Come l’amore di un timpano e una pupilla di Rossella Or ⥀ Appunti di lettura di Roberta Bisogno

A due giorni dall’uscita in libreria dell’ultima pubblicazione di Argolibri, Come l’amore di un timpano e una pupilla di Rossella Or (Argolibri, collana «Talee», 2025), presentiamo una lettura della co-curatrice del libro Roberta Bisogno

 

 

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Marina Cvetaeva domanda: «Perché venirmi a raccontare che cosa volevo fare in un certo poema? – vieni meglio a mostrarmi che cosa hai saputo prendere – tu – dal mio poema» (Il poeta e il tempo).
Provo a rispondere alla domanda, sostituendo la dichiarante, da Cvetaeva a Or, appuntando cosa ho saputo – se ho saputo – prendere dalla lettura di Come l’amore di un timpano e una pupilla di Rossella Or. E può darsi che a questa domanda anche Or, con la sua poesia, abbia provato una risposta.

 

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Il Libro delle interrogazioni di Jabès annuncia: «Tu sei colui che scrive ed è scritto». Per Rossella Or l’affermazione vale interamente.
Scrivere, non importa a che livello, suggerisce, il più delle volte, la durata dell’esperienza; e il suo rovescio, essere scritti, suppone forse di non resistere alla corrosività dell’esperienza. Che è un po’ come dire la stessa cosa.
Si dirà, e a ragione, che Rossella Or viene dal teatro e dalla performance. D’accordo, e forse anche per questo la sua scrittura si fonde con e nella scena (scrittura parola/azione, rappresentazione), essendo queste nient’altro che esistere.
Or fa della poesia uno strumento finalmente adattativo. Ne esalta la funzione minuta, microscopica e ricettiva del reale. Essa è un dispositivo di adattamento al reale. Fa del linguaggio intero la morfologia del vivere. A patto che ciò che è scritto sia anche detto, e viceversa, ovvero: assunto. Assunzione non verticale ma discendente, che procede verso il basso; dal centro alla periferia. E in botanica: che diffonde e irradia linfa nel fusto e nelle radici, verso il basso. Discendenza umana: legame di derivazione.

 

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Così il verso è uno dei punti di irradiazione del senso, l’incominciamento, che innanzitutto da orecchio e occhio procede verso la bocca, e si propaga verso un altro dei punti di irradiazione, l’emissione della voce, fuori (il timbro, il ritmo) e dentro di sé (l’istante, l’articolazione della memoria, il mash up).
Il riferimento è nel titolo/verso, che contiene e dà robustezza al procedere della raccolta: Come l’amore di un timpano e una pupilla.
Legame, relazione, prossimità fra due parti dell’orecchio e dell’occhio, il timpano e la pupilla: percezione uditiva ed equilibro; percezione visiva. L’uno regola l’ingresso del suono, l’altra della luce. E del resto, la relazione fra ciò che vediamo e ciò che sentiamo entra in rapido e stretto contatto con l’ossatura della nostra individuale memoria, con la nostra precipua capacità di ricevere suoni e immagini dall’esterno: L’udito nello sbattersi delle imposte vicine, / l’udito dei piani vicini, dei pianti / dei ricordi vicini (da La sera il suo peso la sospende).
Se da una parte, allora, la combinazione dei sensi, commisurata alla propria funzione organica e simbolica, immette in uno stato di beata sensibilità, quasi ludico-infantile (questo titolo sarebbe forse adatto anche a un libro di favole, racconti o a un libro per bambini), dall’altro, la stessa combinazione, allusiva, fonde nella struttura della raccolta, così come l’autrice l’ha organizzata, una continua amplificazione di eco e rimandi, spesso tutt’altro che beati.

 

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«Il mio “unico sguardo” è una moltitudine di piccole fermate» (Simon Ings).
La moltitudine tiene unita l’intera raccolta di Or. Del resto è ancora il titolo a suggerirne la similitudine, il somigliante.
Questo spessore senza campo, / col peso di un resto superfluo tra noi. / Come una figura piena di spazio, / che nell’ombra di una sfera ascolta il tempo / scandito attorno all’imperfetto, / con l’acqua d’amarezza degli occhi, / l’acqua solitaria che un corpo nudo divide / per non essere più che un leggero istante, / che senza ubbidienza al mattino, / diventa realtà (da Bambini di marmo).
Corpo intero: linguaggio. Una linea di canto, nell’enigma del corpo (da Una linea di canto).
Moltitudine di corpi, moltitudine di movimenti. Uditivo e visuale: percezione come grado di attenzione. Che in scrittura si traduce per Or nel montaggio di un collage che non allinea o combina ma accende associazioni istantanee, analogie, rime (im)perfette, discrete e numerose figure di suono e senso. Recupera piccole reliquie e tracce, rincorre.
La voce trascina in avanti, in molte composizioni, un residuo di senso: Marina Cvetaeva, a cui dedica un’intera raccolta, entra in scena fin dall’inizio, Un ricordo d’ingresso della poetessa / sovietica, illuminata nel gran bar invernale / dell’ONU strage, un angelo per le ali / dell’angelo religioso, e ritagliato all’ombra di una riva Eva / a Praga, e il Medio Oriente a capo (da Memoria visiva).
Nella poesia Dopo l’ultimatum, la struttura generale fatta di eco e residui si palesa: il titolo richiama una poesia contenuta nella prima opera pubblicata di Or, L’acqua tende alle rive (Zona 2019), dal titolo L’ultimatum. Sempre in Dopo l’ultimatum sono richiamati versi di poesie precedenti, Da quando i tagli della linea nella mano / dell’amore, sono impalliditi sono quasi identici ma appena variati a quelli della seconda strofa di Bambini di marmo; il verso Certo la tomba dell’angelo è vuota sta dapprima in Cantus firmus; così per […] la sera slava del compositore d’eco / con le pupille dipinte nel pallore torna in Bambini di marmo e in Dopo l’ultimatum.
Il residuo come traccia della contemporaneità di Or poeta. Generale atmosfera di approssimazione e scivolamento. Verso dove? Indizio della luce, parla! Sembra suggerire la poesia di Or.

