Diario segreto di una operatrice Sprar ⥀ Silvia Ottaviani

Silvia Ottaviani racconta la sua esperienza di operatrice SPRAR

 

Mi chiamo Silvia, sono un’operatrice SPRAR ed ho un problema: non sempre ho il coraggio di dirlo apertamente e spiegarlo in maniera esaustiva.

Spesso accade, quando incontro qualcuno per la prima volta, che mi venga chiesto qual è il mio lavoro; alla domanda “cosa fai nella vita?” ho sempre la stessa reazione: sorrido, rimango in silenzio qualche secondo, cerco di capire chi mi trovo davanti e in base a come penso possa reagire, rispondo “lavoro per un’associazione di volontariato”, oppure “lavoro con un progetto SPRAR”, o nel migliore dei casi “lavoro in un progetto di seconda accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati”.
Le risposte spaziano da un “ah…” poco convinto ai complimenti per quello che faccio, passando per la curiosità di quel che veramente significa essere operatore SPRAR. In questa situazione, che va detto è quella più frequente, parto con una lunga spiegazione, (ancora) utile a me per capire ogni volta un po’ meglio quello che faccio e utile al mio interlocutore che scopre, a grandi linee, come funziona il sistema di accoglienza in Italia.

Generalmente inizio e semplifico così: “Hai presente i ragazzi che arrivano con i barconi in Sicilia? Una volta sbarcati, i sopravvissuti alla traversata chiedono protezione internazionale e subito dopo vengono smistati nei centri di prima accoglienza, in attesa di una risposta, che generalmente arriva dopo più di un anno. Al termine di questo periodo, durante il quale fanno poco o niente, se ricevono il diniego tornano in Mali, in Gambia, in Pakistan… ma se viene riconosciuta loro una forma di protezione,  hanno l’opportunità di vivere un progetto di sei mesi per raggiungere la piena autonomia, ovvero un “corso accelerato di occidentalizzazione”. In questo periodo imparano l’italiano, frequentano corsi di formazione, intraprendono tirocini lavorativi e tante altre attività…”

In sostanza, il progetto SPRAR serve ai ragazzi per inserirsi gradualmente nella nostra società e, per raggiungere questo obiettivo, vengono costantemente accompagnati dagli operatori, quindi da me e dai miei colleghi. La nostra squadra è divisa per macro-aree di intervento: c’è l’operatore sanitario che si occupa di uno screening iniziale ed accompagna l’utente alle diverse visite mediche, il responsabile dell’area formazione-lavoro, il legale che accompagna il beneficiario nella richiesta dei documenti e l’operatore amministrativo, il cui compito è quello di rendicontare ogni spesa effettuata nel progetto (nemica storica della matematica e dei numeri, sono io a registrare ogni centesimo speso per il nostro progetto!). Non meno importanti sono il mediatore linguistico, il ponte umano tra operatore ed utente, e lo psicologo, indispensabile per sciogliere i nodi nella mente e nel cuore del migrante, che porta ogni volta con sé esperienze devastanti.

Arrivata a questo punto della spiegazione, i curiosissimi sono veramente pochi, ma succede che mi venga chiesto qualcosa in più, sul vissuto dei ragazzi, ma soprattutto sul loro presente. Le storie spesso sono inimmaginabili e per questo impossibili da raccontare, ma dal loro modo di vivere il presente riesco a capire e a raccontare molto di loro, di me e della comunità che viviamo. Ed è questa la parte che mi piace di più raccontare: non è un caso che la tenga per i più tenaci!

Essere operatrice SPRAR significa accompagnare gli utenti appena arrivati al supermercato più vicino e sopportare una serie di sguardi che soltanto una ragazza in compagnia di tre uomini africani merita. Significa sopportare oltre agli sguardi curiosi, anche le suonate di clacson e i sorrisini ammiccanti da parte di uomini italiani. Significa anche dire ad un amico “Stasera vado a cena dai ragazzi” e sentirsi chiedere con voce preoccupata “Ma da sola?!”.

Essere operatore SPRAR significa correre in macchina ed accompagnare utenti con “orari africani” costantemente in ritardo in ogni parte del fermano, significa mediare ogni piccolo malumore dovuto ad un malinteso, significa pranzare con riso e carne speziatissimi e sentirsi il profumo addosso per tutto il giorno, significa assistere alla lunghissima e meravigliosa cerimonia del tè. Essere operatore SPRAR significa anche litigare con fatture, scontrarsi con una burocrazia giusta, ma estremamente macchinosa.
Significa anche sentirsi chiedere “nelle tasche di chi vanno questi soldi”, ma poter rispondere “anche nelle mie, ad essere sincera!”.

Essere operatore SPRAR significa partecipare ad una riunione di un condominio dove i rifugiati non sono affatto i benvenuti (“perché non è il contesto giusto, perché abbiamo paura per i nostri figli, perché che stiano a casa loro”). Significa organizzare un’uscita alla moschea più vicina in occasione dell’inizio del periodo di Ramadan, e sentirsi dire dall’imam che coprire il capo non deve essere una forzatura, ma poi ascoltare la “ramanzina” del ragazzo senegalese, secondo il quale ogni regola deve essere rispettata. Significa rispondere con un velo di imbarazzo ad un altro utente che sì, a 27 anni, ho ancora “tutti” i genitori. E spiegare poi ai miei nonni quasi ottantenni cosa faccio e trovare in loro la comprensione e “com-passione” che non vedo in alcuni coetanei.

Lavorare in uno SPRAR significa ogni giorno affrontare una serie di sfide diverse tra loro, significa crescere umanamente, sentirsi frustrati, ma subito dopo grati e gratificati.
Significa infine lottare, quotidianamente, affinché ogni singolo essere umano costretto a fuggire dalla propria terra possa un giorno farlo con la stessa sicurezza e la stessa ambizione con cui la mia migliore amica può decidere oggi di partire domani per l’Australia.
Significa tenere bene in mente e ripetere ad alta voce infinite volte che nessun uomo è illegale.
Significa costruire, giorno dopo giorno, silenziosamente, una società più umana e più giusta.