Corpo e anima | di Ildikó Enyedi | recensione di Enrico Carli

Regia: Ildikó Enyedi
Genere: drammatico   
Durata: 116 min.
Cast: Géza Morcsány, Alexandra Borbély, Annamária Fodor, Attila Fritz, Ábel Galambos, Éva Bata, Barnabás Horkay
Paese: Ungheria
Anno: 2017

Endre e Mária si trovano in sogno senza conoscersi e sotto altre sembianze. Nella realtà quotidiana lui è un uomo maturo, direttore finanziario di un mattatoio, lei è la nuova responsabile del controllo qualità, molto più giovane di lui; nel sogno sono due cervi che si abbeverano allo stesso laghetto in un bosco innevato, studiandosi sempre più da vicino.

Due solitudini che si incontrano, destinate forse a rimanere distanti se lo sviluppo della storia non prevedesse un deus ex machina – sotto le sembianze di una psicoanalista – che li porterà a conoscenza del sogno condiviso. Mária è una specie di autistica “ad alto funzionamento”, come vengono designati i disturbi meno gravi dello spettro autistico, ha problemi con le relazioni sociali, comportamenti ripetitivi e manie che la isolano nel suo mondo. Frequenta ancora il pediatra poiché ha evidenti difficoltà a cambiare le abitudini con cui è cresciuta, allo stesso modo inscena dei siparietti con playmobil e saliere in cui ripercorre, appunto, i momenti salienti della sua giornata, cercando di correggere la direzione che hanno preso alcune conversazioni. Per lei sarebbe altamente improbabile avvicinare qualcuno e riconoscersene attratta. Endre, invece, è un uomo con un braccio paralitico, divorziato, che ha, per sua stessa ammissione, chiuso con le donne. È amareggiato ma non è amaro, anzi è premuroso e sincero, un uomo che preferisce starsene in disparte a osservare e ascoltare, piuttosto che invischiarsi con la commedia umana.  

La regista ungherese tratteggia con simpatia queste due solitudini, inserendole in un contesto brutale come quello di un mattatoio, dove il corpo martoriato e dissanguato delle bestie, ormai privo d’anima, viene ripartito in bistecche – a volte usate come merce di scambio affinché il “corpo della polizia” chiuda un occhio circa alcune pratiche illecite. Porzioni di corpi su cui, per pudore, la regista non indugia, come pure il seno abbondante della psicologa e il braccio offeso e flaccido del direttore finanziario, e che suscitano attrazione, repulsione o pura routine (nel caso dei bovini). Ma le anime, di notte, bramano l’incontro dei corpi, persino l’anziana donna delle pulizie del mattatoio sogna di fare sesso.

La solitudine regna nei luoghi che sono stati abitati, comprese le stanze del macello, dopo che questo è avvenuto. È nel lampadario sul soffitto, così lontano dagli altri oggetti della casa; in una pepiera lasciata in mezzo alla nuda superficie di un tavolo, in penitenza, dopo che la saliera è stata riposta nel proprio contenitore. Sono due piedi appartenenti alla stessa persona, se li si osserva rigidi e separati dalla spalliera del letto. Dalle persone la solitudine si estende sulle cose, è ovunque non c’è contatto. E allora l’anima se lo inventa, nel sogno, per suggerire al corpo che ciò che manca potrebbe essere a portata di mano.

I due protagonisti, Géza Morcsány e Alexandra Borbély, con la loro recitazione sommessa, lui così mite e mesto quanto lei rattrappita e anaffettiva, riescono a esprimere il candore della neve che attende i due personaggi nel varco dalla veglia al sonno, a rendere il contrasto che si verifica per mezzo del passaggio tra le due dimensioni, l’una così corporea e violenta, l’altra immacolata, selvaggia, abitata soltanto dai loro sembianti animali. Come loro, anche il film è diviso tra il registro drammatico e un tono più leggero, da commedia sentimentale, dove, grazie all’abilità di scrittura della regista sceneggiatrice (che sa perfettamente quando alleggerire il tono senza rischiare scivoloni), la risata è di pancia, liberatoria. Un film delicato, poetico e malinconico come i versi della ballata di Laura Marling che ascolta Mária (La sua pelle è bianca / e io sono chiara come il sole / perciò, luce santa, risplendi sulle cose).

Scritto e diretto dalla sessantaduenne Ildikó Enyedi, regista ungherese già premiata con la Caméra d’or a Cannes 1989 per Il mio XX secolo, sua opera prima, Corpo e anima ricorda per originalità e poesia un’altra Caméra d’or, quella assegnata nel 2005 all’artista statunitense Miranda July per Me and You and Everyone We Know. Raccontare i sentimenti con garbo, ispirazione e pudore, ma senza vergognarsi di parlare delle figurazioni oniriche dell’inconscio, sembra una faccenda da donne, abili a rappresentare la vita, appunto, dell’anima, l’incontro come sogno e predestinazione. Perciò, luce santa, risplendi sulle cose.

Orso d’oro al Festival di Berlino 2017.