Il deserto è il mio posto preferito per guidare. Una donna nella storia di Paola Vinay ⥀ Estratto
Il 3 novembre è uscito in libreria Il deserto è il mio posto preferito per guidare. Una donna nella storia di Paola Vinay (Argolibri, 2023), un romanzo autobiografico ma che non dimentica il contesto storico e sociale. Ne pubblichiamo un estratto, seguito dalla postfazione al volume a cura di Goffredo Fofi
Avendo deciso di non seguire i miei, ora dovevo cercare un lavoro e un luogo dove vivere. Trovare lavoro non mi fu difficile: ero stata in America e conoscevo l’inglese, due cose rare in Italia allora. Inoltre, ebbi fortuna: dopo il ventennio fascista di chiusura nei confronti della sociologia, questa disciplina stava riconquistando interesse e la ricerca sociologica si stava sviluppando. Inoltre, l’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali (IRES) di Torino stava iniziando una grande indagine sul polo di sviluppo di Ivrea, commissionata dalla Olivetti e diretta da Luciano Gallino, che allora era dipendente di quell’azienda. Portando con me il curriculum, mi recai, con disinvoltura, dal Presidente dell’IRES Siro Lombardini e gli dissi, senza remore, che avevo bisogno di lavorare. Mi disse che stava per partire una grande campagna di interviste nel Canavese, che era stata affidata alla Scuola per Assistenti Sociali di Torino e che potevo essere inserita tra le intervistatrici e fruire anche di un’automobile con conducente.
Le mie interviste, in cui riportai anche frasi virgolettate in dialetto, furono apprezzate più di tutte le altre, tanto che in seguito venni assunta con un contratto a tempo determinato per le operazioni di codifica e le prime analisi dei questionari. Dopo qualche mese, passai a tempo indeterminato per continuare a lavorare nel settore sociologico. La tecnologia all’epoca era assai diversa da adesso: il calcolatore dell’Istituto era enorme e ingombrava un intero stanzone, i dati venivano codificati e inseriti in schede IBM perforate che sarebbero state elaborate dal calcolatore. Al posto delle attuali calcolatrici elettroniche avevamo a disposizione delle macchinette rudimentali, le Olivetti Tetractis, che dovevi manovrare con una manovella per effettuare delle semplici operazioni di calcolo: erano lente e rumorose. Ma avevo un lavoro stabile e un discreto stipendio.
Anche per quanto riguarda la casa fui fortunata: un’amica (Anna Maria) vicina al gruppo dei «Quaderni Rossi», abitava da sola in una mansarda del centro di Torino: le chiesi se potessi andare ad abitare con lei, dividendo le spese dell’affitto, e mi disse subito di sì. Era un’insegnante di lettere, molto simpatica, molto libera e molto disordinata. Prima del mio arrivo aveva due criceti maschi che lasciava girare liberi per casa: si uccisero a vicenda, non prima di aver prodotto, con i loro denti aguzzi, forse con l’intenzione di fuggire, un profondo buco nel muro della cucina. Il fornello evidentemente non era mai stato pulito: era incrostato da uno strato di almeno mezzo centimetro di pastina e non so cos’altro fuoriuscito dalle pentole. Lo pulii con molta fatica e con una certa apprensione, nel dubbio che Anna Maria lo considerasse una specie di opera d’arte (ma lei apprezzò la mia iniziativa).
La mansarda era composta da una camera e dalla cucina. Mi sistemai con un materasso per terra in cucina, nella parte in cui il soffitto mansardato era basso: non di rado, alzandomi, ancora addormentata, la mattina, battevo la testa contro il soffitto! Più tardi trovammo un’altra mansarda oltre Po, poco sopra la basilica della Gran Madre: era carina, aveva due camere con due balconcini e una cucina. Lì ho abitato fino al matrimonio.
Per le interviste nel Canavese partivo con l’autista la mattina presto e tornavo tardi (soprattutto se si trattava di andare in un paese di montagna). Le interviste erano lunghe riguardando, oltre agli aspetti sociodemografici e lavorativi di tutti i membri della famiglia, anche gli atteggiamenti delle persone intervistate. Qualche volta ebbi risposte divertenti: per esempio, alla domanda su chi si considerava più in alto nella scala sociale mi fu risposto: «il preive» (il prete) perché «fa nient»! Trovai quasi sempre persone disponibili e spesso mi offrirono qualche cosa da bere, il caffè o l’Elisir di China.
