Come la magia salvò la mia adolescenza | Bioprosa – di Francesca Matteoni_Argo 19
Per Michael Ende
Il libro che scelsi come regalo per la promozione in seconda media aveva una copertina rosso rubino, su cui erano impressi due serpenti che formavano un ovale mordendosi la coda. Al suo interno era scritto in due colori: rosso rubino e verde azzurro; e diviso in ventisei capitoli alfabetici, ognuno aperto da un elaborato capolettera. Si intitolava La storia infinita e mi chiesi come fosse possibile, per un racconto, non avere un termine. Mi immersi nella lettura. La storia infinita era il libro che stavo leggendo, ma anche il libro letto da Bastian, il bambino incontrato nella scrittura insolitamente rossa del primo capitolo. Un libro dentro al libro – io, lettrice, divenivo il protagonista lettore, fradicio di pioggia, nascosto in un’eterna soffitta della scuola. Uno straordinario posto segreto. Mentre i suoi coetanei scontano compiti e interrogazioni – come le assolute solitudini che si conoscono dietro quei banchi – Bastian se ne sta nel loro stesso edificio e tuttavia non c’è – rintanato al sicuro, in incognito. Personaggio e lettore, mio complice. Insieme scoprivamo delle sfortune di Fantàsia, terra retta da una misteriosa Infanta Imperatrice, personificazione di un fato al di là del bene e del male, e minacciata da un incombente Nulla divoratore. E insieme sapevamo che a ricacciare il Nulla sarebbe stato il nostro credere nelle storie – nei fuochi fatui, nei draghi volanti, nelle selve notturne che si mutano in deserti di sabbie iridescenti all’alba.
Imparai bene il nome dell’autore. Non importava quanto mi sentissi differente, al fondo sola, sebbene non vittima dei compagni come Bastian: esisteva un Michael Ende da qualche parte, un adulto che non aveva smesso di abitare lande incantate. C’era anche dell’altro, però, proprio nel centro dell’avventura, a risuonare nelle mie preoccupazioni di undicenne. Era, più precisamente, il motto agostiniano: Fa’ ciò che vuoi, inciso sul retro del medaglione AURYN, raffigurante i due serpenti (bene e male, luce e oscurità) allacciati, donato dall’Infanta Imperatrice prima ad Atreiu, incarnazione letteraria del ragazzino eroe, e poi a Bastian, bambino al cospetto dei suoi desideri, eroe suo malgrado. Fa’ ciò che vuoi, non segui il tuo capriccio come meglio ti pare, ma distingui i sentieri che percorri, valuta come a ogni desiderio realizzato corrisponda qualcosa che si scorda – si allontana dal cuore. Il “vuoi”, la vera volontà che chiama il bambino – ignaro all’inizio, tragico ed egoista in seguito, accumulando un desiderio sull’altro, e infine smarrito -, richiede sacrificio, l’abbandono perfino del proprio nome, perché aggalli un’identità in grado di spogliarsi di sé e dunque autenticamente salda.
Il bambino che era Bastian entra nudo nella fonte vitale dell’acqua, la fonte della sua immaginazione – specchio dove riconoscere gli affetti. Occorre trarre da se stessi questo mondo meraviglioso, con molta fatica disilludersi sognando, perché la volontà permetta di vedere dal buio la preziosità della nostra vita. Certo non sapevo questo, allora. Fa’ ciò che vuoi significava soprattutto immagina, e se proprio devi tenere una memoria soltanto, che sia questa infanzia. Fatta di praterie intraviste dagli abbaini; di lupi giganteschi e incarogniti; dell’improvvisa verità della morte – palude dove un amato puledro o una compagna di giochi, si immobilizzano, affondano, ma non scompaiono del tutto -; di montagne semoventi e oracoli dalla voce lamentosa. Questa infanzia dove convoco nell’orto la compagnia di amici immaginari e racconto loro di un libro che tutti ci contiene.
Decisi che avrei letto ogni libro di Ende. Ad agosto arrivarono Le avventure di Jim Bottone: orfanello nero giunto infante tramite pacco postale, sull’isola Dormolandia, troppo piccola per ospitarlo indefinitamente. Così, una volta cresciuto, parte con il macchinista Luca a bordo di Emma, locomotiva riadattata a nave, per imbattersi in una banda di pirati e in una draghessa zannuta che manda avanti una scuola, a ritmo di terrore e disciplina. E poi, in una settimana di influenza autunnale, Momo, bambina piovuta da chissà dove, ostacolo numero uno all’opera degli Uomini Grigi, ladri di tempo umano, da consumarsi in sigari puzzolenti. Il tempo rubato era fatto da bellissime Orefiori chiuse a essiccare, invece che lasciate libere di fiorire e sfarsi petalo a petalo nella loro lentezza. Ma come si restituisce il tempo? Camminando all’indietro, per esempio, seguendo una tartaruga veggente quanto basta. Prendendo dimora tra le rovine di un anfiteatro che, all’occasione, si trasformi in un vascello tra furiose tempeste celesti. Recuperando insomma il valore dell’inutile, del tempo ricreato nel fare nulla, nei vagheggiamenti di un innamorato, nel canto incomprensibile di un volatile.
