Da casa al bus ⎪Racconto di David Fratini

Nella stanza passò rapida una scia di vento che fece volare alcuni fogli messi in pila sulla scrivania. Michele guardò le pagine bianche fluttuare nella stanza; dal letto dov’era sdraiato poi lanciò uno sguardo all’orologio sul comodino, e si accorse che era tardi. Molto tardi. Si era addormentato. Chi l’avrebbe mai detto, dopo notti passate ad immaginarsi il suo prossimo futuro.

Si vestì senza neanche guardare gli abiti che stava indossando, e si precipitò fuori dall’appartamento, giù per le scale. Di tutti i pensieri che gli potevano balenare in mente, in quei concitati istanti che avrebbe ricordato per una vita, uno che lo stupì: Graziano Rizzi, un suo vecchio compagno di scuola col quale aveva condiviso i tre anni della scuola media. Il pensiero lo stupì perché al Rizzi non aveva mai pensato, nemmeno durante gli anni a scuola insieme, figurarsi dopo che non l’aveva visto più. Graziano Rizzi era il bullo della classe, più alto del minuto Michele, atletico e baldanzoso, guardato con malizia dalle compagnette, e con rispetto e invidia dai maschietti. Michele lo aveva sempre considerato con una punta di invidia e di antipatia, per i suoi modi da maschio alfa sempre entusiasta della vita che gli era capitata di vivere.

Michele pensava questo nei pochi secondi necessari a scendere le tre rampe di scale che lo separavano dall’esterno. Proprio sull’ultima rampa gli venne in mente una festa ai tempi delle scuole medie. Una festa nella casa in campagna di una compagnetta coi soldi, della quale adesso non ricordava più il nome. C’era naturalmente il Rizzi, che teneva banco con le sue spacconate e che proponeva giochi tra l’entusiasmo dei numerosi proseliti. Anche Michele quella volta fu contagiato dall’entusiasmo che Graziano sprigionava, ma non avrebbe mai e poi mai voluto far parte della schiera degli adoranti. Così si era allontanato nel garage adibito a sala da ballo della festeggiata e lì, in solitudine, aveva bevuto tre bicchieri di cola che lo avevano fatto tornare tra gli altri con un’inedita sensazione di sicurezza.

Gli altri e le altre erano tutti sul grande prato antistante la casa, impegnati in un gioco frenetico in cui i ragazzi dovevano evitare di essere catturati dalle ragazze. Graziano naturalmente guidava i giochi tra risate, grida e gridolini. Ad un tratto furono tutti stanchi e ansimanti. Michele aveva pensato che quello potesse essere il momento giusto per proporre di fare quel gioco che gli aveva insegnato sua cugina più grande al mare, a Pescara, l’estate scorsa. Aveva preso la parola con fare  sicuro e allegro: «Ora vi insegno un gioco super!» aveva detto a voce alta, guardando il bel viso di Graziano che era seduto sul prato ed era rivolto al sole. Graziano aveva appena aperto un occhio, guardando di striscio Michele. «Siamo troppo stanchi adesso» aveva risposto ansimante una compagnetta. Michele, che sentiva forte in petto quella baldanza che pareva avesse preso in prestito dal Rizzi, che ne possedeva in eccesso, aveva replicato: «andiamo, è bellissimo! Perché non volete giocare?» Non fece in tempo a finire la domanda che Graziano, guardandolo sempre con un occhio solo, gli rispose pigramente facendosi portavoce della piccola folla che aveva intorno e che si riposava con lui: «… perché a te non ti si incula nessuno.»

Michele ricordò che dopo le parole del Rizzi erano seguite delle risatine trattenute. Ma forse fu solo immaginazione, perché quella risposta lo aveva lasciato di stucco, senza parole, senza pensieri, senza ricordi di ciò che successe dopo.

Finito di pensare a questo episodio ripescato dal suo vissuto rimosso, Michele terminò di scendere la rampa delle scale e giunse di fronte al portone; erano passati si e no trenta secondi da quando era uscito di casa.

Una volta fuori corse verso piazza Minniti, sperando di riuscire a non arrivare tardi. Passando davanti al vecchio bar Birilli il suo sguardo si posò un istante sul ragazzo seduto all’unico tavolinetto esterno, per poi continuare la corsa dimenticandosi per sempre quella faccia mai vista. La faccia del ragazzo seduto al tavolino era quella di Valerio Berli, un giovane studente universitario fuori corso, nonostante l’espressione impacciata da primo della classe. Gli occhiali con la montatura che non sarebbe stata mai di moda e la camicia dei grandi magazzini abbottonata fino al collo tradivano un certo malessere nel ragazzo che sedeva solo, in imbarazzo, solo in quell’unico tavolino all’esterno. Il giovane Berli stava pensando al suo amico Alberto, l’amico con cui usciva sempre, dato che nessuno usciva con lui e tantomeno nessuno usciva con il corpulento Alberto. Berli, bevendo pepsi, pensava con preoccupazione ad Alberto. Era giugno, e il caldo ormai aveva preso possesso della città non solo di giorno, ma anche dopo il tramonto e la notte. Specie col caldo che faceva in quei giorni, Alberto aveva un problema: aveva una sudorazione eccessiva che gli teneva la fronte perennemente imperlata di gocce grosse come chicchi di mais e le camicie chiazzate di un bianco salino. Alberto aveva pensato di nascondere un po’ la cosa indossando camice bianche, ma quando vi provò si vide ancora più corpulento, ancora più goffo, ancora più visibile ed esposto al pubblico ludibrio. Alberto non diceva mai queste cose a Valerio, si limitavano ad uscire insieme. Una cosa però gliela disse Alberto qualche giorno prima: gli disse che avrebbe sperimentato un metodo che non l’avrebbe fatto più sudare. Non avrebbe più bevuto. I primi giorni non avrebbe bevuto affatto, e nei giorni seguenti, quando ormai la sudorazione si sarebbe placata, avrebbe bevuto solo uno o due sorsi d’acqua al giorno. Quando Alberto lo disse all’amico, Valerio non ci aveva dato gran peso, ma ora, che non lo vedeva né sentiva da quattro giorni, iniziava a preoccuparsi. Valerio per un istante pensò all’amico in pericolo di vita. Nel momento preciso in cui Michele posò fugacemente lo sguardo su di lui, Valerio pensava con una tiepida angoscia alla morte di Alberto. Michele continuò la corsa verso piazza Minniti, mentre Valerio se ne restava lì a pensare che forse il suo amico Alberto stava in quell’istante morendo prosciugato. La preoccupazione lo incupiva e gli rendeva indigesta anche la pepsi, ma non abbastanza da prendere il telefono e chiamare Alberto. Ma Berli era solo uno seduto su un tavolino su cui Michele aveva posato distrattamente il suo sguardo, per poi dimenticarsi di lui, come facevano tutti, per sempre.

