Davide Nota, Gli orfani (racconti, Oedipus, 2016) | Fabio Orecchini

 

Lettera dal letto

Ogni dorso che osservo dal letto, nello stato febbrile coperto, tiene l’odore del giorno in cui si incontrarono i miei stupori e l’angelo. Ogni incontro una fuga d’amore, che non potrà ripetersi. La vita di Esenin, donata dall’amico infiammato. Abitavamo a San Pietroburgo, era il 1905 quando ci uccisero. Un secolo dopo la neve copriva le scale slavate di Perugia e un’ebbrezza gelata trascinava le parole di Pasolini, Guy Debord…

In Corso Garibaldi, lungo la via che conduce al Tempio, tiravamo un cordoncino usurato dal tempo per aprire il portone. Nell’antro era un cancello, oltre la zona oscura che proseguiva la volta delle scale a destra. Prometteva alla vista un giardino orientale, ovunque protetto dalle mura d’Etruria. Dietro i mattoni che alla sera si tingevano di sangue come alla carne di chi ci beve forte si illuminava una torretta templare dalle fatture arabesche, che ricordava il sogno.

D’estate, quando l’ascensione lunare riflette il desiderio di viaggio, nel cielo incantato dal primo blu oltremare scintillavano le stelle come uno sconfinato esercito di occhi e il campanile della Chiesa di San Benedetto Vecchio ti sembra un giocattolo.

La fame di Rimbaud, l’inverno marchigiano. La sorella che nella lana guidava fino alla costa adriatica. Poi fu il disprezzo per la vita che ti fece tutto perdere. Da questo letto succhiavi le parole come lumache dal guscio impregnate d’olio e prezzemolo. Sognavi la vita come una promessa di naufragio, in cui si massacrarono tre cadaveri. Per nessuno di essi riuscisti a piangere e sulla fronte di uno volevi scriverci “COGLIONE”, con l’Uniposca nero, mentre il silenzio si faceva creta e una membrana di pietra rivestiva il tuo cervello annodato.

Oh caro Andrea che mi facesti amare l’Opera, quanto mi sei mancato. Io non t’avevo mai abbandonato. Sono tornato, dopo due settimane di lezioni e gelo. Ho studiato, fatto il bravo, alzato quasi sempre presto. Certo, risponderò a tutte le tue domande. No, non mi sono innamorato. Non mi innamoro più.

Questo lembo di quaderno fu composto in condizioni diseguali, negli anni in cui l’autore simulò il suicidio e la continua perdita lo scaraventò dentro alla storia cinico come un ente provinciale. Ma c’era ancora l’antico ragazzo in lui che gli permise di cadere, finalmente diseredato dai proconsoli cittadini a cui doveva apparire ormai come il fantasma di un potenziale demenzialmente sciupato. Lui che l’indomani sarebbe stato infibulato come una promessa politica, ora ubriaco e sulla soglia dei trent’anni si masturbava con una foga insensata nel pieno centro della Piazza del Popolo, alle sette della sera.

Oh tutto questo è follia, si disse, ma lui credette veramente di far ridere un amico che passeggiava al suo fianco, quanto bastava per tornarsene a casa spensierato. Ma se la punizione cadde su di lui come una condanna inesorabile, fu per la crudeltà delle organizzazioni pubbliche. L’azione non si svolse entro gli spazi adibiti alla sborra. Una tipologia di errore che si sconta con l’esilio. Ora il mio amico percorre i sentieri delle pecore sulle montagne spelate dove camminano tossici e preti, e un giorno verrà ucciso e si farà cardo.

Io ho speso tredici anni in tragiche fantasie d’amore ed ora l’incanto è finito. Ci ameremo masturbandoci, sognando astratte fisionomie siderali. Ci sbirceremo il timbro della pelle tra le maglie scortecciate dei pixel, forse talvolta ci parrà che un fiato caldo ci accarezzi il collo. Se vuoi parlarmi, se vuoi rispondere a questa mail, ti aspetto. Tuo.