Il mio orario in ufficio era di otto ore, per cinque giorni alla settimana; tornavo a casa per pranzo e mi preparavo qualcosa di veloce, poi tornavo al lavoro. Qualche volta restavo in ufficio, oltre l’orario, per terminare il lavoro, ma, se per caso la mattina arrivavo con uno o due minuti di ritardo, dovevo firmare con la penna rossa anziché con quella nera e la persona che controllava le firme invariabilmente osservava: «Come mai in ritardo stamattina, signorina?».
Spesso la sera andavo alle riunioni dei «Quaderni Rossi». Vi partecipavano, oltre a mia cugina Edda, molti miei vecchi e nuovi amici, come Rieser, Mottura, Greppi, Beccalli, Tronti, Asor Rosa, Accornero e Di Leo. C’erano anche alcuni sindacalisti e, come di prassi nei gruppi della sinistra operaista dell’epoca, qualche operaio (magari solo uno), in rappresentanza dell’operaio massa. Dopo l’introduzione di Raniero Panzieri, o di Tronti, o di Negri, il dibattito durava a lungo. Io ascoltavo intervenendo raramente. Tutti conoscevano, almeno in parte, gli scritti di Marx (qualcuno parlava persino dei Grundrisse, che allora non erano ancora stati tradotti in italiano). Il linguaggio usato era spesso molto complicato. Per me, che non avevo letto Marx, i dibattiti, a volte, erano difficili da seguire. D’altronde, in proposito, anche qualcuno più preparato di me ha osservato, in un’intervista: «Ricordo le prime riunioni, e ricordo anche le difficoltà di appropriarmi del linguaggio di Raniero, difficile da seguire anche se non quanto quello di Toni Negri, assai arduo. C’era un baluginare di termini affascinanti, nella prosa di Toni Negri, che gran parte dei giovani presenti non capivano nei loro passaggi, ma percepivano come fatto emotivo e fortemente ideologizzato. Si subivano queste discussioni molto astratte sul “piano del capitale” e quant’altro, per poi infervorarsi nella discussione sulle vertenze operaie: vivevamo un momento straordinario, perché c’era nell’aria la ripresa delle lotte; c’era un clima di grandi speranze e aspettative, che ci motivava enormemente»1.
Per quanto mi riguarda devo dire che, nonostante la difficoltà del linguaggio utilizzato, ero molto interessata ai dibattiti e alle attività del gruppo. Ricordo che si stava lavorando alla stesura del secondo numero dei «Quaderni Rossi», dal titolo La fabbrica e la società. Tra coloro che partecipavano alla sua preparazione c’erano Franco Momigliano, Franco Fortini, Bianca Beccalli, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Rita Di Leo e altri, tra cui Massimo Paci. Io non lo conoscevo ancora, ma Raniero ne parlava molto bene e apprezzava il suo contributo anche se, diceva, «è un po’ pigro»! Il titolo del suo articolo era Aspetti della socializzazione del lavoro nell’edilizia. Questo era il frutto di una sua ricerca condotta a Milano, ma già in precedenza, nel 1960, aveva lavorato a un’inchiesta sull’edilizia condotta a Roma con Giovanni Carocci, Rita Di Leo e Mario Miegge. L’articolo, come egli scrisse in nota, rappresentava: «un tentativo di applicare all’analisi di una situazione lavorativa concreta (quella del cantiere di costruzioni edili) l’ipotesi marxiana di una progressiva “socializzazione” del lavoro a misura che (nella composizione organica del capitale) si accentua l’incidenza del capitale costante rispetto al capitale variabile»2. È curioso che la prima ricerca di Massimo abbia riguardato l’edilizia proprio mentre io in America facevo una tesina sul sindacato degli edili.
Massimo era ancora uno studente universitario quando incontrò per la prima volta Raniero, che all’epoca era direttore di «Mondo Operaio» e pubblicò sulla rivista il suo articolo Crisi di governo e crisi delle istituzioni. Durante gli anni dell’università aveva partecipato al movimento politico di Unità Popolare, fondato da Ferruccio Parri e Pietro Calamandrei, poi si avvicinò a Lelio Basso e alla redazione di «Problemi del Socialismo», con cui collaborò anche negli anni di Milano e della frequentazione del gruppo dei «Quaderni Rossi», in cui venne introdotto da Bianca Beccalli. Si erano conosciuti a Parigi dove Massimo, dopo la laurea in Giurisprudenza, tra il 1959 e il 1961, negli stessi anni in cui io ero a Madison, si era recato a studiare sociologia, grazie ad una borsa di studio biennale. Tornato in Italia, aveva trovato un lavoro part-time presso l’Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali (ILSES), essendo stato presentato da Bianca ad Alessandro Pizzorno, allora direttore della sezione sociologica dell’Istituto.
