Cyberlockdown ⥀ La transustanziazione in digitale come forma di sopravvivenza

Con il lockdown, il virtuale si è posto come protesi imprescindibile per l’attività sociale, lavorativa, di distribuzione e di fruizione artistica

Restiamo distanti oggi, per abbracciarci più forte domani.
(Giuseppe Conte, citando il sociologo Norbert Elias, nel suo discorso alla Nazione dell’11/03/2020)
Distributing Digital Being is readying yourself for the phenomenon of flesh.
(Mark Amerika, host open connection: poem)

 

Per quanto tesa a una risoluzione di abbracci e di carne, l’esperienza umana durante il lockdown di quest’emergenza sanitaria si è realizzata in una complessa interconnessione di schermi, tastiere e microfoni. L’umanità è stata testimone di un’inedita vita mediata e non più immediata, e il medium tecnologico si è fatto protesi imprescindibile anche per interazioni sociali che mai avremmo pensato di tradurre in digitale. Scomposta in una potenziale infinità di pixel, la carne viene trasposta in identità virtuale: su Facebook, Instagram, Zoom, Skype, Whatsapp siamo nickname, mail, foto, avatar.

Quest’ultimo decennio ha visto pratiche di scambio sociale in digitale divenire prassi sempre più consolidate. Profili, pagine e blog personali, su piattaforme più o meno diffuse, sono trasposizioni digitali della nostra persona che, fin da tempi meno sospetti, sono arrivate a costituire una parte importante delle interazioni sociali. Allo stesso modo, prima del prorompente ingresso del virus nelle nostre vite, diverse aziende già strizzavano l’occhio al lavoro da remoto, una vasta gamma di servizi di streaming si proponeva di portarci il cinema in salotto e le università telematiche portavano avanti la loro offerta formativa per mezzo della didattica a distanza.
Nello Zeitgeist attuale, pratiche come queste hanno subito un’inevitabile intensificazione e un progressivo espandersi del raggio della propria azione. L’incidenza del digitale, del virtuale – del cyber – nella nostra quotidianità, oggi è arrivata a investire anche ambiti ontologicamente legati a un alto coefficiente di presenzialità, come quello del clubbing, della musica dal vivo, delle istituzioni museali e persino del turismo.

Travis Scott su Fortnite
Frame del concerto di Travis Scott su Fortnite

Tra i contesti sui quali questa trasposizione ha avuto un considerevole impatto non si può non dare rilievo a quello dell’industria artistico-culturale, da sempre costruita attorno al mito di un’aura – circostanzialità dell’irripetibile – e da sempre carica di una tensione all’aggregazione sociale. Fermi musei, gallerie, cinema, teatri e sale concerti, l’industria ha optato per un trasferimento di simili catalizzatori sul web, sopperendo a una chiusura totale.

Da un lato, questa resistenza in digitale ha amplificato l’applicazione di strategie già adottate: diverse piattaforme legate alla cultura letteraria e cinematografica hanno messo a disposizione cataloghi digitali sempre più ricchi di titoli, aprendo la strada, oltre che a una più vasta potenzialità di fidelizzazione, a una superficie di riferimento culturale sempre più ampia e pluriprospettica. Dall’altro, la natura deterritorializzata e deterritorializzante del digitale ha permesso di lanciare nuove pratiche di spettatorialità e possibilità di fruizione. È la strategia adottata dalle centinaia di enti museali che hanno deciso di proporre dirette Instagram in cui agli utenti è possibile passeggiare per le sale del museo guidati dai commenti di un esperto. Alcune delle più radicali novità proposte dall’industria in questo periodo di isolamento sociale evidentemente investono non tanto l’industria in sé, quanto il rapporto che essa intrattiene con chi fruisce dei suoi servizi. Una simile pratica ha non solo il vantaggio di permettere all’utente di passare dal MoMA al Prado nel tempo di un click, ma anche quello di favorire un potenziale immersivo che nasce dall’emulazione del reale: attraverso i commenti in diretta, l’utente può porre domande all’esperto che si occupa di guidarlo nelle sale o anche esprimersi in commenti e considerazioni con cui confrontarsi con gli altri utenti che vi assistono.

