Dimitris Lyacos, “Finché la vittima non sarà nostra” ⥀ Lettura di Toti O’Brien

Sabato 17 maggio 2025, Dimitris Lyacos presenterà in anteprima mondiale al Salone del libro di Torino il suo ultimo romanzo, Finché la vittima non sarà nostra, traduzione di Viviana Sebastio (il Saggiatore, 2025). In occasione di questo evento, pubblichiamo una nota di lettura al libro a cura di Toti O’Brien

 

A Killing in a Small Town è un film di Stephen Gyllenhaal del 1990 che a suo tempo ho visto in versione italiana. Mi è rimasta in mente una frase impressa sullo schermo mentre scorrevano i titoli di coda. Eccola: «esistono zone del vissuto a cui non tutti possono accedere». Vero. Non perché non appartengano all’umanità intera, ma perché attraversarle richiede un tipo di attrezzatura – giubbotto antiproiettile, muta da palombaro, maglia ignifuga da pompiere – che non sempre abbiamo nell’armadio di casa. Non so bene se la scrittura di Lyacos possieda o meno l’equipaggiamento richiesto. So che ignora distrattamente i divieti d’entrata, sconfina oltre i cancelli, supera con nonchalance le colonne d’Ercole, e hic sunt leones.

Lyacos definisce Finché la vittima non sarà nostra «il libro zero» della trilogia Poena Damni, che è apparsa in edizione integrale Usa nel 2018. I volumi 1, 2 e 3 erano stati già pubblicati, a distanza di parecchio tempo l’uno dall’altro e in ordine sparso, delineando in tal modo un’atipica, affascinante traiettoria creativa. Dunque la comparsa di un prologo in luogo di epilogo è coerente col modo di procedere dell’autore, più orizzontale (simultaneo, associativo) che verticale (logico-causale) o, usando un’altra immagine, ciclico, a spirale. In realtà una sorta di bussola guida i testi (tutti) dalla periferia al cuore del labirinto – la camera centrale, da cui non c’è via d’uscita tranne che, come ovvio, verso l’alto. Sollevandosi in volo, esatto.

Poena Damni comincia con una fuga in treno. Non sapremo mai da chi, cosa e dove il fuggitivo sia evaso. Il passato non verrà mai descritto: la trilogia si limita ad esaminarne le tracce, passando le dita su una fitta mappa di cicatrici. È invece «il libro zero» a riavvolgere la bobina, a svelarci com’era il prima di cui ci propone un grand tour, mostrandone le varie regioni, illustrando in dettaglio usi e costumi ma omettendo di dare nome a ciò che descrive. Sta a noi trarre le conclusioni, ma l’impresa non richiede sforzi eccessivi. Dietro i simboli e le metafore, attraverso il zigzagare di sparse linee temporali si intravede la società occidentale, indelebilmente segnata dalle tradizioni giudeocristiane, da industrializzazione e capitalismo. Il libro non ne traccia certo un profilo storico. Ne dipana piuttosto un nuovo mito d’origine, raccontato a turni da voci radicalmente distinte.

I punti di vista che si alternano non potrebbero essere più diversi (parlano tanto i teorici e gli agenti dell’oppressione quanto gli oppressi, i ribelli e i vinti, i prigionieri e gli evasi, gli acquiescenti, i complici, le vittime innocenti, glissando senza sforzo dall’intimo al collettivo, dal soggettivo al plurale), eppure non fanno chiasso. Dalle loro voci nasce una strana, misteriosa armonia. Le dissonanze paradossalmente si incastrano in modo perfetto e risuonano coll’inconfondibile eco del vero. Tessono una testimonianza che sovverte la logica scritta della storia, incarnandosi in un controcanto che pulsa di vita.

Il libro è diviso in venticinque sezioni (identificate, ad eccezione del prologo, dalle lettere di non so quale alfabeto, forse nessuno in particolare) che talvolta prendo la libertà di chiamare «scene» sia in ragione del prepotente elemento visivo (i dettagli di ogni tipo, fisici, mentali, gestuali, relativi al corpo, al territorio, all’atmosfera e agli oggetti sono cesellatissimi, ingranditi vertiginosamente e poi guardati in prospettiva, a distanza, illuminati da ogni angolo, osservati sotto una miriade di lenti diverse), sia a causa del netto sipario che separa l’una dall’altra.

