Corpi asemici originari e Nemat di Fabio Orecchini ⥀ Luciano Mazziotta
Un cammino concettuale dalla forma all’informe: l’ultimo libro di Fabio Orecchini Nemat (Industria & Letteratura, 2024) attraverso le parole di Luciano Mazziotta
1. Primo movimento: le cose asemiche
«Le cose asemiche che noi non riconosciamo con chiarezza,
le significano gli indovini».
(Euripide, Supplici)
Proviamo ad aprire un libro come aprissimo le porte di una città sotto assedio. Davanti a noi c’è qualcosa di inatteso: un corpo, un oggetto apparentemente privo di significato, e forse privo di significato. Non è dato sapere né che cosa sia, né perché sia lì, né da dove (chi) provenga. Sappiamo che è un corpo (nel senso di qualcosa che ricopre qualcos’altro) asemico (nel senso che il qualcos’altro che potrebbe esserci all’interno non è decofidicabile, ma c’è). In quanto corpo visibile, la vista è l’unico senso di cui disponiamo per afferrarlo, mentre tutti gli altri sensi sono relegati o all’intuizione o all’interpretazione. Osservare un’immagine né didascalica né corredata da didascalia costringe dunque a formulare delle ipotesi sotto forma di domanda, a vagliare le risposte, e a sceglierne una sola da sé, correndo il rischio, quasi certo, di cadere nell’errore. Si tratta di un errore incolpevole però, perché il dolo, se c’è dolo, sta nel contenuto, non nell’interpretazione del contenitore. L’interpretazione – domanda e risposta – e l’errore innocente, per quanto questo in una città sotto assedio possa portare alla rovina, sono le prime azioni speculative cui un corpo privo di appigli conoscitivi fa incorrere. Che cosa è, perché, da dove (chi)? Cerchiamo, dunque, sostanza, fine e mittente.
Con un corpo asemico e le relative domande ed errori – e la conseguente distruzione, autodistruzione – inizia una parte del pensiero occidentale, la storia tragica della cultura occidentale, quando gli Achei pongono i Troiani davanti a un corpo ligneo sproporzionato, non decodificabile. A partire da questo momento, a partire dalla visione, il circolo di domande, autorisposte, l’errore o gli errori, diventa incessante come un’ossessione tanto per i postulanti quanto per i produttori del corpo (se ce ne sono). I postulanti, i vinti, procederanno per millenni a chiedersi che cosa sarebbe successo, se avessero dato un’altra risposta; i vincitori d’altra parte continueranno a interrogarsi sul che cosa sarebbe successo se gli spettatori avessero intuito il contenuto. Chi contempla il corpo asemico cade nell’ossessione della risposta e dell’errore, chi consegna un corpo asemico nella ossessione della colpa. Simone Weil lo dice chiaramente: «i Greci erano ossessionati dalla guerra di Troia, dal senso di colpa». I versi in merito al cavallo di Troia sono pochi, ma la laconicità allusiva concede la possibilità di farne un discorso che dura e continua a durare: pochi versi nell’Odissea, qualche verso in più nell’Eneide.
Il primo movimento speculativo, in entrambi i poemi, è per l’appunto un vociferare “indiscernibile” anch’esso, come l’immagine che si sta vedendo. I Troiani di Omero, in effetti, discutono l’uno con l’altro, dicendosi «molte cose indistinguibili» (ἄκριτα). Per quanto «indistinguibili», però, le cose di cui parlano, le opzioni che vagliano non solo si suddividono in tre possibilità, ma sarà proprio la terza scelta ad essere eletta come quella praticabile. Dinnanzi al corpo asemico, dunque, tertium datur, l’aut-aut fallisce, e si protrae la catastrofe già stabilita. I Troiani, insomma, sputano su Aristotele (Hegel) in anteprima, ma la storia dei vincitori e dei loro dèi li condanna alla rovina.
D’altra parte i Troiani di Virgilio, che traduce quasi alla lettera il verso omerico, «sono popolo incerto scisso nell’animo in passioni discorsi». Il verso dell’Eneide ha dunque già fatto cadere il tertium, essendo tutto un aut-aut, del tutto basato sul principio della divisione per due: il popolo è scisso (scinditur) in opinioni discordi (discordia in studia), incerto (incertum): il rapporto con l’immagine asemica insinua la scissione, tra spettatore e oggetto, ma anche nell’interiorità dello spettatore. Anche nella resa testuale di questa traduzione percepiamo il clima di apocalisse primigenio. Scinditur incertum discordia in studia volgus. Questo esametro è, retoricamente, tanto ricco di iperbati da comunicare la distanza incolmabile, il baratro e l’abisso che si sono creati tra vista e visto, un baratro e un abisso tanto esteriore che interiore. La rappresentazione visiva che se ne potrebbe dare potrebbe essere questa: scinditur IPERBATO/ABISSO volgus, incertum IPERBATO/ABISSO volgus, discordia IPERBATO/ABISSO studia. Con questo baratro continua la tragedia dell’asema, per quanto Virgilio la prosegua solamente e soprattutto dal punto di vista del (nuovo) vincitore.