Le istituzioni museali non sono le uniche ad essersi aperte a nuove pratiche di distribuzione e fruizione. Un’apertura in tale senso ha anche caratterizzato le politiche di diverse altre piattaforme che, oltre ad aver arricchito i propri cataloghi, hanno messo a punto sistemi di condivisione audio/video che permettono agli utenti una fruizione condivisa, a distanza. È il caso di progetti come quello lanciato dal Seeyousound, con sonorizzazione live in streaming per gli utenti o il servizio curato da MyMovies, che propone ai propri utenti un vero e proprio cinema virtuale, con tanto di programmazione dei film, assegnazione dei posti nella sala virtuale e possibilità di chattare tra gli spettatori in sala.

Il caso MyMovies rende evidente come le esperienze virtuali siano spesso travestite della stessa materialità del loro equivalente reale. L’utente, al cinema pur senza essere al cinema, può consciamente riconoscere come gli venga garantita possibilità nell’impossibilità. La sussistenza di queste pratiche porta innegabilmente a diversi vantaggi. Probabilmente non avremmo mai avuto modo di fermarci a osservare la Monna Lisa senza dover sgomitare tra centinaia di turisti nel Louvre, né ci saremmo trovati a visitare l’Hermitage dopo otto ore di lavoro. Adesso che la virtualità e il digitale portano il nostro raggio d’azione e fruizione a un’estensione potenzialmente infinita, possiamo assistere a rassegne che non avremmo avuto la possibilità di seguire dal vivo, accenderci in discussioni post-proiezione con cinefili fuori della nostra bolla sociale, assistere a conversazioni tra intellettuali dall’altra parte del mondo. Il virtuale, de-territorializzante e anche de-materializzante, permette all’individuo di teletrasportarsi nello spaziotempo: grazie ad esso siamo ubiqui.

After Van Gogh Recoveries, Remembering Other Tales of Art Lost and ...

Oltre al miracolo dell’ubiquità, il virtuale ci dona il potere di una presenza talvolta più piena e attiva di quella che potremmo avere nel reale. Un altro vantaggio apportato dalle attuali pratiche di condivisione con gli utenti, in questi termini, è dato dal coefficiente di immersione con cui si cerca di tenere il pubblico partecipe. Su diverse piattaforme infatti, l’industria culturale cerca sempre di più di favorire l’interattività, permettendo al pubblico di interagire con produttori, curatori, creatori, scrittori, artisti.

La presenza di un grado di interattività, per quanto minimo, opera un sovvertimento radicale delle dinamiche di distribuzione e fruizione. È proprio grazie ad esso, infatti, che il discorso culturale finalmente si emancipa da una retorica dalle power-relations ben definite: un’emanazione che parte dall’alto per poi piovere sul basso. Capace di proporre, sollevare questioni e intervenire in maniera più o meno diretta, il pubblico può sentirsi coprotagonista, passando da componente statica a parte dinamica, da giudice passivo a partecipante attivo, da consumer a prosumer. Dotando il suo pubblico di agency, l’industria
culturale spalanca le porte a modalità di distribuzione e diffusione meno rigide e autoritarie.

Tuttavia, i palesi lati positivi di questa apertura non permettono di trascurarne gli aspetti negativi. Sui dispositivi le risate scoppiano in un drammatico delay, gli aperitivi e le proiezioni in streaming a schermo condiviso sono interrotte da problemi di connessione e non c’è pixel che possa restituirci la matericità di un Giacometti. Come tutti i processi di traduzione, anche la traduzione da reale a virtuale porta con sé una loss intrascurabile: la loss di quella che Benjamin definisce aura, patina invisibile ma esperibile, che investe le cose e le rende vicine a chi le osserva, spazialmente e umanamente.
La riproduzione tecnica oggi, unita ai vantaggi del digitale, ci permette di avvicinarci al prodotto artistico in maniera (apparentemente) gratuita e senza limiti di spazio né tempo, ma l’opera e la sua fruizione restano un evento ripetibile. L’assistere spettacoli, performances e show di musica dal vivo per mezzo del nostro schermo è una possibilità finalmente democraticamente offerta, ma la cui riproducibilità manca dell’unicità legata alla contingenza.
Questa perdita, intrascurabile eppure inderogabile, investe l’impatto del lavoro artistico culturale ai tempi della virtualizzazione su due piani. Da un punto di vista legato alla fruizione, l’utente vive l’incontro col prodotto artistico in una costante consapevolezza di questa loss, nell’eterna attesa di una futura possibilità che tale incontro avvenga nel reale.
Dal punto di vista della creazione di prodotti artistici – a cui è dunque imposta una riproduzione – e dispositivi che mettono in atto la fruizione di essi sul web, questa loss solleva importanti questioni relative alla loro composizione, pubblicazione e distribuzione.
Anche ai tempi di una disseminazione digitale fruibile da tutti i possessori di dispositivi, dotata di un potenziale di immersività raramente eguagliato in passato, non c’è nulla che possa sopperire a questa mancanza. Certo, possiamo ammirare, quando vogliamo e in maniera gratuita, sul nostro 50’’, mentre sorseggiamo del tè seduti sul divano, un Rothko presentato da un esperto di fama internazionale, eppure non facciamo che sperare di assistervi da carne. Nell’epoca della decadenza dell’aura, una simile consapevolezza non può che farcelo presente: l’aura, sì decadente, non è ancora decaduta.