Ogni scena si regge da sola e al contempo si incastrano tutte, formando un poliedro che possiamo prendere in mano e girare, osservando come questa o quella faccetta concentri un istante la luce che rischiara soffusamente l’insieme. Scena dopo scena assistiamo dunque a un avvicendarsi di voci disparate. Alcune, più vaghe, fluttuano e mutano gradualmente. Altre restano maggiormente riconoscibili. Nel passare da un soggetto all’altro la narrazione si piega e ripiega come un organetto, come un ventaglio.

Questo moto alterno evoca un senso di ciclicità – come un serpente che si morde la coda, come un circolo vizioso. L’ordine alfabetico sembra indicare una traiettoria precisa, un percorso che inizia e finisce, ma l’evento iniziale continua a ripetersi, sostanzialmente uguale anche se vestito con abiti nuovi. È il «peccato originale», la sorgente sia dell’errore (con il suo retaggio di colpa e paura) che della sua controparte, il castigo (in forma di esilio/cacciata, con i suoi tenebrosi corollari). Il primo verdetto, chiunque lo abbia pronunciato, non ha fine. Come la fenice rinasce dalle sue ceneri, riverbera nel tempo, reincarnandosi in forme sempre più diafane e raffinate fin quando (pur essendo ancora il pilastro su cui tutto si regge) diventa interamente invisibile.

 

Lyacos

 

Il peccato originale a cui il libro si riferisce non è quello di Adamo ma quello di Caino. Si è prodotto un omicidio, e benché il significato del termine agli albori del mondo sia incerto – e il ricordo del fatto indefinito, tanto quanto lo sono le reciproche identità di aggressore e aggredito –, dell’evento persiste la traccia. Un punitore appare dal nulla e un punito viene individuato. Queste due entità in seguito si moltiplicano in forma mitotica, mantenendo i rispettivi ruoli invariati.

Si è prodotta una spaccatura insanabile. Come? Alcuni individui si sono (auto?) eletti a giudici e persecutori, assumendo le vesti dell’autorità consacrata. Forse è stato un gioco di circostanze: il libro non lo dice. Si interessa meno a chi tiene il coltello e più al coltello stesso – a capire come si componga di manico e lama e quanto sia facile reperire a comando una mano disposta a reggere il manico, come tutte le lame prima o poi incontrino un pezzo di carne.

Non importa chi ha vinto per primo. Importa capire come quella supremazia sia riuscita a perpetuarsi e restare sostanzialmente esclusiva. Il coltello è andato perso. Al suo posto è nato un logos che ha assunto a sacro testo la visione (il vantaggio) dei vincitori, traendone poi norme da infiggere nelle menti e nei corpi tanto a fondo da farle apparire intrinseche, innate. Quando parlano, i punitori usano il linguaggio come strumento d’offesa. Se ne servono per forgiare legislature e vangeli a propria immagine e somiglianza. Dei puniti spesso non sentiamo la voce: il linguaggio diserta chi soffre. Ci è concesso di ascoltare i loro pensieri, che per quanto muti lasciano il segno.

Dunque il libro zero evidenzia il percorso della violenza – a partire dalle dinamiche predatorie (motivate dal bisogno di cibo e l’istinto di sopravvivenza) osservabili in natura, passando per il nodo cruciale che dà vita d’un fiato al concetto di colpa e alla teoria-pratica del castigo, fino al raffinato sistema che perpetua l’egemonia dei supposti punitori tramite ogni mezzo che consenta loro di opprimere i presunti colpevoli.

Il sistema non nasce perfetto. Migliora col tempo (ed è proprio tale progresso il fattore dinamico che congiunge A con Z), ma lo fa attraverso crisi periodiche e crolli ripetuti. Sale troppo in alto e poi cade. Élite di potere rivali lottano per il predominio. Qualche volta sono gli oppressi a ribellarsi e distruggere l’ordine stabilito. Il potere ricostruisce sé stesso sulle proprie rovine. In realtà affida il compito ai propri soggetti (schiavi, prigionieri, puniti) – una tra le tante torture di Sisifo. La ricostruzione ripristina, migliorandoli, gli edifici gerarchici preesistenti (da ciò nasce l’impressione di girare in tondo, di tempo sospeso) cancellando se possibile ogni traccia dei previ collassi.

