Corpo mistico di Gianluca Pavone ⥀ Passaggi
La rubrica Passaggi pubblica oggi alcune prose di Gianluca Pavone presentate complessivamente sotto il titolo Corpo mistico, e accompagnate da un’immagine di Andrea Capodimonte. L’editoriale della rubrica può essere letto qui
Sintografia in copertina di Andrea Capodimonte, 2023.
Il ritorno della voce
Nella mia casa – in questo ballo fantasma – è rimasto un solo chiodo nel muro e la luce oscena delle lame murigliate. Piovono parole a fiotti già dalle finestre marginate, un ritmo poggiato su una lingua piena, scurita. Accudiamo parole sante, aritmie. Piovono veloci in una luce già addestrata, insana, mentre il giorno scorre sui muri tra pietra e pietra, scava la polvere più antica alla midolla. E un vento. Che collima freddo sulla testa di tutti, a fare inverni ondosi, anima ad anima presa. Restano qui, abbacinati, questi occhi al sole, a calcare e ricalcare una pelle che s’innea nell’attesa di finire. Una corolla spogliata di grazia, frutto che s’asciuga in un azzurro portatile. Non si dicono perdono le mani, ma imbucano lettere colme di solitudini, addii nella stoffa buona dei fazzoletti.
Arrivano veloci suoni lontanissimi. Prova a ripetere «via da quel rimorso di traverso noi morimmo». Mi chiedo se tutte quelle vene tracciate sul palmo portino qualcosa o qualcuno, resurrezione. Uno destinato ad uno, ad una, a tutti o nessuno.
Semmai liminare. Semmai limitare. Dici «anche oggi è passato senza un colore, incosciente».
Dici «amo le vecchie parole che resistono alla vita, che accadono veloci con gli ultimi fiati».
Si decide a volte un trapasso: miscugli di ombre tra le ombre in attimi di acciaio temperato. Il tempo è saper dire più tardi ad un volto.
Ventiquattro novembre
Non c’è nulla di umano, ma una voce bianca che galleggia. Una ruggine che cancella la testa della catena. Abbaiare a noi che sentiamo voci: dare a tutto una risposta: alla foglia, al peccato legato al frutto. Passa per un buio la puntura, e la lingua affonda e scava nel ventre che flauta l’abito del muschio. Ti asciuga l’anima in battaglia, alla midolla.
Dammi questo veleno lavorato a magli: vorrei solo saper dire che ognuno è un minerale, non tornare alle cose arrese. Urlare sul morirsi una gioia di misura, con l’occhio nel nero piroettato sulle unghie di una furia. Nell’io nominato al becco.
Sottraggo i denti al carro del sole
Nell’arancio pieno della bocca del fuoco macchine rudimentali. Il circolo delle vene, l’anima. Sottraggo i denti al carro del sole. Tra le regole del buio faccio la pace con il cielo e innalzo canti, preghiere. Entroterra. Contemplazione di un flusso di cose che parlano e chiedono. Cadono le foglie, i palazzi bombardati, i vestiti degli amanti. Cadono gli occhi in un libro-specchio che geme in tutte le lingue. Non posso toccare seni incandescenti con piccole dita abrase dal ghiaccio di una pietra spaziale. Non posso nulla contro una voce di roccia che si spacca e dall’ombra dice «questo libro è forse un cielo per palpebre di vetro». È una quiete spesa in parole mute accavallate e si cade, ci si gioca l’anima ai dadi, alla finestra. Alcuni specchi non sono abitati che da cose vuote. La quiete dell’assenza, di un lungo abbandono. E alcuni attimi d’autunno ti braccano. Foglie arrese che danzano solo per il bianco dei muretti a secco.
Nella quiete albale
Gentlemen battono i denti a volte nelle stanze più calde, e le mie ossa nominano la pioggia, gli zero gradi centigradi sugli alpeggi, sui nevai. Non esiste grazia tra i segreti affilati della gente che cammina e regredisce fino a farsi pietra tra le foglie più immobili dei pendii prativi. Non c’è spazio per te nella quiete albale degli occhi luminosi, e morire di sete in mezzo al mare si può. E guarda fuori come nevica malgrado tutto.
Il divino è ovunque dicono, e non tutto cessa di esistere. Anche nelle siepi animali che frusciano e bisbigliano codici sauri, tra i sensi sororali e acquazzoni che ci spingono a volte nei ripari sotto le finestre accese. Quanto tempo è passato dall’ultima danza delle bambole dell’infanzia con i volti disegnati e le bocche che sorridevano all’eterno?
Gli oggetti ricordano tutto, ricordano i nomi e parlano. Ed io a loro.
Seferis dice che i morti conoscono solo la lingua dei fiori, per questo tacciono nell’aria della lontananza dei giri di sole. E allora mi domando se fosse il caso a volte di tacere nelle stanze abbandonate con la propria ombra. Non essere più giganti e tacere magnificati. Sognando e parlando nell’io sto davvero vivendo.
Chi volesse proporre prose brevi e illustrazioni per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it


Gianluca Pavone
Nato a Bari il 29 maggio 1975. Alcuni lavori sono stati pubblicati su antologie (Il gioco di Soren/Giulio Perrone Ed.) e riviste come Poeti e Poesia di Elio Pecora (La stanza bianca/Segnalazioni), Atelier, Il Segnale – Percorsi di ricerca letteraria. In rete pubblicazioni su Critica Impura, Poliscritture, Poesia Ultracontemporanea, Laboratori Poesia. È presente nell’Almanacco poetico Officina iPoet 2020 – Lunario in versi della Lietocolle. La prima raccolta di poesie, “Esercizi di vuoto” (L’Erudita Ed./Giulio Perrone) risale al 2018. Del 2019 la pubblicazione per le edizioni Gattili di Antonio Pellegrino della poesia “Nel nostro amen”, con un lavoro fotografico di Vito Cascella. Del febbraio 2022 la raccolta “La materia dei cieli”, edito dalla Gaele.
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