Come saltammo in lungo ⥀ A Corto Dorico parla il cinema che rEsiste
La trascrizione del dialogo tra tre giovani registi, Carlo Sironi, Ciro D’Emilio e Mario Piredda, con la partecipazione di Daniele Ciprì, direttore artistico di Corto Dorico, riguardo al cinema che rEsiste alla pandemia globale e al futuro che attende la settima arte. L’incontro è moderato dal critico cinematografico Alessio Galbiati.
ALESSIO GALBIATI. Tre registi molto diversi tra loro ma con grandi punti di contatto. Uno di questi punti di contatto è l’aver praticato il cortometraggio in maniera abbondante. Le loro filmografie si compongono di parecchi cortometraggi, i quali hanno ottenuto una discreta quantità di premi. A me interesserebbe partire da una domanda, una riflessione: cos’è il cortometraggio e quanto vi ha aiutato nella vostra esperienza legata al lungo. Chiedervi, se vi ricordate, qual è stata la vostra paura principale la prima volta che avete girato un cortometraggio, e la paura più grande per il primo giorno di riprese del lungo. Andrei in ordine, quindi partirei da Ciro D’Emilio.
CIRO D’EMILIO. Bella domanda. Nel senso che, parlando anche per gli altri, dal primo corto al primo film troppa n’è passata di acqua, rischiando di dimenticarsi delle sensazioni, delle emozioni. Io quello che ho sempre riconosciuto in questo percorso è una grandissima motivazione e un’altrettanto grande intraprendenza. Anche perché il primo film, se lo rapportiamo al mondo dei corti, rispetto all’essere strutturato o meno strutturato, più ricco o meno ricco, con budget o meno budget, paradossalmente è sulla stessa lunghezza d’onda. Il primo corto, con ovviamente meno maturità e consapevolezza, ma con maggiore libertà se vogliamo, aveva in sé il fatto di essere una guerriglia urbana che andava a monopolizzare abusivamente spazi e luoghi, con attori lanciati in scena e riprese rubate. Il primo film non è stato ovviamente così illegale, eravamo frenetici perché il tempo per le riprese era poco; essendo stato girato all’improvviso è stato fatto con pochissimi soldi e con tante scene per ogni giorno: una corsa. Quello che riconosco è di aver praticato quella palestra di guerriglia che, in qualche modo, sia in termini di emotività che in termini di motivazione, ma anche di stupore, ci ha permesso di saper affrontare il limite; quello che ogni giorno poteva essere l’ennesimo problema ha trasformato la paura in un punto di forza e non di debolezza – dal versante produttivo e creativo. Non parlerei di paura, per quest’esperienza, ma di atto di follia, una follia collettiva per me e tutto il team.
MARIO PIREDDA. In realtà non ho ricordi ben precisi del primo corto. Ho iniziato ad avvicinarmi al video, ad attaccare le inquadrature, presto; verso i sedici, diciassette anni: giocavo con la telecamera. Dopo mi sono trasferito a Bologna per studi e all’università ho avuto i primi contatti con il mondo dell’audiovisivo. Avevamo aperto una televisione di strada nel 2001, Orfeo Tv, quando Berlusconi aveva il monopolio di tutto il sistema televisivo italiano, come atto politico, doveva essere una televisione pirata; da lì ho iniziato pian piano ad appassionarmi e costruire il racconto di un qualcosa. Solo successivamente sono arrivato a raccontare per immagini una storia: per cui è stato un processo, come dire, graduale. Il primo giorno del primo corto non lo ricordo, forse non lo saprei nemmeno individuare. Ricordo quello che per me è stato il corto più importante, che non andò benissimo. Sì, perché non avevo una struttura a coprirmi le spalle […]. Ero completamente autodidatta. Insieme ad altre persone ci siam buttati, senza saper nuotare, in questo mondo. E pian piano studiando, capendo, e soprattutto guardando molti film (a Bologna le istituzioni come la Cineteca o come il Cinema Lumière ti permettevano di vederne tantissimi) abbiamo acquisito una nuova consapevolezza: è stata un’evoluzione. Ricordo però benissimo il primo giorno del lungo, ché anche se ci riferiamo al lungometraggio, sempre di produzione indipendente parliamo: i problemi sono tanti. Il primo giorno di riprese ero tesissimo. Stavamo per imboccare la strada che portava dall’hotel al Supramonte, quando ci hanno fermato i carabinieri dicendo che non potevamo continuare. Non riuscivamo a capire perché, nessuno ci diceva nulla, ho pensato addirittura che dipendesse dal film, dal tema del film, ci hanno tenuto fermi due ore ad aspettare […]. Alla fine avevano bloccato la strada a causa della peste suina: era in corso una battuta di caccia. Il primo giorno di riprese.
CARLO SIRONI. La mia è stata un’esperienza opposta a quella di Mario: ho iniziato tardi a girare. Fino ai venticinque anni ho fatto il video assist, il video operatore, diciamo, il loader, e c’ho messo un po’ prima di dirmi che volevo provare con la regia. Quindi so individuare perfettamente il primo cortometraggio perché non ho mai passato quella fase della pre realizzazione. Avevo in realtà una paura incredibile la notte prima. Mi ricordo di aver dormito in location – il corto si chiamava Sofia – e la location principale era questa casa dietro San Pietro. La vera paura che avevo era quella che, avendo creato un corto tutto sommato professionale, ché avevo deciso di girare in super 16, non mi potessero capire quelli della troupe; non il mio direttore della fotografia o l’operatore, ma tutti gli altri. Era strano dirigere per me, era strano dare delle indicazioni, perché non l’avevo mai fatto prima; era una paura performativa. Invece per il film è stato diverso. Ogni film ha un’idea di fondo, un segreto che uno si è detto e che, se funzionasse, il film verrà bene. Ricordo una scena in cui c’era questo lunghissimo piano d’ascolto su Claudio Segaluscio che interpreta il protagonista Ermanno, che doveva reagire a delle battute e mi chiedevo: «Capiranno (gli spettatori) cosa sta pensando?» – perché l’idea del film è quella di stare, per lo meno nella prima parte, nella mente del protagonista, sintonizzandosi sui pensieri. Mi dicevo: «No, concentrati, concentrati, concentrati, se funziona lo capirai dopo.». Ecco, due paure distinte.