Assistiamo nel corso del libro al sorgere di plurimi monumenti/edifici su passate macerie. Sono tutti circolari, ad anello, simili ad alveari o ad arene, colossei, stadi, all’inferno di Dante o alla torre di Babele di Bruegel. Tondi e chiusi come gli anelli di una catena, vuoti al centro, forse a intendere il pretenzioso nulla su cui ogni potere si fonda, tendono irresistibilmente a salire – benché appunto puntualmente si schiantino al suolo, come dimostrato dall’abbondanza di ciò che tali frane producono: spazzatura, residui, eccessi, rifiuti e rottami costellano il pianeta, formano gigantesche discariche che diventano poi favelas, slum, baraccopoli, bidonville, campi profughi. Lyacos ci conduce spesso in tali «luoghi di pena», quasi a compilare la mappa dei fallimenti di cui sono prova, decifrando l’anti-storia che scrivono in ferro e pneumatici, in asfalto e cartone.

In uno di questi cimiteri «spontanei» c’è un cartello buttato. Dice: «la speranza è vicina». Falso. O vero? Se lo fosse, la speranza si incarnerebbe nella bimba che al momento rovista tra l’immondizia. Tra i soggetti che a turno conducono la narrazione è la più definita, anzi l’unica che possiede un’identità vera e propria. Benché in qualche modo «annunciata» sottovoce (c’erano sempre bambini coinvolti in questi esili, diaspore, guerre e massacri – c’erano bambini in quei campi, fermi a quelle frontiere, e venivano uccisi o salvati, adottati o persi – alcuni erano catturati e altri riuscivano a scappare – sì, c’erano sempre bambini), mediante allusioni incerte come sogni, come memorie al contrario, si concretizza solamente nel capitolo I. Poi fino alla fine resta uguale, riconoscibile. La sua voce si sente alla perfezione. Mentre entrambi fuggivano (oppure venivano cacciati) è stata separata dal padre. Non l’hanno presa. Quando la incontriamo se la sta cavando da sola nel bel mezzo del nulla (i bambini ci riescono spesso, la loro capacità di adattarsi supera di gran lunga la nostra), ma lo cerca ancora, tranquilla, testarda.

Ci colpisce innanzitutto per un fatto di genere. Va notato che se non è tecnicamente l’unica donna in cui ci imbattiamo, certamente è la sola ad esprimersi. Non si tratta di una svista o di un’omissione. Il mondo con cui il libro fa i conti è inespugnabilmente maschile. Non comincia, come ho spiegato, da Adamo ed Eva, ma da due fratelli o forse da uno soltanto – ho già detto che in apertura non è chiaro chi abbia ucciso chi – Narciso, che contempla il suo doppio nello stagno. Ma sappiamo che il reato è stato scoperto da un dio/maschio e che ha scatenato una sequela del tutto maschile di eventi.

La bambina ci colpisce dunque per motivi di genere e perché, appunto, insolitamente «rimane sé stessa», fedele alle proprie emozioni e limpida nei processi mentali, in stridente contrasto con le camaleontiche retoriche degli ideologi, la logica sbilenca dei sicari e dei complici, l’esitazione confusa delle vittime, i deliri dei perseguitati e dei torturati. Tutte le altre voci nel libro sono o impersonali o (nel caso di quelli che soffrono) lottano invano per mantenere una forma di identità. Alla bimba lottare non serve. Come ho detto è saldamente, inevitabilmente sé stessa. Come mai? Come ha fatto a maturare tanto più in fretta degli adulti che la circondano? Forse non lo ha fatto ed è vero il contrario: è riuscita a preservare un quantum di integrità. È intatta, o quasi. Prova dolore, ma lo può gestire perché non si sente in alcun modo colpevole. Non ha macchie. Il peccato originale non l’ha neanche sfiorata. È questa la definizione dell’innocenza? Sì, ma di un’innocenza consapevole, che ha senz’altro una cosa o due da insegnarci.

Se lei spera ancora di raggiunger il padre lui (il ben più vago, sperduto, spezzato fuggitivo/esiliato/cacciato/catturato/torturato/demonizzato/e/poi/riformato) la ricorda di certo, ma in modo meno preciso. Se il linguaggio diserta i vinti, prima o poi i sentimenti e la memoria fanno altrettanto.

Il danno collaterale – in particolare la separazione dei bambini dai genitori – è solo uno dei temi del libro, ma è fondamentale perché (pur trattandosi di una pratica in uso da alcuni millenni) àncora la narrativa a una piaga del tempo presente. Altrettanto importante (e più capillarmente diffuso) è il tema dell’animale. Dubbi e domande circolano tra le righe a proposito di quanto ci sia di comune, quanto di diverso tra esso e l’umano, o di quanto legittimo sia il nostro modo di trattare le altre specie viventi. L’animale offre il proprio punto di vista, contribuisce al racconto in modo attivo pur esprimendosi in modo indiretto, tramite quella parte della psiche umana che ne custodisce l’essenza. È infatti arduo districare le specie animali e gli animali singoli, selvatici o domestici, dall’animale in noi. Coincidono. Combaciano. La violenza inflitta su quelli ci rimbalza addosso.

