentemente dalla presenza della macchina. Si tratta però di una definizione impropria, che non tiene conto delle varie possibili declinazioni di un genere dinamico e complesso, suscettibile a forme d’ibridazione. Nella ripresa del reale non si può certo togliere dall’equazione un filtro insito nella stessa arte cinematografica, costituito dall’organismo cinepresa-operatore: un occhio o un obiettivo sono sempre al servizio di uno sguardo, ovvero di un punto di vista che, già di suo, racchiude appena un frammento di realtà (in termini cinematografici, l’inquadratura). Il concetto stesso di sguardo a sua volta comporta anche un discorso etico, perché avere un limitato campo visivo implica sempre l’adozione di un orientamento e di una scelta da ponderare. Ma, al di là di questi filtri strutturali, nelle rappresentazioni audiovisive del reale non è nemmeno raro osservare l’intervento diretto del documentarista: in questa ottica, la realtà diventa semplicemente l’ennesima narrazione influenzata da scelte di regia. È quanto riassunto dal suggestivo titolo scelto da Dario Zonta per il suo volume dedicato alla scena documentaristica italiana contemporanea, L’invenzione del reale, accostamento di termini che, corroborato anche dall’esistenza di un sottogenere come la docu-fiction, entra in conflitto con la definizione enciclopedica di documentario, che sembra dar voce agli spettatori di cui sopra: «film informativo o istruttivo su avvenimenti, luoghi, attività, senza aggiunta di elementi inventivi o fantastici» (Enciclopedia Treccani). Affrontando la natura multiforme di questo “altro cinema” attraverso un approfondito dialogo con i registi, Zonta osserva che: 

«nella loro macchina cinema, il reale – come fosse una materia – viene alterato, piegato, modellato e trasformato in nuove forme di narrazione. C’è chi usa pochi strumenti, rimanendo aderente alla materia prima, chi ne usa molti fino quasi a farne perdere le tracce»1 .

Tra coloro che non hanno perso la traccia di questa materia prima, ma che a tutti gli effetti meritano il titolo di inventori del reale, possiamo annoverare due registi ai quali accenna lo stesso Zonta, Giovanni Piperno e Agostino Ferrente. Questa coppia di cineasti ha firmato tra il 1999 e il 2013 (2019 contando Selfie, diretto dal solo Ferrente) film documentari che da un lato rappresentano bene il concetto di trascesa del film dalla realtà nella narratività e nella performatività, dall’altro contribuiscono a sfatare la concezione di un cinema documentario necessariamente basato su uno sguardo autoriale distaccato, su un approccio didascalico. I loro lavori si confrontano con un reale, camera alla mano, condizionabile e suggestivo, soggetto a stimoli e comunque destinato ad essere alterato in sede di montaggio. A spingere i documentaristi dotati di questa mentalità creativa è dunque la necessità di intromettersi nella costruzione del racconto, cogliendo nel reale le possibili connessioni con “l’esterno”, dovuto all’applicazione di un filtro culturale o artistico. Il che porta talvolta questi autori a seguire un istinto più affettivo che descrittivo, sentimentale se vogliamo, riscontrato nelle forme più alte e poetiche del cinema del reale.

Agostino Ferrente e Giovanni Piperno sul set di “Le cose belle”

Un primo esempio estremo di questo reale “contaminato” dall’intervento del cineasta è rappresentato da Il film di Mario (realizzato tra 1999 e 2001), che Marco Bertozzi, esaminando le derive creative del documentario contemporaneo, cita tra gli esempi di un cinema che «non attesta più l’esistenza del mondo ma fa mondo, lo costruisce, ne edifica parti che, al termine dell’opera, godranno di vita propria […] un cinema in divenire»2. Piperno e Ferrente partono con l’idea di girare un film su un personaggio incontrato a Bari, Mario Giammaria, un quarantenne ex-tossico che si guadagna da vivere con piccoli lavori, come quello che lo tiene occupato sedici ore al giorno a guardia di un grottesco presepe, piazzato in una via importante della città per le esigenze di un fotografo. Mario vive in povertà assieme alla famiglia. Oltre alla casa il suo bene materiale più prezioso è una vecchia Fiat 126, ma non cede a quella criminalità che pure, nel contesto sociale che lo circonda, potrebbe facilmente fagocitarlo. L’interesse nei confronti di questo personaggio nasce evidentemente da un istinto tipicamente documentaristico a indagare contesti al margine della società, nel tentativo di evidenziare crisi e problematiche, come la povertà, al contempo restituendo ai personaggi che ne sono vittime una dignità. Nello scenario di una vita ricca di ostacoli viene messo in luce il seme di una resistenza e avviene la ricerca di un mito, quello delle “cose belle”, che come vedremo attraggono la sensibilità dei due registi.