Verso la fine di marzo del 1962 fu invitato a tenere una conferenza a Milano il sociologo americano Talcott Parsons, che in quegli anni era molto noto anche in Italia. Alcuni sociologi del mio Istituto vi andarono ed io con loro. Fu in quell’occasione che Bianca mi presentò Massimo. Nel pomeriggio rimase a casa, perché aveva l’influenza, e Bianca mi propose di andarlo a trovare. Comprò una buona bottiglia di vino e andammo. Lo trovammo a letto: fu subito incuriosito da me e dal fatto che ero stata in America. Poi prese la sua chitarra e cominciò a cantare le canzoni di Brassens imparate in Francia.
Due settimane dopo venne a Torino per una delle riunioni dei «Quaderni Rossi», a cui, fino ad allora, non aveva mai partecipato. Cominciò a corteggiarmi. Ricordo che cercava di sbarrarmi la strada mettendosi di traverso sulle porte di casa, ma io passavo sotto il suo braccio. Nell’intervista sulla sua partecipazione ai «Quaderni Rossi», Massimo ricorda: «Nel gruppo dei torinesi c’era anche una ragazza che sarebbe divenuta mia moglie, Paola Vinay, amica di Rieser, Mottura, Goffredo Fofi. Era cresciuta con loro. Questo legame sentimentale divenne per me un incentivo ulteriore a partecipare agli incontri con i torinesi».
Durante uno di questi incontri Massimo e io andammo lungo il Po a vedere le trote che risalivano il fiume e poco alla volta cominciammo ad arrivare tardi alle riunioni.
Durante il lungo ponte che precedette e seguì il 25 aprile del 1962, ci fu un’importante assemblea di due giorni a Santa Severa in cui si riunirono tutti i gruppi che facevano capo ai «Quaderni Rossi» (Torino, Milano, Padova, Genova e Firenze). Sia Massimo che io andammo. Prima, però, ci fermammo un paio di giorni a Roma: lui a casa dei suoi e io da mia nonna Ada. Uscimmo insieme. Massimo mi fece visitare la città e poi andammo ad ammirare il tramonto dal belvedere del Pincio: fu lì che cedetti al primo bacio. Il giorno seguente andammo a visitare San Pietro e, dietro il colonnato di quella grande piazza, sfidammo, con un bacio, il reato di «oltraggio alla moralità pubblica»: questo si rischiava in quella piazza per un semplice bacio! La nostra successiva partecipazione all’assemblea dei «Quaderni Rossi» a Santa Severa e alle sue infuocate discussioni fu indubbiamente un po’ distratta.
Erano cominciate a emergere, in quell’assemblea, alcune differenze di fondo tra il gruppo torinese che faceva riferimento a Panzieri, quello romano che faceva capo a Tronti e quello veneto rappresentato da Negri e il suo gruppo. Tali differenze si sarebbero approfondite in seguito. Già in quella occasione, tuttavia, risultò particolarmente forte la contrapposizione tra Panzieri e Negri. A Santa Severa c’erano anche il mio vecchio amico Claudio e alcuni suoi amici fiorentini; uno di essi era stato un mio filarino ad Agàpe e rivedendomi, dopo tanti anni, mi disse: «Quasi, quasi ti riprendo!». Ma oramai era tardi per lui.
Essendo lontana dai miei, costituivano per me un punto di riferimento, oltre alla famiglia di Edda, cui ero molto legata, anche Raniero e sua moglie Pucci. La coppia era molto unita, tanto che, forte della sua esperienza, Raniero voleva vedere tutti noi felicemente sposati. Quando Massimo e io cominciammo a stare insieme, una volta Raniero mi disse che con lui dovevo «usare il bastone e la carota».
La mia partecipazione alle attività dei «Quaderni Rossi» non si limitava a frequentare le riunioni, ma prendevo anche attivamente parte al volantinaggio all’uscita degli operai, davanti alle porte della FIAT. Nei nove anni precedenti, anche a causa della costituzione del sindacato aziendale del SIDA, gli scioperi alla FIAT non avevano avuto successo: la classe operaia era stata fiaccata, l’attività sindacale repressa. Solo nel 1970, con l’articolo 17 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970), in seguito alle lotte operaie del biennio precedente, sarebbe stato proibito agli imprenditori e alle loro associazioni di costituire e finanziare gruppi sindacali dei lavoratori.