Una specie di febbre mi aveva avvolto per tant’anni di selvagge metamorfosi, che solamente ora ci inizio a pensare veramente. Il cardo fu colto e se ne fece un segnalibro per le pagine secche di un diario. Era il 4 novembre del 1986, io me ne stavo disteso su un lettino apribile, cigolante. La rete sfondata, la stanza disadorna. Fuori della finestra il buio di Cassina de’ Pecchi disegnava attorno ai lampioni delle macchie inzuppate di luce. Oggi sono venute delle persone a casa ma io non ho sentito niente. C’è questa muffa sopra all’angolo della cucina che è venuta su dalla condensa e ogni giorno pare che si allarghi. Dovrai imparare ad aprire le ante, o le persiane dopo la doccia e la pasta. Ma fa freddo, fuori si muore. La muffa è turchina come un affresco del Trecento. Il vetro s’è velato del vapore della pentola in ebollizione, ci tracci con il dito il segno di una svastica; per riderne con gli altri, quando lo vedranno apparire. Erano venuti tutti qui a studiare, negli anni passati. Ma tutto questo buio e solitudine, il ronzio del lampadario, il cavo annodato e incrostato di calce; non poteva andare diversamente.

Ieri dubitavi persino del sesso. La mano sotto il maglione infeltrito di Nadia ad afferrarne le mammelle lunghe e larghe. È la ricerca dell’adiacenza completa pensavi; il palmo della mano e quel gonfiore di ghiandole. Il ruvido fruscio dei peli al movimento ciclico dei polpastrelli, sotto l’elastico degli slip, ad aprire gradualmente un varco, una voragine d’argilla sotto il cavallo dei jeans. Pensare ad altro poi, fissare le tubature del termosifone o mordersi una mano.

Ora ti tocchi mentre pensi ad altri che la possiedano, con le mani impastate di bava e di lava; come un’alcova racchiusa a nocciolo, in preda alle penetrazioni. Ti sei pulito con un fazzoletto che hai trovato sopra al tavolo della cucina, imbevuto di sugo. L’hai buttato dentro alla busta della spazzatura appesa alla maniglia. Una spina nel fianco, dentro alle buste dell’immondizia; a soffriggere l’aglio in padelle annerite dall’uso. Guardi il disegno appeso al muro e che fu il dono di una ragazza che si chiamava Eléna tanti anni fa, quando il mondo era ancora intatto. Un ragazzino a torso nudo, sul davanzale interno di una finestra, a guardare le galassie lontane.

Io ti sentivo vicina, come un’amica vera ai tempi delle medie, una sorella dei sogni sinceri e delle prime scoperte: Mellon collie degli Smashing Pumpkins, Edward mani di forbice…

Oh così fragile è l’arrivo della gioia ed impossibile da trattenere. Ci sfiora come un alito improvviso, un odore imprevisto che non riesci a definire e perdi. Anch’io a sette anni feci la valigia, ero convinto di venire dallo spazio. Dovevo andare a ritrovare l’Ufo con il quale ero venuto sulla Terra e mi sforzai di ricordare il luogo dove era stato sepolto. Era il giardino di mia nonna Maria, che ora è crollato e fatto a pezzi. Era un giardino dolce, pieno di violacciocche e quadrifogli.

Tu certo non puoi esserne colpevole perché hai raccolto la saggezza dell’obbedienza, la natura dei fiori che altro dovere non hanno se non quello di esistere e sbocciare. Io invece mi risveglio da una guerra civile, la casa è divelta e chi conoscevo non si ritrova. E solo adesso mi ricordo di questa patria, dell’albero di nespole che mi alzava come un trofeo esibito al cielo.

Se quei fumetti li hai veramente disegnati a tredici anni sono bellissimi ed è un vero peccato che tu non riesca a trovare il tempo per continuare. Devi trovarlo il tempo ad ogni costo, scavare più rifugi possibile. Altrimenti poi ci si perde, ci si dimentica. E gli abitanti di questo luogo non cercheranno certo di aiutarti.

Ogni libro è un incontro e un paese che amo, che volevo abitare e non ho ritrovato. E quando il Nazzareno mi ha chiamato, io l’ho preferito crocefisso.

 

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Gli orfani, Davide Nota – Racconti – Oedipus Editore

Presentazione del libro – sabato 13 febbraio alle ore 18 presso la Ex Sala Cinema dello Sferisterio di Macerata (Piazza Mazzini 10) con reading, videoproiezioni su corpo e muro, esposizione di opere.

L’evento Facebook con i dettagli è qui: https://www.facebook.com/events/1026386297425001/