Piperno e Ferrente lavorando al film scoprono che Mario sogna di diventare un attore. A questo punto il loro approccio si allontana gradualmente dalle pretese di una presunta oggettività documentaristica: si entra nel regno del soggettivo e la regia viene sostanzialmente gestita dal personaggio, in quello che diventa a tutti gli effetti una performance recitata. Un legame tra performatività e cinema documentario è dunque possibile e coerente, come risulta dallo studio di Stella Bruzzi, che considera la performance come un elemento dal quale il cinema del reale difficilmente può prescindere.

«La logica conclusione di un’indagine preoccupata dall’idea che un film documentario non possa mai semplicemente rappresentare il reale, che in verità è solo il rapporto dialettico tra uno spazio reale e i registi che lo violano, è un film non-fittizio focalizzato esplicitamente sulle problematiche della performance»3.

È quanto scrive la Bruzzi, tracciando le forme di un New Documentary in cui i personaggi sono descritti come performer di loro stessi, di fronte alla camera. Mario si spinge oltre e si impossessa letteralmente della cinepresa. Pretende di scegliere le inquadrature e le dinamiche del racconto, inventa giorno per giorno la sceneggiatura del suo film. Il racconto grottescamente melodrammatico nato dalla sua fantasia lo troviamo relegato in coda al film, virato in bianco e nero e montato come un classico film muto. Il realismo del montato finale è dunque parzialmente compromesso dall’intrusione di questo terzo punto di vista, interno alla storia. La materia reale, rappresentata da Mario, si comporta qui da reagente, innescato dalla presenza della macchina da presa. Un coinvolgimento tra narratori e soggetto narrato (e narrante) che può avere significativi risvolti reciproci anche nel mondo al di qua dello schermo, come è poi accaduto in questo caso. Lo sguardo dei cineasti è ormai stato compromesso.

“Le cose belle”

Parallelamente a Il film di Mario, nel 1999 Piperno e Ferrente realizzano su commissione della Rai, in appena tre settimane, un documentario che ha come oggetto la condizione dell’infanzia nel sud Italia. I registi scelgono il contesto napoletano, perché in quegli anni a Napoli «tutto sembrava più forte: la violenza, le speranze, l’energia, la sensualità, la rassegnazione», nelle parole di Ferrente. Così nasce Intervista a mia madre, un documentario in cui ai quattro protagonisti, Silvana, Adele, Enzo, Fabio, due ragazze di quattordici anni e due ragazzi di dodici, viene chiesto di riprendere con una videocamera la loro quotidianità, in particolare i rapporti con le loro rispettive madri e famiglie. La delega della regia è comunque parziale e decisa a priori dagli stessi autori, diversamente da Il film di Mario. Si ottiene così uno sguardo ibrido e multiplo, moltiplicato per ciascun protagonista, un efficace metodo per mettere a confronto storie e quartieri diversi. Notiamo la presenza dei registi in alcune inquadrature (nel riflesso nello specchio lasciato nel montaggio, così come nella voce in campo non tagliata) e certo non mancano gli sguardi in camera, ma la rottura della quarta parete, ceduta sotto il peso di un costante scambio tra personaggio e regista, è inevitabile nel progetto che portano avanti Piperno e Ferrente.

Intervista a mia madre ritrae ancora una volta una fetta di realtà italiana che crediamo di aver assimilato nel nostro immaginario nazionale, grazie all’attenzione rivolta dai media e dall’industria dell’intrattenimento al degrado dei rioni napoletani, tanto che Scampia dai reportage della tv italiana è infine approdata anche su Netflix. Piperno e Ferrente affrontano quel terreno fortemente mediatizzato in un’ottica più intima, dettata da un approccio che potremmo dire sentimentale. Non è importante qui ricordare il risaputo denunciando le realtà più degradate di Napoli, ma girare un film in cui, riprendendo ancora un’osservazione di Bertozzi, «protagonista non risulta più la volontà di saturare un tema (croce del documentario didattico, didascalico, a-simbolico), quanto la transumanza di mediazioni in attesa»4.  La coppia di registi non contribuisce dunque alla saturazione del tema sociale, preferendo mostrare la bellezza dell’adolescenza, una bellezza che va oltre i sogni e le sconfitte di una generazione incastrata dal contesto sociale. Ferrente ha spiegato di aver selezionato ai casting quei ragazzi che hanno dimostrato di non sognare la carriera di calciatore o velina, comprendendo la fragilità di questi obiettivi alla luce dell’immobilità sociale delle periferie partenopee. “Volere è mezzo potere” ammette uno dei giovani protagonisti. E questa affermazione contiene tutto il senso del disincanto nei confronti di un futuro incerto di cui l’Intervista è intrisa.