Anche quando, dal gennaio del 1962, erano iniziate le agitazioni dei metalmeccanici e gli scioperi all’Alfa Romeo, alla Lancia e alla Michelin, gli operai della FIAT non si mossero. Ricordo che una mattina alle cinque ero andata, con un gruppo dei «Quaderni Rossi», davanti ai cancelli di Mirafiori a distribuire volantini, ma l’unica attenzione che riuscii a suscitare fu di un operaio che, entrando in fabbrica, mi apostrofò così: «Che fai stasera bella bionda?». Successo politico zero! Pochissimi gli scioperanti quel giorno.
A metà giugno ci fu un nuovo sciopero, andai a volantinare all’alba e, per la prima volta dopo nove anni, scioperarono settemila operai FIAT. Seguirono, poi, licenziamenti di rappresaglia. All’inizio di luglio la Unione Italiana del Lavoro (UIL) e il SIDA firmarono un accordo separato per evitare lo sciopero generale dei metalmeccanici indetto per il 7 luglio. Ma i lavoratori FIAT scioperarono compatti, tutti e novantatremila, determinando il blocco totale della produzione. Per me e gli altri del gruppo presenti ai cancelli fu una grande emozione assistere finalmente a uno sciopero così grande in quella fabbrica.
Gli eventi che seguirono, però, misero a dura prova l’unità dei «Quaderni Rossi». Gli scioperanti andarono in massa a piazza Statuto a manifestare contro la sede della UIL che aveva firmato il contratto separato. Seguirono un assalto alla sede di quel sindacato, scontri con le forze dell’ordine e una rivolta popolare protratta per due giorni. Per la prima volta fu distribuito un volantino a firma «Quaderni Rossi» e alcuni membri del gruppo parteciparono agli scontri. Si aprì un contrasto con il sindacato che parlò di loro come «provocatori». I sindacalisti che avevano partecipato al primo numero della rivista ritirarono il loro appoggio. Si accese un dibattito, all’interno del gruppo, durante il quale Raniero Panzieri e una parte di noi stigmatizzò la partecipazione di alcuni compagni agli scontri e alle violenze di piazza Statuto. Quanto a me, in quella piazza non ci andai: a parte il fatto che di giorno lavoravo, ho sempre rifiutato la violenza.
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Postfazione di Goffredo Fofi
Da dove nasce il bisogno, a una certa età, di raccontare ad altri – anche a eventuali lettori sconosciuti – la propria vita, per cercarne il senso, per verificare quanto di prevedibile e di imprevisto vi si è mescolato, per confrontare il proprio percorso con quello altrui e, meglio ancora, con l’epoca che si è attraversata e vissuta anche se non da protagonisti della Storia “ufficiale”, di quella politica e culturale consacrata (male) nei libri di scuola e nelle cronologie enciclopediche, e nelle memorie di chi ha creduto o crede di aver contato qualcosa, pur nei suoi limiti, nell’evolversi di vicende sociali collettive, nella Storia con la maiuscola?
È il bisogno di fare i conti con se stessi, di confessarsi per giudicarsi, per giustificarsi? O semplicemente per rivivere, nel ricordo, i momenti belli e quelli meno belli, e nel tentativo di sentir vicini ancora una volta tutti coloro che si sono amati e che ci hanno amato, e nel giudicare con il senno del poi quale piccolo o grande ruolo abbiamo svolto nella vita di altri – parenti amici compagni vicini – e più in generale nella vita di una collettività, e insomma nella vita con la minuscola ma anche nella Vita con la maiuscola? Perché – soprattutto se non ci si è confinati nel privato e nelle buone qualità di un “familismo” più o meno “amorale” – si era insoddisfatti del posto che “il caso e la necessità” ci hanno affidato e ci si sentiva spinti dall’urgenza di confronti e incontri, dall’urgenza dell’azione, dal bisogno profondo di sentirsi in dialogo con il Tempo e la Storia e non loro vittime passive, cercando di avere ciascuno di noi qualcosa di nostro da dire, un contributo da offrire. Da soggetti attivi e non solo oggetti passivi del muoversi, positivo o negativo, di una civiltà, nelle sue grandi come nelle sue minime trasformazioni.