CIRO D’EMILIO. Aggiungerei una cosa, Alessio, se parliamo di paura testuale […]. Al primo ciak i ragazzini erano già sul motorino, quando abbiamo scoperto che il protagonista non sapeva guidarlo. L’abbiamo scoperto lì, sul momento, mentre cadeva. Eravamo in strada, a Ponticelli, e c’erano i produttori che hanno tipo sbiancato, quindi abbiamo dovuto trovare mille soluzioni affinché non accadesse di nuovo, reinventando e inserendo delle scene non presenti nel copione. Invece per quel che riguarda il discorso, e concludo, del perché ricordo meno gli entusiasmi delle paure è proprio perché nel processo di gestazione, dalla scrittura alla realizzazione, è passato così tanto tempo che c’è stato l’effetto rullo compressore negli ultimi giorni; siamo entrati in una sorta di vortice: arrivati alla fine delle riprese senza accorgercene, neanche un mese dopo eravamo a Venezia. Un microcosmo di emozioni difficile da interpretare lucidamente. Riguardo al primo corto…Avevi una libertà, se vogliamo, irregolare con i tuoi compagni di viaggio. Non c’erano orari, non c’erano pause, giravi anche 24 ore su 24: era un’esperienza totalizzante, che a vent’anni poteva e doveva essere solo così; almeno dal mio punto di vista.
ALESSIO GALBIATI. Per prepararmi a questa chiacchierata ho rivisto i vostri cortometraggi. Mi è sembrato, per tutti e tre gli ospiti, di vedere una forte connessione con il film che avete realizzato. So che queste cose non sono preordinate. So che quando si inizia a lavorare ad un film, si inizia a capirlo, anche per chi l’ha fatto, nei mesi successivi, negli anni successivi. C’è sempre una dimensione inconscia delle cose che si fanno, che solo il tempo rende chiara. La cosa che mi interessava è questa: quanto c’è del vostro percorso precedente in questo esordio al lungometraggio? Quanto avete messo a punto, sempre ad un livello inconscio e quindi senza saperlo, tutto quello che poi vi sarebbe servito per arrivare ad esordire? Anche da un punto di vista tematico, parlando dell’anima del film. Quanto è stato importante aver esplorato venendo dal cortometraggio?
CIRO D’EMILIO. La domanda è interessante. Per me, la carriera, è un work in progress costante. Chi ha cominciato a cavallo della metà del 2000 vedeva i grandi già inseriti in un sistema industriale, tarato, che era quello del cinema in pellicola. La magia della pellicola ti distaccava completamente non solo dalle tue possibilità ma dalle tue visioni – noi non avevamo gli smartphone, il mondo dei social ancora non esisteva – avevi solo la tua telecamera e quando ci vedevi dentro qualcosa ti soffermavi sulla pasta e non sul contenuto: la magia non c’era perché non eravamo ancora in grado di percepirla; quella patina, ci illudevamo che potesse essere quella. Non posso parlare a nome degli altri, ma ricordo che nell’ambito universitario eravamo sedotti dall’aspetto tecnico e tecnologico – l’uso di certe videocamere piuttosto che di altre, stesso discorso per gli obbiettivi. Ho vissuto quest’onda – per fortuna – durante gli anni di scrittura e di ricerca fondi, senza la quale probabilmente non sarei arrivato così lucido a realizzare il lungometraggio che avevo in mente. A distanza di anni, quando abbiamo rivisto il primo cortometraggio – pieno di tutti i difetti del caso – ho notato molte similitudini col film. Il cortometraggio che partecipò a Corto Dorico era il risultato di un percorso, dove io, in qualche modo, ero stato assorbito da una serie di situazioni. Un mondo esibizionista, a volte coatto, del tipo: Famo vede’ quanto siamo bravi a utilizza’ la pellicola, famo vede’ quanto siamo bravi a usa’ le ottiche ecc. La tecnica, la tecnica, la tecnica… E i contenuti? I contenuti reali? Anche quelli banali non venivano esplorati o quasi. Dal corto sono passati cinque anni e nel mentre ho iniziato a scrivere il film, le prime stesure insieme a Cosimo Garavini – sto parlando del 2013. Dal 2013 al 2017, con l’aiuto di uno sceneggiatore bravo che mi ha fatto entrare nel mondo dei personaggi più che del plot e marchingegni da strutture, ho cominciato a scoprire veramente quello che volevo raccontare. Di conseguenza ho abbandonato quell’atteggiamento, un po’ auto-celebrativo, un po’ esibizionista che aveva reso i corti precedenti quasi sterili rispetto a quello che veramente volevo raccontare, che quando sono arrivato a Piove c’è stata un’illuminazione, durante un temporale: eravamo io e mia moglie in macchina, ci siamo guardati e le ho detto: «Oh cazzo, ho trovato un’idea». In realtà questa si è concretizzata soltanto quando ho conosciuto le attrici, iniziando a lavorare con loro. Non parlo di switch narrativo, quasi da barzelletta, ti faccio vedere A invece è B, si è trattato di entrare nel fulcro di quella che era l’anima, di quello che era il tema del film, che era la felicità e non la prostituzione. Ho definitivamente capito che non è tanto quello che sta sopra a contare, nell’epidermide, ma quello che c’è dietro, oltre. Occorre un grande sforzo, una grande determinazione – a fatica in mezzo alle complessità – per raggiungere la semplicità; quella semplicità che tanto ho ricercato. Oggi tengo a mente quest’idea: voglio raccontare cose semplici. Mi rendo conto che non è facile, le storie sono sempre estremamente complesse, ma questa cosa esime dall’orpello della tecnica; quando parlo con ragazzi che mi chiedono: «Ma tu quanti soldi hai speso?», «Ma che camera avevi?», svio la domanda. Ogni elemento di tecnica e di celebrazione estetica, strettamente legato non alla visione ma al processo, non mi interessa: se abbiamo qualcosa da raccontare, la possiamo raccontare anche dal cellulare; nel senso che, anche in maniera polemica, bisogna entrare nel vivo del racconto. Questa è stata per me l’onda: grazie al fare, grazie all’errore e allo sbaglio, realizzando cortometraggi più riusciti e meno riusciti, mi ha fatto arrivare al film con una nuova consapevolezza, facendo delle scelte coraggiose, quasi estreme; le stesse scelte che accomunano me, Mario e gli altri. Veniamo da un percorso dove ad un certo punto, approdando al film, a costo di spaccarci la testa, abbiamo fatto delle scelte estreme – di punti di vista, di modalità di visione, di sceneggiatura – che alla fine rappresenta noi e dove eravamo in quel cazzo di momento. Questo ci ha aiutato a decifrare la nostra epoca.