 

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Poeta è un transistor che permette l’amplificazione e l’interruzione di correnti elettriche.
Or si approssima al magma dei segnali, li recupera e infine dissimula, li ricaccia e li ritrasmette nella propria versione. Al flusso elettrico, qui sostituiamo il flusso della memoria o della registrazione di segnali che interferiscono con il momento presente. Interferenza: poiché recupera nei versi segnali di realtà diverse: lo stato di veglia e di sonno (Cvetaeva: Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno – scopre / la legge della stella e la formula del fiore), il sogno, le notizie dal mondo, la guerra, la letteratura, il ricordo personale – tutto interferisce e accade – creando un equivoco di complicità con la propria personale dialettica fuori e dentro di sé. Nel flusso questi segnali extra necessitano di essere processati, estratti, per permettere alla corrente di fluire. Alcune interferenze sono complici più che casuali.
«Tu cerchi di liberarti con la scrittura. Quale errore! Ogni vocabolo è il velo sollevato di un nuovo legame» (Jabès).
Costruita su una implicita polifonia e come ogni radice del verso, ogni poeta anima nella scrittura il proprio ritmo e fiato – e così pure Or. Ma Or raffina e lima, diventa artefice del richiamo e quindi della narrazione. Ciascuna poesia è un quadro, una scena. Racchiusa in spazi di vita propria.

 

