Passare per la ferita. La consegna delle braci di Giorgiomaria Cornelio ⥀ La Punta della Lingua 2022
In occasione della presentazione della raccolta di poesie La consegna delle braci (Sossella, 2021) di Giorgiomaria Cornelio per il festival La Punta della Lingua il 3 giugno 2022 a Macerata, una breve analisi del libro che sottolinea come dal pensiero giudaico-cristiano medievale si giunga a una lettura dell’apocalissi attuale
Codici miniati, sante in epigrafe, detti rabbinici: l’immaginario di Giorgiomaria Cornelio si abbevera innanzitutto alle fonti del pensiero giudaico-cristiano per trarne una serie di simboli ambivalenti. L’incompiutezza invita, restando incompiuta, alla compiutezza. La ferita, restando ferita, invita alla guarigione. La tradizione a cui si richiama esplicitamente l’autore è quella del simbolismo, da Arthur Rimbaud a René Char, e della poesia dell’avanguardia del secondo Novecento, da Emilio Villa a Corrado Costa, con l’adozione di dislocazioni tipografiche, risalenti a Mallarmé, e di stilemi espressionisti, già impiegati dai poeti della «Voce». Cornelio usa volentieri, come Rebora e Sbarbaro, verbi stirati dai prefissi: «sconosce», «schiudesse», «sghiaccia», «scrocia», «inforestata», «sgomitola», «addormiti», «dissabbia», ecc., con i probabili hapax «infussa», «odumbrare», «individe».
La sua è la poetica della stortura (nel 2020 ha intitolato La specie storta il festival I fumi della fornace, da lui organizzato con l‘associazione Congerie). La sua musica si fonda sull’«accordo adunco», sull’«andare di scosse», «un venire a comporre il dissenso». Il suo stile è contraddistinto da un plurilinguismo petroso. L’orizzonte a cui punta il suo sguardo è una trama di corrispondenze che deforma la relazione dell’ordine microcosmico con l’ordine macrocosmico in quella della specie storta con la stortura del mondo. Il rischio, però, è la turris eburnea, la torre d’avorio: Cornelio non esita a ritrarsi nella formulazione criptica, che potrebbe apparire fine a se stessa. Un componimento che ha per protagonista la mistica cistercense Gertrude di Helfta si conclude così: «occorre impuntare l’eclissi / nel telaio oculare / per fissare la febbre / di questa separatezza». Impuntare è un verbo intransitivo che non ammette complemento oggetto, quindi «impuntare l’eclissi» è un’espressione al di fuori della langue, è un’espressione de-lirante, che esce dal solco della lingua condivisa. «Impuntare l’eclissi / nel telaio oculare» può significare qualsiasi cosa, quindi potrebbe anche non significare nulla, essere solo un bel gioco di parole. È una mistificazione del linguaggio, invece che autentico misticismo?
Alla base della mistica cristiana dovrebbe esserci l’identificazione con Cristo, quindi con la follia della croce, ma, per quanto sia folle, agli occhi dei savi, abbracciare la croce, soprattutto se si è Dio onnipotente, la follia della croce non è flatus vocis: il significato è chiaro – sacrificarsi, nell’ottica della religione ebraica che condannava l’umanità al peccato originale, per lavare nel sangue di se stesso, Dio vivente, quel peccato, per salvare l’umanità che crede in quel Dio. Forse Cornelio vuol denunciare la vacuità della mistica che si riduce a pura vita contemplativa, la mistica non sorretta dalla vita attiva? La «febbre della separatezza» è l’alienazione a cui si sottopone chi cede al delirio mistico inattivo? Essendo la febbre, per così dire, un errore termico, un’anomalia che denuncia uno stato patologico del corpo, «impuntare l’eclissi» è un errore linguistico che denuncia uno stato patologico della lingua? Occorre torcersi per annunciare la catastrofe? Il termine chiave del nostro evo antropocenico fa la sua apparizione nel bel mezzo di una poesia in cui l’autore parla per la sua generazione. Riportiamola per intero:
Siamo la biacca più giovane dell’ordine.
Collo torto, lo squaderno innanzi all’ora.
Sul tavolo, melarance. Altri frutti
venuti dal fosso.
Rotea il calendario del torpore.
Dissabbia presto.
Qualcuno vorrebbe dire catastrofe.
. Rispondi:
«Mezzogiorno. appartiene a chi
apprende dal tegumento delle rocce,
e nel tempo che sghiaccia
. sghiaccia
lo stacco del tempo.»
Più non basta rasura. Non rinnova.
La biacca è una sostanza che serviva per la preparazione di polveri e creme cosmetiche, rivelatasi velenosa: cosa significa «siamo la biacca più giovane dell’ordine»? Se «dell’ordine» fosse il complemento di specificazione di «biacca» (la biacca dell’ordine), potrebbe significare che la generazione di Cornelio è il nuovo materiale umano con cui l’ordine si maschera. Questa interpretazione si accorderebbe con il verso successivo: per analogia il «collo torto» rinvierebbe alla velenosità della biacca, «innanzi all’ora» alla giovinezza. Tuttavia, «dell’ordine» potrebbe anche essere il secondo termine di paragone del comparativo di maggioranza «più giovane»; ma sembra meno probabile, dato il contesto. «Lo squaderno innanzi all’ora» potrebbe significare che dall’io poetico il collo torto è squadernato, cioè aperto davanti all’ora, al presente? Nella seconda strofa troviamo una natura morta con melarance e frutti di fosso (i limoni di Montale?). Nella terza il tempo è contrassegnato dal torpore, uno stato di ottundimento. Dissabbiare potrebbe rinviare, per analogia, al tempo, se si pensa alla sabbia della clessidra. Ed ecco che fa la sua apparizione la parola catastrofe. Stando al contesto – il «mezzogiorno» come ora di trapasso, il «tempo che sghiaccia» – catastrofe potrebbe alludere al cambiamento. La poesia si chiude a cerchio con la rasura che rinvia alla biacca: la rasura serve a correggere, come i cosmetici prodotti con la biacca. Se ne constata l’insufficienza, l’incapacità di rinnovare. Bisogna dunque smettere di nascondere e fare i conti con la catastrofe? Tutto l’immaginario medievaleggiante a cui si abbevera l’autore è un correlativo oggettivo dello stato apocalittico in cui versa la nostra società: l’invito di Cornelio, ornato di mille arabeschi linguistici, è a non nasconderselo, a usare la ferita come un passaggio.

Valerio Cuccaroni
Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)