MARIO PIREDDA. Durante il processo di costruzione dei miei cortometraggi non stavo pensando al lungo, anche perché lo vedevo come qualcosa di inarrivabile, di difficile, di lontano: non mi sentivo pronto. Tant’è che quando mi chiamò Articulture, la casa di produzione con cui ho fatto sia A casa mia che il lungometraggio, mi chiamò Ivan Olgiati dicendo: «Ciao Mario, senti mi piacerebbe sviluppare un lungometraggio con te», e io risposi: «Guarda, non mi sento pronto, per cui se vuoi ho la sceneggiatura di un corto che forse non riuscirò mai a fare, se vuoi produrlo»; così è nato A casa mia. Però durante la lavorazione dei cortometraggi non stavo pensando ad un punto d’arrivo, era nel mio interesse tentare di raccontare nella maniera più sincera possibile quello che avevo dentro. Invece quando ho finito di girare il lungo e sono entrato in sala di montaggio, il montatore, che era lo stesso degli altri cortometraggi – e io ci tenevo particolarmente a fare il lungometraggio con tutte le persone che avevano già lavorato con me nelle precedenti produzioni, la vedevo come una carovana alla costante ricerca di qualcosa – guardando le immagini mi disse: «Ecco, l’inquadratura è di questo corto, quest’altra inquadratura è di questo corto, questo dialogo lo hai preso da qui, questo è preso da questo», ecc. Lì mi accorsi che, in maniera inconscia, avevo creato, nel lungo, il sunto di tutti i lavori precedenti; sia per quanto riguarda l’aspetto tecnico, che mi interessava fino ad un certo punto, che per l’aspetto, per così dire, romantico, tematico. Avevo realizzato un lungometraggio a mo’ di puzzle con tutti i vecchi lavori – che sono diversi tra loro, uno girato a Cuba, all’Havana e l’altro in Sardegna, in uno è protagonista un ragazzino e nell’altro degli anziani. Questa è stata la vera scoperta per me.
CARLO SIRONI. Per me i corti sono stati assolutamente fondamentali, formativi. Uno se guarda alla filmografia degli autori passati si rende conto che i lungometraggi avevano un altro peso, i primi film non avevano lo stesso peso che hanno oggi. Una volta si capiva dalle prime opere se si era adatti o meno al ruolo di regista, la palestra era all’interno di un discorso industriale e la si praticava lavorando direttamente al lungometraggio. Tantissimi autori che noi consideriamo dei maestri hanno iniziato facendo film anche per capire se erano in grado di farli; adesso sembra strano da dire, ma era diverso il meccanismo. Per noi è stato lo stesso con il cortometraggio perché, come dicevano Ciro e Mario, c’era un’urgenza non tanto di raccontare, ma di sapere se uno era capace. Io la ricordo questa sensazione. Mi dicevo, ancor prima di realizzare il primo corto: «Vabbè, se non viene bene non continuo», perché devo provare a far qualcosa di cui non mi reputo in grado? Mi rendo conto, ora che parlavate, che mettendo in fila i tre cortometraggi di finzione che ho girato, e appena terminata la scrittura del secondo lungometraggio, di esser tornato nel mondo del mio primo corto; a raccontare l’adolescenza […], ovviamente in un modo completamente diverso, filtrato sotto alcuni punti di vista, con un altro linguaggio: come il killer che torna sulla scena del crimine. Sofia è molto differente dai precedenti due cortometraggi che, se vogliamo, invece portano a Sole. Uno vede nelle proprie opere un lavoro sulle ossessioni personali. Il lungometraggio ci permette di esplorare, affinare il linguaggio: non amo la parola tema, penso che sia un termine riduttivo, quando parliamo di cinema. Quando mi dicono le tematiche del film, rispondo che il film non ha tematiche; per me un film ha un linguaggio tutto suo con cui raccontare e raccontarsi. Ciò che ti permette di fare il cortometraggio è questo: avere la libertà di capire il cinema che stai facendo. Ripeto, per me sono stati assolutamente formativi. Se penso a Valparaiso, il cortometraggio prima di Sole, riconosco i vasi comunicanti tra i due.
ALESSIO GALBIATI. Sarei tentato di coinvolgere Daniele come regista. La tua esperienza, il tuo percorso […], vabbè, lo conosciamo tutti, però anche per te: com’è stato lavorare al primo lungometraggio che hai realizzato con Franco Maresco?