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In Come l’amore di un timpano e una pupilla ci sono tre sezioni. La prima non ha titolo, ma una specie di esergo, un fuori-opera parziale, un motto forse, da cui il titolo generale. Le primissime poesie della raccolta, Foglie e Viole del pensiero – le sole, insieme forse a Sonoro – sono scandite da un ritmo snello, perché «c’è, nella poesia, qualcosa di più importante del suo significato – il suono» (Cvetaeva).
Poche sono le cose distese seppure dimesse e quotidiane, la tensione segue lo sviluppo del tempo nella fragilità della osservazione/registrazione. L’occhio registra e compone un collage di cose minute: la dialettica con l’esterno ha inizio, il moto linfatico discendente anche. Il ritmo snello si perde a poco a poco, dando spazio a versi in blocco, densi, lunghi. Si entra nel vivo della raccolta dopo queste poesie. La composizione dell’occhio si stratifica, emerge l’intrico compositivo che fonde al gesto dello sguardo la percezione della memoria rumorosamente arredata nelle stanze del silenzio: memoria come accadimento dal quale si genera il ricordo di una storia più generale, filtrata simbolicamente o per via di presenze vestite da mito, che si frappone a nomi cose luoghi brand, tragici eventi singolari e collettivi. La cancellazione della grazia nelle mani dell’umano tragico. Eppure c’è denuncia, desiderio di una comunità cui appellarsi, (non) disperazione, coralità. La dialettica dentro di sé chiama a raccolta dapprima elementi esterni che poi lascia naufragare sull’onda: il visivo interiore interferisce generando piani di realtà concatenati: percezione e memoria, ricordi di marmo e spazi onirici, personificazioni. Chiama a raccolta la rarefazione dello sguardo e dell’udito.
«Il dialogo con le foglie non deve interrompersi, dialogo di vivi con le foglie, dialogo di morti con la sabbia. Solo parole suggerite dalla morte permettono un dialogo fra morente e un vivo. La morte ci presta la sua voce» (ancora Jabès). Il verso si allunga, la durezza incalza e la voce fatica dalla linfa alla polvere: gesso, pietre, fontane, trave, tetto, mucchietto di ossa, croci, serratura, calce e un fiore imbalsamato (in Percezione siriana). Il passaggio dal naturale all’umano si irrigidisce, ha a che fare con la storia di tutte le storie. Una storia che conosciamo ripetutamente. Perciò la voce, soprattutto quando corale, è flebile, dolorosa, tragica: lamenti per cantare, trafelati gridi, suono di un alito caldo, preghiere in lontananza, le voci fuggivano l’ombra (ibid.). Il canto è corale, soprattutto nella prima sezione, che incomincia come si diceva con un inciampo ritmico e apre dal dettaglio naturale a quello spaziale umano.
La seconda sezione, invece, A Marina, è dedicata a Marina Cvetaeva, una specie di intermezzo, nel quale Or si rivolge direttamente alla poetessa russa, che scrive nella celebre poesia I poeti: I dispersi anelli / della casualità, ecco il suo legame!
Or fa di queste composizioni uno spazio continuo acustico, di silenzio e acqua. Cvetaeva è interlocutrice: Eppure solo il ritratto di un’o n d a / costante uguale e diversa v o c e / libera dal rumore, e trasformata in semplice eco / perché l’onda è la stessa e l’acqua è diversa marina (da A Marina). Diventa la personificazione dell’essenziale poetico, della disperata vitalità poetica e ricerca di silenzio e spazio.
Ancora Cvetaeva nelle sue lettere: «La vita quotidiana: materialità non trasfigurata»; «Ma il poeta è colui che trasfigura tutto!… no, non tutto – solo ciò che ama» (Deserti luoghi).
Bisogno di essere un elemento vivo del paesaggio.
Or non auto-riferisce, ma auto-riversa, in una continua trascrizione e riscrittura. La sua presenza è il suo silenzio.
«(Le parole muovono tutto, vogliono a turno, convincere. Il vero dialogo umano, quello delle mani, delle pupille è un dialogo silenzioso. Non esistono, parlati o scritti, dialoghi tra persone. […] A forza di fare nostre – fino a un certo segno – le parole, riusciamo talvolta a identificarci con esse. Sembriamo esprimere la verità; ma accade quando ci cancelliamo, rompiamo con il passato e l’avvenire per diventare il passato e l’avvenire della parola; quando diveniamo il silenzio dei nostri cinque sensi […]; quando non abbiamo più volto, infine, possiamo osare di esibirne uno» (Jabés).
La sezione ultima, Riservato, la più corposa, fa da controbilancia: qui tutto si inscrive in un dialogo privato di rivoluzioni richieste a un tu che si ripete ma è un altro, è diverso. Residui più che echi, prese di posizione, rinunce, descrizioni del corpo, dichiarazioni dell’io. Riservato perché pertinente a sé, non immediatamente pubblico. Con uno slancio diverso di tono, qui rintracciamo un posizionamento dell’io sul mondo: poetico (Echo, Sonoro), politico (contro la disumanità / dove niente è possibile, del resto / la povertà elettrica non si controbilancia / con la natura morale naturale dell’estetica, con l’impotenza / dell’amore, col fastidio, o con la storia naturale universale / assassina, non si controbilancia, né si svezza senza un collettivo, e i saggi che vanno / al magistero, non vogliono scendere le scale né salire al piano delle frequenze degli occhi / a mandorla, al piano dei sorrisi nella fiducia / e presenti e assenti si confondono allora all’inesistenza (da Magistero).
Come un io che ammonisce sé stesso nella paura del reale ridestato: E una domanda la raggiungeva muta / nel sorriso, il giorno dopo nel campo magnetico più ampio / dell’ignoto, la paura del genocidio / o dell’estinzione delle rondini, / o della sua età dimenticata come un fiore tra le pagine (da No aut).

 

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Nell’introduzione a L’acqua tende alle rive Carlo Bordini con grande chiarezza annota il cammino poetico di Or, ancora rintracciabile in questa nuova raccolta.
Dichiara fin dall’inizio un dato essenziale: Rossella Or è una creatura che viene dal teatro cd delle cantine romane degli anni ’70; per lei la ricerca della parola è stata caratterizzata da un chiaro isolamento, condizione anche felice per questi versi di delicata intensità.
«Formarsi una tradizione elettiva, implica da parte dell’autore-attore di teatro, un atto di scelta, frequentare un universo poetico con il quale acquisisce sempre maggiore familiarità, non ereditato. La tradizione del nuovo teatro è fatta di memoria poetica […] nei confronti di una particolare visione del mondo […] che passa attraverso il corpo dell’attore, e quindi intimamente assimilata e trasformata» (Valentini, Dopo il teatro moderno, 1989).
Regia e messa in scena in Or sono regolate da lei poeta. In un lungo mormorio, nel (ri)pensare il mondo, nel loop del pensiero, la composizione del testo nel suo farsi diventa dispositivo di selezione. E il ritmo scandisce l’intuizione. Non espone direttamente l’esperienza, piuttosto la poesia apre a una plasticità gestuale della parola. La parola si adagia sulle cose vive, movimenti minimi di spazio e tempo si intensificano al diradarsi della percezione, di una comunità chiamata in causa eppure dispersa, come un grido che rientra in sé stesso, ripiegandosi fra le cose del mondo. Così la voce incarna una creatura minimale, umbratile, versatile alle stagioni, al suo peso.

(Roberta Bisogno)

 

 

Rossella Or
Opera su carta di Rossella Or.