Tra Omero e Virgilio però è successo dell’altro. È stato necessario che la scissione e lo scollamento fossero resi maggiormente manifesti dalla sofistica e, soprattutto, da Euripide. È stato necessario, insomma, che Euripide facesse morire la tragedia, innestando una morte in un’altra morte. Se, infatti, asema è un termine che non ricorre in Omero, si rintraccia più volte in Sofocle – non in Eschilo – e viene tematizzato in forma di massima sapienziale in Euripide. Con Euripide, fondamentalmente, la tragedia diviene vittoria (o sconfitta) della logica: la razionalità prende il sopravvento sull’irrazionale. Mentre trionfa il dualismo dell’aut-aut, chiaramente si mettono in luce i danni irreversibili del fallimento dell’aut-aut. Se non è aut-aut, è morte, se il trattino cade, è tragedia. E per esserci tragedia il trattino deve necessariamente cadere: se muore il collante tra i due poli si manifesta il vuoto e la rovina è ineluttabile. Nelle Supplici, in modo più specifico, Teseo, ponendosi paternalisticamente nei confronti dei Supplici, per l’appunto, dice: «Quelle cose prive di significato (asema) che noi non riconosciamo con chiarezza, gli indovini, invece, guardando il fuoco o nelle viscere degli animali, o a partire dal volo degli uccelli, le rendono significative (proSemaino)». Dunque, un dio dà i corpi asemici, gli interpreti li significano, chi non si affida agli interpreti (come del resto avevano fatto già i Troiani, ma come nei Supplici ha fatto Adrasto) cade in errore. Il rapporto tra soggetto e corpo asemico, sostanzialmente, è la storia di una caduta e di uno scollamento: se cadono gli dèi, come sono caduti, se cadono gli interpreti, come sono caduti, cade il trattino tra aut e aut e resta soltanto il trionfo dell’abisso e dell’errore, dell’iperbato e dell’ellissi.
2. Secondo movimento: Linguamadre
Proviamo ora ad aprire Nemat (Industria e Letteratura, 2024) di Fabio Orecchini come aprissimo le porte di una città sotto assedio. Sulla pagina sinistra troviamo un testo in versi, sulla pagina destra un’immagine:
Contenuto in Linguamadre, prima sottosezione di Ferecide, riscrittura dell’Alcesti di Euripide, di questa immagine, di questo apparente corpo asemico, sappiamo molto, ma per fortuna non tutto, per cui la asemia non cade interamente. Tutto quello che sappiamo, d’altra parte, è qualcosa che ha a che fare con il ribaltamento, come, per l’appunto, la ricerca di un frammento papiraceo in uno scavo su un terreno già indicato in qualità di potenziale area ad alta densità archeologica. Il primo paradosso di questo ribaltamento è fornito dalle didascalie apparenti: si tratta del testo in versi sulla pagina sinistra e le note finali. Se dinnanzi al corpo asemico l’osservatore cade nell’errore, qui in una finzione di corpo asemico, non si cade nell’errore, ma siamo spinti dall’autore stesso all’errore e alla domanda, a postulare ipotesi, all’ossessione dell’interpretazione. Ogni elemento aggiuntivo finalizzato all’interpretazione, infatti, innesca una molteplicità di risposte interpretative. Partiamo, dunque, dalla nota finale, seguendo la logica della distanza, dello scollamento, dell’iperbato. «Le “traduzioni”, poste sulle pagine di destra, – scrive Fabio Orecchini – sono stenografate da mia madre Lucia Bruno Orecchini». L’asemico, quindi, non si dà, né è dato, ma è ricercato a posteriori come fosse un prolungamento del testo di partenza, una traduzione/traslitterazione. Eppure il ribaltamento è più che evidente: l’immagine che viene dopo, stenografata dalla madre, nella sezione Linguamadre, potrebbe essere venuta prima. Da una parte infatti è una sorta di trasposizione in codice di ciò che è dato dalla parola della pagina precedente; dall’altra parte ha le fattezze visive – e il fatto che l’autrice sia la madre ne dà testimonianza – di materia originaria informe dalla quale avrebbe potuto generarsi il testo precedente, ma anche un altro testo. Il corpo informe, il corpo asemico non è finalizzato al dolo, ovviamente, il mittente non è sconosciuto, ma la sostanza ha l’apparenza della matrice. È come se il testo sulla pagina sinistra fosse il segno posto sul terreno su un punto specifico nel quale effettuare lo scavo archeologico, e l’immagine il reperto: e il reperto sembra essere il principio. Orecchini, dunque, compie non solo un ribaltamento del corpo, da semico ad asemico, ma un cammino a ritroso dalla forma all’informe, dal distinguibile all’indiscernibile, dal risultato all’origine.