DANIELE CIPRÌ. Ascoltando loro tre ricordo il mio passato. Ricordo il mio primo cortometraggio, lo ricordo come se fosse ieri, si chiamava Pasta e patate, un film girato in una scala con uno che portava la notizia che una signora era morta perché era scivolata su una buccia di patata. Quindi era un piano sequenza, allora fatto di personaggi, quelli che mi accompagnavano in quel mondo meraviglioso che abbiamo descritto insieme a Maresco. Però me lo ricordo come se fosse ieri… Mi riferisco proprio al fatto che il mio primo corto è stato tutto il mio cinema. I personaggi dovevano essere professionisti e non, però dovevano essere contaminati, il mondo doveva essere raccontato in un luogo senza tempo, e quindi tutta una serie di cifre che sono venute dalla sperimentazione e dall’indipendenza, che ci ha portati poi, Maresco e me, anche in tv, con Cinico TV. Parlo di quell’indipendenza che ti fa costruire un tuo immaginario. E questo è fondamentale. Quando io sono venuto a fare il direttore artistico di Corto Dorico mi è piaciuta moltissimo l’idea di fare Salto in lungo proprio perché secondo me il curriculum è improponibile, io (e anche loro tre immagino) ho una vastità di corti, di cose messe da parte, di cose che riprenderai un giorno… Addirittura ho fatto uno spettacolo strutturato in sei film, sei finestre dove raccontavo dei personaggi e sono sei film che non farò mai. Così ho raccontato in teatro dei film che non farò mai! E sono tutte esercitazioni, delle provocazioni che un autore deve stabilire nel suo percorso. Ho avuto una relazione con questo mestiere che poi per me non era neanche pensabile: io vengo da Palermo, non c’era neanche il cinema, avevamo avuto la Trinacria, avevamo il cinema ma negli anni ’50. Io non ho mai visto un set nella mia vita, non avevo scuole di cinema, l’unica cosa che rimaneva era quello che oggi facciamo con Corto Dorico, il lavorare con gli esordienti. Tra un po’ parto per fare un cortometraggio con una ragazza a Bari, per dire. Io ho questo rapporto continuo con il poter cambiare, o perlomeno aiutare, un cinema che comunque deve essere ancora fatto. Secondo me adesso c’è confusione, non voglio entrare nella polemica, ma quello che stiamo ascoltando stasera per me è una goduria! Nel senso che io desidero il cinema che comunque è pensato da un essere che sta male e ha l’esigenza di raccontare delle storie. Non voglio il cinema calcolato. Il cinema calcolato è proprio orrendo, io ci lavoro pure in queste operazioni terribili, però mi rendo conto che nell’indipendenza e nel cortometraggio c’è una scuola di te stesso nei confronti di quello che dovrai raccontare. Immagino che il cinema sia una tavolozza, in cui tu devi raccontare storie, emozionare, fare immagini che devono stare assieme alle storie, la macchina non va per i fatti suoi, quindi tutte le situazioni che comunque scopri nella sperimentazione con te stesso. Facendo corti, anche medi, con Franco (Maresco) abbiamo fatto dei film muti con un musicista che poi faceva la musica. C’era anche un modo, che poi divenne la malattia di Vertov, l’operatore di L’Atalante, tutte queste ossessioni. La grande conoscenza del cinema è, come dice Roman Polanski, non fare mai paragoni con le tue immagini come se avessi inventato qualcosa: il cinema è già stato fatto. Noi abbiamo un’opportunità, una grande arte, in questa settima arte tanto è stato raccontato, da Truffaut a Kieslowski, tutti coloro che ci hanno dato qualcosa. Se noi qui oggi parliamo di cinema è perché c’è stato un artigianato del cinema, c’è stata gente che ha sofferto quello che ora soffriamo noi, e oggi ancora di più perché non abbiamo le sale. Io mi riferivo a quelli, andavo avanti perché li onoravo e li ho sempre evocati nei miei film, come diceva appunto Polanski, spiegando che non ha mai fatto un’immagine originale nel suo cinema, una cosa che mi ha impressionato, ho pensato: «Questo ha capito tutto». Noi dobbiamo stabilire un rapporto con lo spettatore, che deve essere catturato, lo devi catturare attraverso quello che oggi anche loro tre hanno raccontato. Io ho visto i loro film e mi hanno preso tantissimo. Tutto ciò viene da un lavoro che è simile a quello che ho fatto io. Io sono stato più fortunato in quanto io mi inventai di arrivare in tv. Perché io facevo il mio primo film in tv: Cinico TV è stato il mio primo film. Quando abbiamo fatto l’opera prima per me era già il quarto film! E poi che opera prima: una riflessione sul cinema, una riflessione su noi stessi, un puntare il dito contro lo spettatore, quella è la mia opera prima. Io non mi fermo al raccontare una storia, ci sono riuscito forse con il film È stato il figlio, però non è il mio modo di rapportarmi con il cinema. Io preferisco evocare il cinema, fare un film dove viaggi e ricordi qualcosa, qualcuno. C’è il pretesto della storia, come diceva Carlo, per poi far viaggiare lo spettatore. Quindi è simile il mio percorso, cambia la tecnologia sicuramente, sentivo parlare di macchine che avevano otturatori che simulavano il progressivo e che ci facevano soffrire, io usavo l’interlacciato, poi mi dicevano: «Ma lei ha girato in pellicola?». Manco rispondevo, non mi fregava di come era stato girato, però sicuramente avevo nella disperazione un tentativo di sperimentazione, cercavo di fare cose che comunque non somigliavano a quello che c’era. E allora forse questo cinema d’autore si può risvegliare con il cinema breve: il cinema breve è la forza del nostro cinema. Ormai l’indipendenza non ha a che fare con nessuno, certo non puoi tirar fuori i soldi di tasca tua, hai dei finanziamenti sicuramente, però non c’è qualcuno che decide per te, quello è il terrore che ho. Il fatto che si accettino determinate condizioni che non ti portano a diventare qualcosa, non qualcuno, perché qualcuno lo diventerai, ma qualcosa, con un principio, con un carattere. Nei loro tre film ho visto questo: ho visto tre persone che hanno mantenuto il tipo di mood che avevano anche nei corti, in maniera diversa ovviamente, ma tutti lo hanno mantenuto. Io spero che questo succeda ancora, ci saranno altri Ciprì e Maresco, spero! Se Netflix permette.
ALESSIO GALBIATI. C’è però un aspetto… Prima Ciro faceva un discorso che in realtà avete toccato tutti quanti. Voi siete tutti e tre nati negli anni ’80, si faceva un discorso molto interessante sul passaggio della tecnologia, la tecnologia dentro al cinema. Le macchine da presa e la tecnologia negli ultimi tre decenni sono mutate in continuazione e molto velocemente. Credo che per ognuno di voi andare a rivedere il proprio esordio sia come fare un tuffo indietro a formati diversi, risoluzioni diverse e quant’altro. Questo è molto interessante perché nel cinema fondamentalmente per poco meno di un secolo la tecnologia è rimasta quella, sono arrivati dei miglioramenti, ma la tecnica era sempre la stessa. Oggi ci troviamo in una battaglia micidiale con il digitale, che ultimamente trova il suo massimo in questo periodo pandemico. Il digitale entra nel rapporto con gli spettatori e con gli spazi del cinema. Oggi i film arrivano direttamente in casa, in questi mesi specialmente, con le sale letteralmente chiuse. Siamo una generazione che deve iniziare a farsi delle domande su questo tema, come sarà il cinema nei prossimi dieci anni? Ovvero, l’impegno che ognuno di noi mette dentro questo linguaggio lo troverà ancora un pubblico dall’altra parte? Quali mutamenti sono in atto? La domanda è: voi come la vedete questa professione e questo linguaggio che è la nostra passione proiettato da qui a qualche anno? Dove li distribuiremo i film che facciamo e, soprattutto, dove lo troviamo un pubblico in grado di reggere un discorso che si struttura su un’ora e mezza o due ore di durata?