Fino ad ora i protagonisti dei libri di Ende erano tutti bambini – bambini solitari, aggiungo, per i motivi più diversi. Bastian: piccolo, grassottello ed emarginato, in cerca di un sé-sassolino che duri oltre il reame fantastico in quello quotidiano. Jim che stringe amicizia non con un coetaneo, ma con un adulto niente affatto paternalistico. E Momo: bambina-fata o strega senza età, sola perché unica nel saper ascoltare come nell’immaginare. Ne Lo specchio nello specchio, invece, non incontrai ragazzini, ma sogni usciti dalle tele surrealiste del padre pittore nelle parole sibilline del figlio. Parabole oniriche, viaggi verso la felicità o fughe dal labirinto del mito greco, che non si risolvono, ma al contrario precipitano i protagonisti in un’angoscia profonda. L’altra faccia dell’immaginario emergeva con la fisionomia di un minotauro triste, di un angelo pallido in un’aula di tribunale o di un uomo dagli occhi di pesce, di un pattinatore che sfida la gravità, solcando con le sue lame il cielo. Dove finisce il sogno e inizia la veglia? E chi è il sognatore? Immaginare, mi suggerivano le strane visioni, significava anche accogliere la propria illusorietà, fare spazio in sé stessi all’inquietudine: «O forse non facciamo altro che sognarci tutti a vicenda? Un intreccio di sogni, un groviglio senza confini, senza fondo? Siamo tutti un unico sogno che nessuno sta sognando?» (Michael Ende, Lo specchio nello specchio. Milano: Longanesi, 1984, p. 252). I sogni sono quei marchingegni dell’imprevedibile, che ci spingono nei nostri limiti, senza tuttavia mostrarli mai con chiarezza.
Dal sogno entrai nella magia fiabesca de La notte dei desideri, avventura dell’ultimo giorno dell’anno, quando un gatto grasso e un corvo sgraziato, Maurizio e Jacopo, si adoperano per sventare le devastazioni ecologiche pianificate da un mago e una strega, zia e nipote, al servizio del diavolo in persona. C’è una bevanda incantata, un Gog di Magog, che realizza ogni desiderio espresso. C’è il rintocco salvifico delle campane di mezzanotte. Il male ha una forma grottesca; il bene quella fragile e determinata di due animali, osservatori dell’umano. La lezione difficile di Bastian si addolcisce, si fa un incanto semplice: l’aiuto viene dai piccoli, perfino più piccoli dei bambini, poiché la speranza è un bene da riporre ovunque, come la fratellanza.
Ero ormai una quasi adulta, quando per caso finii a contemplare in vetrina un altro volume di racconti inquieti, metafisici di Ende: La prigione della libertà. Stavo attraversando una forte crisi depressiva, che durò oltre un anno. Mi vedevo nel mezzo di una follia amara, incapace di portare a termine una cosa qualsiasi, di essere voluta nel paese degli altri. Chiesi, ancora una volta, un aiuto allo scrittore della mia ultima infanzia e trovai Indicavia, personaggio conclusivo, alla ricerca della strada che conduce nei territori fantastici. Una volta davanti all’ingresso, però, non avanza e si arrende, inventandosi la professione di indicatore del sentiero, per coloro che arriveranno, senza comprendere che per ognuno vi è un crocicchio di strade e uno soltanto, che nessun altro può muoversi nelle nostre calzature. L’immaginazione ha a che vedere, in ultimo, con il coraggio. Non si può affidare la nostra a un fortuito passante, per timore di starci dentro. Non si diviene persuasivi o credibili se non siamo i primi ad affrontare il sogno con le sue sconfitte e le sue ricchezze. I primi a non tradire i bambini immaginifici che siamo stati, per convenzione sociale, per l’inerzia rassegnata che sopraggiunge con i doveri e le norme bislacche degli adulti.
Ha scritto Michael Ende: «Il bambino che sono stato vive ancora oggi dentro di me; crescendo non si è scavata alcuna voragine che me ne separa; sotto sotto io mi sento ancora di essere esattamente quello che ero allora»; perché questo bambino «fino all’ultimo giorno della nostra vita significa per noi il futuro» (Michael Ende, Storie infinite. A cura di Saverio Simonelli, Catanzaro: Rubbettino 2010, pp. 47-48). E se, come tanti Indicavia, vogliamo dirci maestri in qualcosa – insegnare, educare – non avverrà certo in seguito a una rinuncia, a un ripiego desolato. Avverrà nella misura in cui resteremo apprendisti e cercatori, che scelgono quale sentiero conoscere fino al suo estremo. Avverrà perché, con tutta l’ingenuità e la fiducia del bambino in noi, tenteremo.
Francesca Matteoni