I ricordi di Paola Vinay, così volutamente precisi e minuziosi, riguardano la sua storia ma non dimenticano mai la Storia, il suo – come si dice – “privato” ma altrettanto il suo “pubblico”, le scelte che si è trovata a fare insieme alle persone più vicine e a partire da esempi esigenti, per esempio paterni e materni e coniugali; e di ambiente. Questi ricordi muovono da una constatazione da cui discendono tante cose e soprattutto la ricerca di un rigore, di un “fare i conti” quotidiano e periodico: «i miei genitori», si dice quasi all’inizio del racconto, «i miei genitori hanno messo in pratica per tutta la vita il messaggio cristiano dell’amore che è dono di sé per il prossimo. Questo tipo di amore, agàpe in greco, è stato il loro principio guida per decidere, in ogni circostanza, quale fosse l’azione giusta da intraprendere». Li ho conosciuti, i genitori di Paola, e il padre Tullio, pastore e fondatore del formidabile centro di incontri che è stata ed è ancora la comunità di Prali, è stato, per mia grande fortuna, un maestro anche per me, esempio e guida anche quando seguivo strade così diverse dalla sua. Sì, Paola ha avuto in sorte dei genitori straordinari e più tardi un marito degno di loro e di sé, e ha avuto in sorte di poter incontrare persone di valore in più parti del globo e in momenti diversi della storia di tutti. Queste sue memorie saranno molto utili agli studiosi e ai militanti di domani – se ancora ve ne saranno, ma certamente ve ne saranno! – per capire chi eravamo, “come eravamo”, com’erano le generazioni che nel secondo dopoguerra e in giro per il pianeta hanno provato “a cambiare il mondo e a cambiare la vita” come suggerivano molti che ci avevano preceduto, da Rimbaud in poi ma anche da sempre: minoranze attive capaci di ascoltare e trascinare le maggioranze dei loro simili e quelle dei più sfortunati tra i “subalterni”. Potremmo chiamarle memorie di una “militante di base”, di quelle che nei “momenti caldi” dei conflitti non si fermavano a guardare, e davano il loro contributo, piccolo o grande che fosse, alla “causa”. Quella della liberazione dell’Uomo e della Storia.
Molti lettori di una certa età vi si riconosceranno, e si spera che possano essere ancora più numerosi coloro che, leggendole, vi troveranno ispirazione o conferma per una “militanza” non gridata ed esibita e però costante, di lunga durata e non di semplice adesione ai momenti di gloria. Una militanza di condivisione di fatiche e dolori di tanti e a volte perfino di tutti, nei momenti grigi o neri delle sconfitte, delle tragedie della Storia, lo «scandalo che dura da diecimila anni» come diceva Elsa Morante.
Ma vorrei soffermarmi anche su altro, perché questa storia mi ha richiamato alla mente un grande romanzo francese dell’Ottocento che fu amato da Tolstoj e da tanti, e da molti a suo tempo detestato perché sconcertati dalla sua freddezza. Parlo di Una vita di Guy de Maupassant, che raccontò minutamente la vita di una donna del suo tempo, come fosse una cronaca oggettiva, con una scrittura “da catasto” come la sognava Stendhal. Senza grandi momenti melodrammatici e senza voler commuovere o indignare ma solo mostrare; e che ogni lettore ne tirasse un proprio giudizio. Troppa letteratura contemporanea vuole invece commuovere, anche sollecitando i sentimenti del lettore, suggerendoli e manipolandoli con l’abilità dello scrittore-sceneggiatore, della scrittrice-sceneggiatrice.
La scrittura di Paola Vinay non è mai fredda o “scientifica” come quella di Una vita ma risponde a una esigenza che le è vicina: partendo da una vita non d’eccezione, aiutare a comprendere le difficoltà e insieme il fascino di un tempo dove il “personale” e il collettivo potevano intrecciarsi in modi più forti e immediati, più “riconoscibili” di quanto oggi non ci appaia possibile, per la distanza che si è stabilita – che ci è stata imposta – tra il Privato e il Pubblico, negando ai più, a quasi tutti, e rendendo difficile anche alle minoranze più persuase e determinate, la possibilità del «dono di sé per il prossimo».
In attesa di tempi peggiori – ai quali essere bensì preparati (l’estote parati del Vangelo). O, chissà, di nuovi tempi di azione in cui possano essere di confronto e di aiuto gli esempi del passato.
Note
1 Così M. Paci in G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni Rossi» a «Classe Operaia», DeriveApprodi, Padova 2008, p. 699.
2 M. Paci, Aspetti della socializzazione del lavoro in edilizia, in «Quaderni Rossi», La fabbrica e la società, n. 2, 1962.