CIRO D’EMILIO. Guarda, è ovvio che in quest’anno passato c’è stato un acceleratore impressionante, da un giorno all’altro l’industria si è dovuta rapportare ad un livello di sopravvivenza tale che tutte quelle preoccupazioni che in passato facevano porre la fantastica domanda del cavolo: «Il cinema morirà? Il cinema è morto? Non è morto? Le piattaforme ammazzeranno il cinema?» (tutta una serie di cose che spaventavano la riflessione sulla risposta figuriamoci una vera e propria risposta), hanno trovato una risposta necessaria, le sale erano chiuse e il sistema doveva andare avanti e quindi i film sono ben prima della sala finiti nelle piattaforme. Ora sinceramente, raccogliendo l’emozione percepita nelle parole di Daniele, sempre magico nel senso concreto del termine, alla fine io sono tra quelli che pensano che la sala non morirà mai. Al di là dei meccanismi, del fatto che le sale un domani saranno gestite da altre entità, che i film arriveranno da altre entità che non sono gli agenti di zona, al di là di come la vogliamo girare, credo che finché noi saremo umani il cinema esisterà. In quanto animali emotivi e diversi, dove la diversità è un valore inesauribile, nel cinema troviamo quel luogo specifico che ci permette di dividere emozioni con degli sconosciuti, piangere, ridere, fare anche cose estranianti in un luogo insieme a degli sconosciuti che ti stanno anche a meno di un metro di distanza. È una cosa bellissima che sul divano di casa non potrai mai provare, a meno che non fai una comune, che pure è una cosa possibile… Penso che il cinema non morirà mai in quanto luogo di condivisione emotiva con l’altro, lo sconosciuto, il prossimo. Potranno trasformarlo a livello di cornice in mille modalità, ma questa cosa è umana e in finché sarà tale non morirà mai. Poi dietro c’è un discorso politico e organizzativo che fa sì che ci siano sempre le sale, ma il cinema, a differenza del salotto, è il cinema. Bisogna chiamare le cose come sono: il salotto non sarà mai un cinema.
ALESSIO GALBIATI. Magari ora lo incasino ancora di più questo discorso. Mario, tu come lo percepisci il pubblico? Il linguaggio cinematografico è impostato per chi lo guarderà, per chi è dall’altra parte? Io, che scrivo per il cinema, ho a volte la paura che il mio gusto sia basato su una certa cultura cinematografica, ho l’impressione che tenda a scomparire quella roba lì, nelle nuove generazioni soprattutto. Ho terrore che non ci sarà più tra un po’ una platea che possa capire un certo modo di fare cinema.
MARIO PIREDDA. Devo dire che è un problema che non mi riguarda perché anch’io morirò, saranno problemi delle nuove generazioni… A parte gli scherzi, sono d’accordo con Ciro sul fatto che il cinema in quanto arte non morirà. Prendiamo la musica ad esempio, è morto il vinile ma la musica non muore, così il cinema (tra l’altro il vinile sta tornando di moda ultimamente). In realtà non mi pongo questo problema, se domani avremo un pubblico e quindi come potrò raccontare questa storia per far sì che quel tipo di pubblico sia interessato a quello che sto raccontando. Caso mai vale il contrario. Io racconto delle storie, se c’è (spero) un pubblico che segue quello che ho raccontato sono contento. Non so se sia anche un po’ la morte di un autore, pensare a che tipo di racconto o struttura o tendenza cinematografica c’è in questo momento. Non voglio seguire una moda o una tendenza per cercare lo spettatore. Spero e mi auguro che lo spettatore si faccia trasportare da quello che sto raccontando. Non può essere assoluta questa cosa logicamente, nel senso che anche adesso ci saranno su 100 persone 50 che amano quello che faccio e altre 50 che mi odiano. Credo che questa cosa sarà sempre uguale e non cambierà, mi auguro.
CARLO SIRONI. Io in realtà mi lego a quanto ha detto Daniele per fare un appunto su questo. Credo che ci sia un motivo per cui hai visto una coerenza nel nostro passaggio al lungometraggio, parlo per me ma mi permetto di dirlo anche per Mario e per Ciro. La cosa importante secondo me è che dietro quei film ci sono dei produttori che hanno fatto un certo ragionamento. Io ringrazio sempre Giovanni (Pompili, di Kino produzioni) con cui ho prodotto i corti, ma credo che la cosa importante sia che tante teste producano cose diverse. Può sembrare scontato, no? In realtà il coraggio di chi decide di produrre cinema è fondamentale. Io credo che proprio in questo momento di trasformazione più che di crisi, avere una grande mente o più menti che decidano cosa produrre è fondamentale. Questo deve rimanere: produrre cinema rispetto a produrre solo con determinati altri player, determina varie menti dietro ogni progetto, questa è la cosa importante, oltre alle menti dei registi. Riguardo l’altro discorso, io credo che il pubblico si crea e non si educa (termine brutto perché non li stiamo mandando a scuola), dando la possibilità di scegliere. Il mio film in Francia è stato in programmazione il triplo rispetto all’Italia, perché quel tipo di film è più distribuito e il pubblico lo ha amato di più ed è stato più in sala. Si tratta a questo punto, in una fase di crisi o trasformazione, di cambiare qualcosa nel modello distributivo ed economico. Dall’altra parte, cosa che ci riguarda, è importante fare della curatela. Ora è molto più facile per noi ottenere i diritti per fare vedere al cinema film di filmografie lontane, prima era impossibile. Quanto era impossibile trovare film di Edward Yang, Tsai Ming-liang, Hou Hsiao-hsien… Adesso sarebbe facilissimo mostrarli nelle sale, semplicemente bisogna fare un vero lavoro di curatela. Dovremmo mostrare nei posti giusti, presentati bene i film validi e con un sistema economico però aggiornato. È sempre così, quando ti mostrano un’opera d’arte alcuni cascano nella tana del Bianconiglio e si trovano in un posto meraviglioso. Se noi mostriamo dei bei film a delle persone alcuni diventeranno dei cinefili e andranno al cinema tutta la vita, questa è la mia idea, che non credo sia troppo romantica d’altronde.