In questa dinamica l’umano pare perdere componente organica parallelamente ai prodotti artistico-culturali di cui era fruitore prima del lockdown. Mezzo carne e mezzo device, l’individuo è un cyborg. Lontano dalla creatura regalataci dall’imagery della tradizione scifi, il cyber è penetrato nel tessuto organico dell’uomo contemporaneo in maniera quasi impercettibile. Dall’inglese cybernetic organism, il termine cyborg designa, a partire dagli anni ’60, creature alla cui organicità sono state accostate componenti artificiali, al fine di favorirne l’adattamento a nuovi contesti, ambientali e non solo.

Stelarc durante la sua performance Third Hand, 1980
Stelarc durante la sua performance Third Hand, 1980

L’idea di incrementare la funzione di componenti organiche attraverso la loro sostituzione con componenti funzionali artificiali è ben più antica del sci-fi e degli anni ’60: l’esistenza umana è stata da sempre segnata da svariati tentativi di ibridazione tra naturale e artificiale.
Ciò che cambia, nel contesto attuale, è la prospettiva di tale ibridazione, che oggi sembra essere definita da una visione esasperatamente tecno-positivista. In questa visione è la tecnologia a potenziare, allargare, rafforzare la nostra impronta organica sul mondo, permettendoci di riprodurre virtualmente dinamiche che attuiamo abitualmente nel mondo reale.
Eppure è proprio in virtù di una componente organica, invisibile ma percettibile nelle sue mille manifestazioni virtuali, che la fruizione culturale si fa inclusiva, ubiqua, antielitaria.
Priva di un organismo senziente, capace di provare sensazione e interrogarsi dall’altro lato dello schermo, qualsiasi azione mirata al confronto e alla diffusone non avrebbe senso di  esistere. E privo di una forza vitale organica che lo muove, un corpo senza organi come quello esclusivamente tecnologico sarebbe fisso, morto. L’identità virtuale è dunque un fenomeno che al contempo fruisce e crea, subisce e modula, con un potere trasformativo che permette
all’organico di scorrere nell’inorganico. Al contempo si tratta di un fenomeno che ha anche potere estensivo: estensione dell’io che vive in casa, siede in poltrona e cucina, c’è l’io che, online, è costantemente immesso nel fermento della piazza pubblica, ultra-presente negli eventi, a prescindere dalle proprie coordinate spaziotemporali. Moi c’est un autre: a distanza, ma connesso, io sono anche – e soprattutto – il mio cyborg.

L’identità virtuale, un artefatto espanso e allo stesso tempo condannato alla parzialità, è un fenomeno condannato al paradosso. Nonostante questa intrinseca contraddizione, un’espansione in senso virtuale è l’unico baluardo che l’individuo può permettersi di ergere in difesa da una totale assenza dal mondo: in tempi come questi, il potere della mediazione è anche il potere della sopravvivenza. E il virtuale stesso è mezzo imprescindibile di questo slancio alla sopravvivenza, in quanto protesi per l’attività sociale, lavorativa e di distribuzione e di fruizione artistica. Il potere del cyborg è innanzitutto il potere di sopperire alle proprie mancanze con nuovi mezzi e nuove pratiche. Aprirsi, in maniera fluida, a un ripensamento della rappresentazione in questi termini, è atto di resistenza.