Concluso il film la vita dei quattro adolescenti prosegue per la sua strada. Passa una decina di anni, è il 2009. Che fine hanno fatto i sogni di Silvana, Adele, Enzo e Fabio? I registi, che negli anni hanno mantenuto i contatti con loro, sentono di voler riprendere un racconto che ha ancora del potenziale inespresso. Concepiscono quindi un montaggio in cui la proiezione delle vecchie speranze e attitudini approda bruscamente nel presente dell’età adulta. Bertozzi, commentando il concetto di documentario come opera aperta in senso drammaturgico, osserva come possa capitare che «l’autore stesso, in una revisione apparentemente fuori tempo massimo per qualsiasi produttore normale, diviene consapevole vittima di una arricchente patologia del non finito»5.

“Le cose belle” (riflessa nello specchio si può notare la troupe del film)

È quanto avviene in questo nuovo progetto, esempio di un cinema potenzialmente in divenire che non «espande le sue forme laddove si manifestano cavità affettive da colmare o lacune estetiche da emendare»6. I due registi tra il 2009 e il 2012 riprendono i fili narrativi dell’Intervista: riducono in frammenti il documentario Rai, inserendo questi filmati dal passato tra le riprese di un nuovo film, intitolato Le cose belle. “Tante cose belle” è un’espressione popolare di cui il film ci spiega il significato: «io non posso dirti che le cose brutte non ti accadranno, ma ti auguro con tutto il cuore che quelle belle siano molte, molte di più». Il cinema non ha certo salvato i quattro protagonisti dal soccombere agli endemici disagi di Napoli, come ammette Ferrente parlando del destino di quelli che chiama “fiori tra i rifiuti”. Eppure, torna a emergere la bellezza catturata nell’Intervista; questa volta è una bellezza matura, quella di chi fa i conti con la vita e cerca di immaginare un futuro oltre le barriere del quartiere. Anche la regia si fa più matura: la camera resta in mani esperte, si avverte un maggiore distacco, nessuno sguardo in camera. Il tessuto sociale viene approfondito, attraverso la ripresa delle attività degli organismi rionali.

Le cose belle rientra a pieno titolo nel discorso sulla riformulazione del reale. Complice è la evidente struttura drammaturgica che abbraccia due fasi temporali, inizialmente accostate in sequenza cronologica ma infine intrecciate, come in un racconto di formazione in cui i flashback svelano la complessità degli strati del presente, anche attraverso un gioco di contrasti (la diversa qualità delle riprese). Gli intenti del documentario didascalico, erede degli ideali neorealisti, sono ormai obsoleti. I registi qui sviluppano un legame affettivo con il reale, che necessariamente li coinvolge in un dialogo, sia esso implicito o esplicito. Accade proprio quanto descritto dalla Bruzzi:

«L’intervento eccessivo del regista segna in modo definitivo la fine dell’idealizzazione della teoria documentaria sul film imparziale, ponendo categoricamente e all’interno dello stesso documentario la domanda: cos’è un documentario se non un dialogo tra il regista, la troupe e una situazione che, anche se presente prima del loro arrivo, è irrevocabilmente cambiata dopo quell’arrivo?»7.

“Le cose belle”