CIRO D’EMILIO. Io voglio aggiungere una cosa riguardo a quello che diceva Carlo. Secondo me è un’immagine lucida quella che fa Carlo, io penso che la figura del produttore sempre di più deve assumere un’importanza e una rilevanza fondamentale, non per metterlo su un piedistallo o per celebrarlo, ma per sottolineare quello che deve essere la grande capacità di un produttore, che probabilmente è stata nel loro piccolo la capacità del mio o del produttore di Carlo o del produttore di Mario, cioè trovare al di là della libertà autoriale che concede – perché fonte di espressione altrimenti sarebbe morte – la perspicacia. Perché secondo me quello che manca spesso è la perspicacia di guardare già quel film, la perspicacia di intercettare già quella visione, e riconoscere in quella visione al di là della magia personale che ti fa essere più originale, ti fa evocare, come diceva Daniele. Ma la perspicacia nella misura in cui, visto che poi ci devono essere degli investimenti… Quello che è il rischio d’impresa in tutto l’ambito creativo cinematografico, non può esimersi da una grande perspicacia rispetto la visione di quell’autore di quella storia di capire cosa c’è dietro quel testo, dietro quella testa di quell’autore; perché al di là di quella libertà espressiva che lui dovrà necessariamente metterci dentro c’è qualcosa di universale che alla fine emozionerà quanto più pubblico possibile. Io penso, e lo dico anche per Mario e per Carlo, perché mi è capitato anche rispetto i loro film, che noi al di là del numero X di sale che abbiamo avuto in Italia, 10, 15, 20 o 31, quello che è, quando abbiamo portato i nostri film nei cineforum in giro per l’Italia in qualunque bettola, in qualunque posto dove io almeno sono onorato di essere stato – per non parlare dell’estero, ma basterebbe parlare dell’Italia. Corto Dorico è uno dei tanti luoghi, per esempio, che ci ha ospitati e le sale erano piene! La gente i nostri film li ha visti!
CARLO SIRONI. Quando io dico la curatela, non dico una parola strana…
CIRO D’EMILIO. Perciò mi sono legato al tuo discorso. Perché il pubblico che ha amato i nostri film, per alcuni era un pubblico che non avrebbe mai pagato il biglietto per andare a vedere i nostri film, invece magari è stato portato ad andare… O come nel caso del Corto Dorico dove avete fatto per tanti anni un lavoro di educazione straordinaria del vostro pubblico. Io mi ricordo ancora la sala piena durante le proiezioni di cortometraggi, dove in Italia mi è capitato di vederlo poco, ma veramente poco, e continuo ad amare il vostro festival anche per questo. Quello che hanno fatto i circoli culturali i cineforum dove a un certo punto onde di appassionati hanno riempito le sale perché sono curiosi, sono curiosi di vedere fare un film che se pure non gli piace gli ha mosso una curiosità, gli ha mosso uno stupore, non vanno lì per essere accontentati, vanno lì per essere stupiti, anche per essere delusi… Ma la delusione è già uno stupore, non sono stati indifferenti: quindi se dobbiamo andare alla radice di tutto questo chi deve combattere con noi, per noi, e non contro di noi, i produttori oggi, quelli bravi, quelli che riescono a fare queste operazioni, sono produttori perspicaci, cioè hanno dentro una visione che neanche noi autori che la stiamo producendo vediamo già. Magari non la sanno decodificare, ma sentono che c’è una visione e che ci sono dei sentimenti universali che al di là della differenza di ognuno di noi colpiranno in bene o in male uno spettatore.
CARLO SIRONI. Se tu non vedi il bel cinema entro una certa età, è come se tu perdessi un appuntamento con te stesso nella vita, se poi ami il cinema… Questo secondo me è un ragionamento che è fondamentale che venga fatto da chi se ne deve occupare.
DANIELE CIPRÌ. Infatti in Francia esiste nelle scuole, credo elementari, l’accompagnamento al cinema.
CARLO SIRONI. Si chiama educazione all’immagine.
DANIELE CIPRÌ. Lo facevamo a Palermo al nostro cinema. E non venivano solo i ragazzini, era anche per i grandi, perché il cinema va visto al cinema insieme agli altri: non è il grande schermo, ma è vedere e condividere una storia; fra l’altro per noi, e mi ricollego a quello che diceva Alessio, il regista vuole sentire la gente in sala, e l’emozione in sala… Ce l’ha insegnato Hitchcock… Fra l’altro c’è Il cattivo poeta che deve uscire e proprio sta resistendo finché non esce in sala, perché è un’opera prima che vuole uscire in sala, vuole come il teatro avere la gente, non l’auditel, io sono nato con l’auditel, era di una tristezza infinita, io non sapevo mai chi cazzo vedeva le mie cose, cioè sentivo numeri: 40, 70, 54… Il cinema è un lavoro che fai per la gente. Il regista deve sentire l’emozione come un musicista, il musicista quando fa un concerto, se non ha la gente, che concerto è? Non esiste. La settima arte è nata per vedere insieme, e questo ce l’ha insegnato anche il passato. Quindi, ben vengano le piattaforme che, producano ma attenzione. Non so se lo sapete ma Netflix, in America, ha già aperto sale. Fuori onda dicevamo che magari ci saranno gli zombi che apriranno le sale, ma chi le apre le sale? Ché io quando andavo al cineclub, non potevo pagare a quello che faceva la pulizia cioè… E io ero io e altre tre persone. Un cinema, e voi lo sapete, ha bisogno veramente di tanto sostegno… I teatri, gli stabili, ce la faranno, hanno i sostegni, ma i cinema quelli – per lo meno privati, gli editori, i piccoli editori – faranno molta fatica, e sempre con delle condizioni. Io me lo auguro che ad aprile questo vaccino funzioni perché veramente noi ne abbiamo il bisogno, sentiamo il bisogno di avere la gente davanti e dire: «Questo film è bello», «Questo film è brutto», «Mah, sai, avrei fatto questo», anche quelle cose che ti portano poi a fare altro.