Torniamo alla prima didascalia, al testo in versi. L’effetto di scollamento tra io-che-guarda e l’immagine-presente, in questo caso, non è dato dall’assenza di didascalia, ma al contrario, dal fatto che l’immagine, posta sulla pagina destra, sia la stessa didascalia del testo di partenza. Né l’una né l’altro, però, hanno funzione didascalica. Il testo è di per sé un testo soggetto a interpretazione, l’immagine è informe. L’effetto “scollante”, il vuoto che si crea osservando la stenografia consiste nel fatto che ciò che dovrebbe dire è in realtà non-detto, un mutismo originario. L’immagine dovrebbe dire il testo, ma l’interpretazione o la comparazione falliscono: si ravvedono delle «a», le parentesi intorno a «pur», ma tutto il resto potrebbe anche essere altro. È come se Orecchini, con questa operazione, volesse comunicare che questa traduzione del testo, come tutte le traduzioni, avrebbe potuto essere differente; e allo stesso tempo, se l’immagine fosse stata la matrice, anche il testo a sinistra avrebbe potuto essere altro.
Di base, una lettura paleografica, rintraccerebbe 10 righe, suddivisibili in tre blocchi: otto righe con uno spazio in mezzo a dividere due quartine e un altro spazio a dividere le ultime due righe. Ciò che appare più evidente, dunque, sono gli spazi bianchi, il vuoto, dato che degli “abissi” interlineari e infralineari attraversano l’intera immagine, ovvero il balzo in avanti, l’iperbato, la separazione, l’assenza di trattino tra aut e aut.
Paradosso dei paradossi un forte scollamento verbale si rintraccia all’interno della sequenza poetica. Il testo di partenza (o di arrivo, secondo il ragionamento precedente) recita, infatti:
e le travi di casa fanno amo al tempo
che avvizza, cardando schiuma lento
(pur) ridendo d’ottobre sani d’oltrevivere
che i morti si conservano per anni – beneasciutti – ferecide d’un farsi notte e sonno
di noi, il giorno si copre ancora fino agli occhi
troppo il fuori e nuova lingua che s’impietri
disincarni, che perduri: lorole contorsioni della terra, loro
a chiamarsi e un’altra pioggia
Si tratta di una Linguamadre, sì, ma la lingua della poesia è sempre una lingua morta. Se, per esempio, tornando a Virgilio e alle lingue classiche, l’iperbato è pensabile all’interno di un sistema retorico riconoscibile, nella lingua poetica del contemporaneo l’iperbato stesso di cui si serve Orecchini non può che essere il rispecchiamento di quello scollamento che avrebbe dovuto suscitare l’immagine se fosse stata la matrice asemica. Nel testo stesso si procede con un fare sospeso, singhiozzante, ricco di enjambement e tutte le strategie retoriche della sottrazione: a parte la «e» iniziale di origine ermetica, ciò che sorprende in questa lingua è la presenza di iperbati che ne fanno una lingua viva, ma con l’impronta da lingua morta. Basti a titolo esemplificativo «ferecide d’un farsi notte e sonno / di noi». La distanza tra il verbo «farsi» e il complemento «di noi», lanciato a distanza dopo perfino un verso, disattende le aspettative del lettore-osservatore, rispecchiando lo scollamento dell’immagine e allungando il «noi», cui ci si arriva senza fiato. Nell’interpretazione tra il sì sì, no no, tra l’aut-aut, l’iperbato riproduce nella disposizione delle parole, anche qui, inaspettatamente, un lancio verso la caduta, nello scavo. Ci troviamo davanti un corpo testuale e un corpo asemico che hanno le fattezze di precipizio verso l’origine, la matrice stessa di ciò che evoca, ossessiona, allude, conduce, come l’eco di una lingua astorica, al baratro, «a chiamarsi e un’altra pioggia».