Ferrente, nel suo percorso di carriera solista, si è dimostrato particolarmente suscettibile all’influenza delle realtà da lui incontrate. Nel 2006 dirige un documentario in cui questo scambio di affetti tra soggetto cinematografico e vita è evidente. Il film si intitola L’Orchestra di Piazza Vittorio, dal nome dell’ensemble multietnica di musicisti provenienti da varie parti del mondo fondata nel 2002 a Roma (nel quartiere Esquilino) dallo stesso Ferrente e Mario Tronco. Un progetto in cui emerge con forza la volontà di intervenire attivamente sul reale, con la cinepresa in mano ma non solo, se necessario. Sulla spinta di questo spirito alimentato assieme da innovazione creativa, militanza e coinvolgimento emotivo, Agostino Ferrente tenta dunque nel 2019 una nuova e fortunata sperimentazione cinematografica, un film girato interamente con iPhone: Selfie. Realizzato senza il sodale Piperno, questo lavoro (recentemente premiato col David) segue la medesima traccia semi-partecipativa dei primi film della coppia. Si torna cioè a quella camera ceduta agli “attori” per raccontare da vicino la loro vita; ma il salto tecnologico apre all’utilizzo di nuovi mezzi e, pertanto, nuove possibilità espressive. Familiare è anche lo scenario, poiché restiamo a Napoli, spostandoci nel quartiere Traiano. Uno dei quartieri caldi dello spaccio, assieme a Scampia, in cui Ferrente si muove restando fedele alla sua sensibilità: non cela né mette in evidenza la microcriminalità rionale, in quello che Christian Raimo ha definito «un piccolo film che rovescia tutti i canoni moralisti contemporanei».

È piuttosto interessante osservare come parte della curiosità e del fascino che ha suscitato il film sia nata da una sorta di fraintendimento, in effetti ampiamente sfruttato dalla campagna pubblicitaria di Selfie. Testate estere parlano ad esempio di un film in cui un paio di ragazzi napoletani raccontano liberamente le loro vite attraverso video-selfie, usando cellulari forniti dal regista. Si parla di un self-filmed doc. In alcune interviste poco puntuali sembra essere sottinteso il fatto che, una volta consegnati gli iphone per filmare, i ragazzi abbiano agito liberi da precisi input registici. Lo strumento di ripresa è dunque alla base dell’equivoco: un selfie col telefono costituisce nell’immaginario contemporaneo sempre un’inquadratura soggettiva, esprimendo la pulsione autorappresentativa di un individuo. Eppure, si tratta di una finta delega: il regista accompagna sempre i protagonisti nelle riprese e li coordina. Semplicemente, sceglie di non inquadrare la proverbiale Luna quanto piuttosto il dito.

Pietro e Alessandro, i protagonisti di “Selfie”

Dunque, nel nucleo di realtà inquadrata dal minuscolo obiettivo dello smartphone, entra in gioco il solito meccanismo della finzione. Il film è sì, come lo definisce il regista, «l’autoritratto allo specchio di ragazzi di 16 anni», ma lo specchio in questione non sfugge mai al controllo di Ferrente. È lui a scegliere le inquadrature, i contesti, le situazioni e persino i gesti, procurando stimoli e intervenendo dunque in modo significativo in ogni componente del film. Nascosto sotto l’apparente patina di un realismo senza filtri, esterni alla naturale quotidianità dei personaggi, vi è infatti un significativo controllo stilistico. Ferrente può inventare scene in cui la realtà si mescola all’immaginazione. Basti pensare alla scena del sogno di Alessandro, in cui attraversa in motorino una dimensione onirica bluastra in cui il tempo procede a ritroso. In altre sequenze si assiste invece al subentrare di una didascalizzazione delle metafore, come l’ha definita Ferrente: è il caso della scena della lunga salita che attende Alessandro e Pietro dopo il mare, immagine che diventa espressione delle tante fatiche di una vita che non regala niente e di un contesto sociale che ti sottrae molto, ma anche manifestazione della forte amicizia che li lega. Oppure la bellissima scena in cui Alessandro visita la tomba del Leopardi: qui improvvisa un’interpretazione personale della siepe dell’Infinito, che lui accosta mentalmente al muro del rione, barriera oltre la quale si trova “un’infinità di cose” («E se un giorno io non riuscirò a vedere cosa c’è dietro a questo muro, spero almeno che riusciranno a farlo i miei figli»). Scene in cui il regista reinventa e interpreta la realtà stimolando un incontro, piuttosto emotivo, con la poesia.