CARLO SIRONI. Io soprattutto sento il bisogno come spettatore di tornare in sala.
DANIELE CIPRÌ. In pellicola! Facciamo i film in pellicola! Lo sai quale sarebbe il modo migliore per riaprire? Come spettacolo, lo spettacolo non sono i bombardamenti, quelli che fanno gli inseguimenti, lo spettacolo è ormai l’emozione di uscire da un tubo, non è più il tubo catodico, da uno schermo che sia quello che noi abbiamo al cinema, e andare a vedere un evento visivo, guardando una storia. Io ti faccio un esempio: quando io vedevo i trailer con tubo catodico, quello quadrato quattro pezzi, al cinema era un’altra cosa, e quando andavo al cinema avevo un’altra emozione. Io oggi vado a vedere un trailer nel telefonino o nel televisore, ed è la stessa cosa che vado a vedere al cinema, quindi non ti porta neanche quello al cinema. Allora dobbiamo accompagnarli, facciamo gli eventi, gli eventi con la chimica, adesso c’è tanta gente che sta tornando a quell’immaginario. Attenzione, puoi lavorare anche col digitale, io non sono contro il digitale, però è l’evento che dobbiamo ottenere, fare un evento. Il cinema d’autore. Secondo me i cineclub oggi dovrebbero riaprire, riaprire facendo uno sforzo. Come diceva Ciro, perché i produttori non si preoccupano di questo? Si occupano di cose che non servono a niente, di cose che servono soltanto a fargli comprare gli appartamenti… Perché quello fanno. Devono investire su questa generazione che già soffrirà per i debiti che stiamo facendo col governo, poi in più ci metti che non hanno più il cinema, che non hanno produttori che pensano a fare il cinema, perché il problema è che non pensano più a fare il cinema, ce ne sono pochissimi ormai e io li conosco tutti e ce ne sono pochi e fanno una fatica immane perché poi si confrontano con voi e con me, perché anche io sono un giovane autore, attenzione, io non sono uscito fuori da questo meccanismo, io faccio il cinema d’autore: allora questi produttori dovrebbero preoccuparsi anche di questo, aprire i cineclub, accompagnare i giovani, portarli nelle sale, andare per le scuole. Lo sapete quante scuole faccio io? Ne faccio una marea! Faccio il docente ospite, faccio la RUFA, il centro sperimentale, ma perché? Perché sono preoccupato di non avere più un pubblico, questa è la verità: e Corto Dorico, è un esempio, perché Corto Dorico è un festival… Io, quando abbiamo portato Ruggero Deodato, mi riferisco a Ciro, Ruggero Deodato mi ha abbracciato, si è messo a piangere, perché ha visto 800 persone in sala…
CIRO D’EMILIO. Per non dimenticare le nostre emozioni stavamo lì all’hotel fino alle tre di notte a farci raccontare tutte le storie di Deodato, che ci raccontava che come finiva un film ne iniziava un altro, lo trasportavano sulla Route 66 e lui non sapeva manco dove stava andando.
DANIELE CIPRÌ. Fra l’altro era il cineasta che seguivo meno in assoluto. Non vedevo i suoi film perché non mi emozionava, però sicuramente lo stimo, lo rispetto, ed è stato un onore averlo… Fra l’altro, anche lui ci ha ringraziato in modo… È proprio quello che stavo raccontando, è stata davvero un’emozione vedere tanti giovani in sala che non vedeva da secoli. Lui viene da un cinema che ha fatto fatica, anni fa: anni ’70, anni ’80, Antonio Margheriti, quel cinema che non vedeva nessuno… Grandi appassionati di cinema. Io li conoscevo tutti, ne ho avuto la fortuna.
CARLO SIRONI. Che Tarantino vedeva evidentemente!
CIRO D’EMILIO. Un grande ammiratore di Ruggero Deodato, si è inchinato quando l’ha conosciuto, è vero, l’ha detta questa cosa. Io mi ricordo esattamente come fosse ieri: l’entrata nella sala di Ancona, alla Mole, quell’anno avremmo fatto più di 80, 90 festival… Ora, non lo dico perché siamo qui, ma l’ho sempre detto e gli amici di Corto Dorico lo sanno: è stata una cosa impressionante.
DANIELE CIPRÌ. Gregoretti. Tu Ciro non c’eri quell’anno. Straordinario, lui faceva fatica perché stava pure male […]. Quando è venuto in sala, un’altra emozione, perché giustamente tu dopo anni vedi una partecipazione come quella, così grande – questi sono gli eventi che ti accompagnano –, e non vanno a vedere un film solo, ne vanno a vedere tanti, alcuni sono pure parenti e amici però, c’era tanta gente, tanti paganti, tanta gente che va a vedere tanti film. Ecco: una sala dei film brevi, io la farei. Una sala del cinema breve. E leviamo queste serie, che durano dodici ore per raccontare un uomo, ma basta! Belle immagini, hanno stancato le immagini: tappiamo l’obbiettivo, raccontiamo immaginando. È una provocazione, nel senso che secondo me l’errore è valutare oggi la serialità, ma non tanto per la qualità, perché la qualità ce l’ha, ma il problema è che io non mi emoziono perché perdo il punto di vista. Nella brevità di un cortometraggio, che so, il primo cortometraggio di Scorsese oppure, anche i film diventano cortometraggi, perché se tu mi vedi Taxi Driver non te lo scordi più, perché dura un’ora e trenta, un’ora e quaranta, e quel personaggio te lo porterai per tutta la vita. Io non mi ricordo più della Regina degli scacchi (serie tv prodotta da Netflix ndr.), mi posso ricordare di lei, ma non mi posso ricordare del film, perché il film, talmente sgangherato… Poi li pressano gli sceneggiatori, perché tanto faccio le immagini e poverini i registi sono condannati a morire perché non hanno via di scampo, perché devono fare un film che dura 12 ore. Allora tu lo dichiari: voglio fare un film di 12 ore, alla Michael Cimino che voleva fare un film eterno, anche Coppola aveva un progetto del genere… Ma sicuramente non saranno questi. Questi sono film calcolati. E allora noi lo dobbiamo dire, dobbiamo dire a loro – non li cito più: «Ragazzi, facciamo le cose serie». Prendiamo i grandi scrittori, prendiamo Basile, facciamo delle storie diverse, ma basta guardare per 12 ore una drogata, un ortodosso, ma basta, fallo in un’ora e mezza.