Michele notò una vecchina che lo guardava, e non poté fare a meno di constatare che il viso dell’anziana era proprio uguale a quello di Jerry Calà; ma poi affrettò il passo verso piazza Minniti. Mentre i passi si facevano corsa, trasalì alla vista di fronte a sé di Graziano Rizzi. Proprio lui. Provò una sensazione molto strana nel vedere ora la persona che gli era balenata a sorpresa in testa in quella giornata per lui così importante; non aveva mai pensato prima d’ora a lui, e non l’aveva più visto dai tempi della scuola, e ora eccotelo… Michele pensava ciò, mentre con passo spedito si avvicinava al Rizzi che, al contrario, procedeva con passo tranquillo e distante. Michele pensò che l’avrebbe salutato freddamente perché non aveva mai sopportato le persone che facevano finta di non conoscersi.

Avvicinandosi notò che l’aspetto del Rizzi non era mutato in quei quattro lustri. Il modo d’abbigliarsi, però, era certamente diverso: non c’erano più i paninari e i vestiti di un tempo. Notò che c’era qualcosa di profondamente diverso nel vestire di Rizzi. Mentre a scuola indossava sempre abiti vistosi e alla moda, ora pareva vestito solo per coprirsi, con abiti anonimi e dimessi.

Quando furono vicini, Michele pensò ancora quanto fosse strano tutto ciò, ma pensò pure che non avrebbe mai e poi mai confessato all’arrogante Rizzi di aver pensato a lui proprio alcuni istanti prima.

Mantenne fede alla sua intenzione e salutò fugacemente il suo ex compagno di scuola, quando si incrociarono i loro volti.

Rizzi rispose quasi automaticamente a quel saluto, e nei suoi occhi Michele scorse l’impegno che Rizzi metteva per cercare di ricordare chi fosse quel coetaneo che lo stava salutando.

Da vicino Michele notò che Rizzi aveva mantenuto la folta chioma che aveva alle medie, ora popolata di sottili fili bianchi; poi pensò alla sua chioma, alla sua fronte andata nel tempo ad allargarsi a scapito dei capelli, che però si mantenevano tutti castani. Notò la fronte del compagno, solcata da quattro vistose rughe d’espressione che rendevano il suo volto vagamente sofferto.

Appena si furono incrociati Michele continuò nella sua direzione mentre Rizzi, che si era fermato a guardarlo, lo richiamò: «Hey, noi andavamo alle superiori insieme.» Michele, che nonostante avesse superato Rizzi stava ancora pensando a lui, bloccò il passo e si girò verso Graziano. «Si» disse mentendo sul fatto che erano stati compagni di superiori. «Quanto tempo» disse sorridendo triste Graziano. Da quelle poche parole Michele capì di trovarsi si di fronte al Rizzi, ma non più al Rizzi che aveva avuto la sventura di conoscere alle medie; il tono di voce non aveva più niente dell’antico entusiasmo, e quel sorriso disarmato che ora Graziano gli rivolgeva non era più quello delle medie, il bianco sorriso che ti diceva “sorrido perché sono meglio di te!”, il sorriso che guardava al futuro con la certezza di essere sempre il primo.

Michele ripensò all’episodio della festa, ripensò a quanto fosse strano averlo incontrato, mentre Rizzi gli parlava con un tono che lui non conosceva, e metteva in fila una parola dietro l’altra per paura di trovarsene d’improvviso senza, temendo forse che Michele potesse fargli qualche domanda scomoda sulla sua vita. Graziano parlava, e le sue parole, che Michele non ascoltava, rimuginavano con tristezza un tempo in cui pareva che la vita fosse tutta un gioco a vincere. Michele non lo ascoltava, e pensava solo a quanto tutto ciò fosse strano. «Noi eravamo amici, ricordi?” disse Rizzi. In quell’istante Michele fu sicuro che Rizzi non lo avesse riconosciuto. Poi guardò l’ora e si congedò bruscamente. Rizzi, che gli aveva messo la mano sulla spalla, lasciò che l’amico continuasse per la sua strada, mentre con un sorriso mesto seguitava a guardarlo.

Michele pensava solo che si era fatto molto tardi e affrettò la sua corsa verso piazza Minniti, dove avrebbe preso il 5 barrato che lo avrebbe portato all’ospedale. Sua moglie Marisa stava per dare alla luce il loro primo figlio, che non si sarebbe chiamato Graziano.