La manipolazione forse più evidente riguarda però un aspetto pratico, legato alla posizione dei protagonisti rispetto all’obiettivo dei cellulari. L’idea del video-selfie è infatti adeguata agli scopi del regista, che intende l’inquadratura come uno spazio di indagine su due piani, gli stessi che sembrano rappresentare la sua idea di cinema documentario. Da un lato un piano affettivo, legato al primo piano dei protagonisti, dall’altro un piano che potremmo dire oggettivo o di sfondo, costituito da quei due terzi di inquadratura dedicati al contesto che circonda i due ragazzi. Il primo piano del volto è importante ed efficace perché è in se stesso una sorta di schermo, in cui affiorano quei moti dell’interiorità che possono emergere dalla ravvicinata osservazione dei dettagli di una faccia. Nel suo classico saggio sul primo piano Béla Balázs osserva che in queste inquadrature è il volto stesso che costituisce il dramma. Un selfie cinematografico può esprimere il potenziale di quel “mondo microfisionomico” di cui parla Balázs8, che ad esso riconosce il potere di mostrare sentimenti sinceri e i primi strati dell’inconscio, tanto più con l’assenza di un’impostazione attoriale. Secondo il critico, che fa riferimento ad un cinema ancora non sonorizzato, nel primo piano avviene una sorta di oggettivizzazione dell’emotività umana espressa attraverso la fisiognomica (esaltata da questo tipo di inquadratura molto ravvicinata), ovvero i piccoli movimenti e vibrazioni del volto ripresi anche da Deleuze, per il quale il primo piano è l’emblema di quella che chiama immagine-affezione9.

Registrazione da telecamera a circuito chiuso in “Selfie”

Anche nel caso dei selfie impostati da Ferrente, il volto dei protagonisti funge da schermo delle emozioni, spesso e volentieri non accompagnate da parole ma da un intenso sguardo in macchina che segna l’innescarsi di un dialogo diretto con lo spettatore. Ma in realtà la scelta di Ferrente non corrisponde alla definizione data da Balázs quando parla di un primo piano isolato dal fondo, perché «i sentimenti, gli stati d’animo, le intenzioni, i pensieri non sono oggetti che si trovino nello spazio, anche se per esprimerli l’uomo ricorre a gesti che pure esistono nello spazio»10, mentre in Selfie lo spazio attorno ai volti è parte fondamentale del quadro. I primi piani che compongono Selfie da un lato racchiudono l’essenza dell’intimità dei personaggi, ne mettono a fuoco le lacrime di tristezza e dolore, le gocce di sudore, gli occhi sorridenti di chi guarda l’amico, lo sguardo già maturo di chi distingue il sogno dall’impossibile. Dall’altro lato, i volti di Alessandro e Pietro si collocano al margine dell’inquadratura su richiesta precisa del regista, favorendo l’apertura di un dialogo con il contesto sociale, con la realtà del quotidiano che sarebbe parzialmente eclissata lasciando i personaggi al centro del quadro, appunto perché «dinanzi a un volto isolato non ci sentiamo nello spazio»11 come ci ricorda Balázs.

L’importanza dello spazio, che rappresenta anche la quotidianità e dunque la materia meno mediata, è rimarcata ulteriormente dalla scelta di inserire nel montaggio riprese di telecamere a circuito chiuso collocate sulle strade del rione. Ferrente incastra le loro registrazioni tra le sequenze del film, quasi come manifestazione di un reale quanto più possibile senza filtri, non discutibile, il collante naturale e sottinteso di questo racconto. Al reale immediato poi, rispetto ai lavori precedentemente commentati, si aggiunge un ulteriore strato legato alla cronaca, riguardante il tragico destino di Davide Bifolco, coetaneo dei protagonisti ucciso dal proiettile di un carabiniere durante un inseguimento. Davide è una sorta di ferita inferta all’intero rione. Compare costantemente nel film, lo spettro di un ragazzo di 17 anni ucciso per errore, evocato dai suoi amici e dal quartiere stesso, raffigurato sui muri e impresso sulle magliette dei ragazzi. È la forma poetica di un cinema che si confronta con il reale, Selfie, è anche testamento alla memoria di una dolorosa tragedia, ma è persino diario affettivo di una forte amicizia, è dichiarazione d’amore di un regista nei confronti dei suoi personaggi, fiori tra le rovine di un Sud che, agli occhi di questi autori, è un immenso crogiuolo di storie in attesa di essere raccontate, con intelligenza, sensibilità e senza retorica. Lasciando che sia l’arte, con le sue variegate lenti, a raccontare il reale.

“Selfie”

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE

1 Zonta D., L’invenzione del reale, Contrasto, Roma 2017, p. 8

2 Bertozzi M., Documentario come arte, Marsilio, Venezia 2018, p. 83

3 Bruzzi S., New Documentary: A Critical Introduction, Routledge, Londra 2000, p. 125

4 Bertozzi, op.cit., p. 84

5 Ibidem

6 Ivi, p. 83

7 Bruzzi, op. cit., p. 164

8 Balázs B., Il film, Einaudi, Torino 2002, p.61

9 Deleuze G., Immagine-movimento, Einaudi, Torino 2016

10 Balázs, op. cit., p.56

11 Ibidem