CIRO D’EMILIO. Rispetto questa cosa io, ad esempio, vado anche io con i giovani in Accademia, negli ultimi anni ho notato che si fa molta confusione sul discorso qualità estetica e della visione o drammaturgica, perché i ragazzi, mi lego alla necessità della curatela che diceva Carlo, vedono un botto di serie televisive e pochi film. I giovanissimi, se inizio a parlare di film, ne sanno molto meno di quanto già noi a 18 anni sapevamo. Questa cosa è sempre più bella e sempre più vuota. Che è un po’ quello che succede spesso ai cortometraggi. Nelle cose nostre dell’epoca, proprio perché erano brutte – dietro le quali non ci dobbiamo nascondere, parlo del piano strettamente visuale –, andavamo a cercare dietro delle cose per evocare delle emozioni, oggi che con il digitale. con due tre amici riesci a fare una cosa che è visivamente e fotograficamente perfetta, spendendo un euro – che per noi 15 anni fa era impossibile –, poi tu ti preoccupi che quello è il risultato, non vai a vedere il processo che c’è dietro. Parlando con qualche collega, dicevamo che andare ai festival dei cortometraggi raramente è interessante: sono tutti belli e tutti vuoti, infatti, questo anche quando parlavamo nel dopofestival di Ancona con i ragazzi di Corto Dorico. Vedevo il fatto che a loro non gliene fregava una mazza che fosse bello e confezionato, a noi non piace. Qui non si accede se non racconti davvero qualcosa.
DANIELE CIPRÌ. Mi piace fare questa riflessione con voi. Ripeto, io sono giovane quanto voi, e mi reputo uno che ancora deve fare centomila cose, sperando che sopravvivo, però sicuramente questa cosa mi fa soffrire tanto, questa riflessione che stiamo facendo, perché mi fa soffrire come autore insieme a voi che voglio la sala, desidero la sala… Anche perché io prendo in considerazione il teatro: il teatro per me è fondamentale, nel senso che il teatro non può riaprire mentre noi continuiamo a lavorare con queste piattaforme ed è una sofferenza, perché il teatro ha bisogno del pubblico e la stessa cosa secondo me dobbiamo pensare noi perché il cinema non debba morire, nel senso, la sala non debba morire. Non deve morire assolutamente, deve rinascere in un altro modo, sicuramente in altre formule. Ci possono aiutare anche i critici cinematografici a fare una cosa del genere, cioè a riaprire una rielaborazione del cinema attraverso anche film vecchi come diceva Carlo, evocando il cinema, anche perché non lo evochi a nessuno… Che evochi? Questi non hanno visto niente.
MARIO PIREDDA. Starei a sentirvi ore. Sono contento di sentire le parole di Daniele quando dice: «Non mi ricordo una serie». Pensavo fosse un problema mio, invece vedo che c’è. Ci sono altre persone che non se le ricordano. Cioè, nella mia mente vanno via subito, e magari vedo un film visto al cinema quindici anni fa da solo con la sala anche mezza vuota, però mi ricordo tutto il film e questa cosa qua è pazzesca. Me lo chiedo come mai, che cos’è, non riesco a darmi una risposta. Forse Daniele parzialmente me l’ha data […]. Comunque sono venuti fuori tre temi: primo, dobbiamo scrivere al ministro per chiedere educazione all’immagine a scuola; secondo, riaprire cineclub e sale; e poi, il terzo?
CIRO D’EMILIO. Andare tutti in Francia!
DANIELE CIPRÌ. Se ne accorgeranno loro stessi di cosa stanno combinando, perché non c’è solo questo aspetto, ce ne sono altri: ci sono i suicidi, c’è internet attraverso formule nuove che io non conoscevo, sono venuto a conoscenza di queste cose, ci ho girato pure un film con un giovane autore che ha partecipato pure a Corto Dorico… Ma ci sono delle preoccupazione serie: fortunatamente mio figlio fa il conservatorio perché l’ha scelto lui, ma ci sono dei giovani che non sanno dove andare perché i genitori di questi ragazzi sono quelli che vedevano Vacanze di Natale (attenzione, non significa che bisogna essere intellettuali, perché io non sono un intellettuale, sono uno che ha visto cinema) e non hanno la guida della nostra settima arte. In più ci metti pure che si stanno annoiando… C’è la nuova Arancia Meccanica. Kubrick, genio come sempre, ha anticipato quello che sta succedendo. Prima c’era l’apparire, ora c’è la sfida, c’è il gioco, e quindi ancora peggio… Parlano solo di riaprire la scuola, ma riapriamole bene queste scuole! Cercare di non fare solo la base, ma insegnare la vita. Io avevo le chiavi di casa a 12 anni, questi ora hanno paura di dare le chiavi di casa a un figlio perché c’è di tutto e di più… Io avrei pure il terrore. Quindi questo è un segno dei nostri tempi ed è la nuova Arancia Meccanica. Vi ricordate il film? E chi è che non se lo ricorda? La noia porta alla violenza.
CIRO D’EMILIO. L’ultraviolenza.
DANIELE CIPRÌ. L’ultraviolenza. Ora violentano loro stessi, sono pure masochisti!
Il presente dialogo è una parziale riscrittura dell’incontro, che trovate completo qui.
Per le bio dei registi si rimanda alla pagina di Corto Dorico dedicata all’incontro.