Nel corso del libro assistiamo alla costruzione di multipli mattatoi. Nel capitolo S ci è infine concesso di entrare. E poi usciamo, e ovviamente non siamo più gli stessi. Molta letteratura, molta arte e molto cinema hanno preso ad oggetto i nostri metodi di macellazione. Per lo meno io ho letto e visto molto in proposito. Mi sorprende allora l’effetto straziante che hanno su di me queste pagine. Perché? Il tono è calmo e obiettivo, la descrizione come sempre evocativa, vivida, palpabile, ma sprovvista di pathos e priva di trucchi strappalacrime. Tale neutralità apparente è forse ciò che permette all’esperienza di proporsi diretta, senza filtri. Ci troviamo di fronte a un’innocenza diversa da quella della bambina – ancor più toccante in quanto muta. Non può essere espressa. Siamo soli a testimoniare lo scarto minuscolo tra violenza e mera crudeltà.

Se la visita al mattatoio sembra essere il punto d’arrivo – o se preferiamo il punto di fuga, verso cui tutto converge – della narrativa, altre scene hanno simile intensità. Ad esempio, in M un detenuto in cella d’isolamento viene torturato tramite deprivazione di sonno e di stimoli sensoriali. Come altrove, qui i processi mentali, fisici ed emotivi sono esplorati in tale dettaglio da traslare irresistibilmente il lettore in un universo parallelo – il paesaggio intrapsichico del trauma, un pianeta a sé stante, una delle enigmatiche regioni che quest’odissea attraversa. Il tono post-apocalittico che permea il testo, la circolarità senza tempo, le prospettive glissanti, gli spasmodici soprassalti di amnesia e memoria, rimozione e rimembranza, sono tutti tratti caratteristici della psiche devastata dal trauma. Che l’autore si riferisca a un trauma collettivo appare evidente, ma potremmo trasportare l’intero scenario – tutto il circo, col suo paradiso e il suo inferno – dentro un solo individuo senza dover cambiare una virgola. Parafrasando Winnicott, la catastrofe che temiamo, il disastro da cui tentiamo di difenderci è già accaduto. Appunto, e (come per il primo verdetto) non ha mai cessato di farlo.

Devo chiedermi allora quanto costa immergersi volontariamente in quest’oceano di pena, esplorarne il fondo per cercare gli ossami della nave affondata e riemergere con le reliquie in mano. A che punto viene a mancare l’aria? Come si capisce quando è tempo di risalire? Penso all’opera di uno straordinario artista inglese, David Gamble – in particolare a una serie che ha esposto diversi anni fa, Silenzio, dedicata alle vittime di stupro. I quadri erano bellissimi, ma altrettanto inquietanti, quasi angoscianti. Quando all’epoca ho intervistato Gamble, mi ha detto che per dipingere si doveva immergere totalmente nello stato mentale che desiderava esprimere, inoltrandosi in zone oscure e dolenti anche a costo di farsi invadere dalla depressione o, peggio, dalla disperazione. Se riusciva a tenere aperta una finestrella di luce, però, era in grado di fare avanti e indietro senza tema di restare incastrato o smarrirsi.

Ora che ci penso, lassù, sotto il tetto del mattatoio, alcune feritoie lasciano entrare la luce del giorno. Nonostante il bagliore accecante delle lampade al neon che illuminano le aree di lavoro quei raggi, pallidi e delicati, sono percepibili se solo alziamo lo sguardo. E la bimba che fruga nella discarica per costruire la sua casa di bambola, porta cibo a due cavalli spuntati dal nulla, lascia briciole di pane sulla soglia per accattivarsi un dio parecchio improbabile, ma chissà… Anche la bambina è un raggio di pura, semplice luce del giorno.

 


Dimitris Lyacos (Atene, 1966) è scrittore, poeta e drammaturgo. La trilogia Poena Damni, iniziata trent’anni fa e concepita come un eterno work in progress, è una delle opere più note e rispettate della letteratura europea contemporanea e lo ha reso uno degli autori più significativi del nostro tempo (inserito nel Who’s Who, il database che raccoglie le biografie delle persone più importanti in tutti i campi dell’attività umana). Rinomata per lo stile provocatorio e la combinazione innovatrice di elementi che provengono tanto dalla tradizione letteraria quanto dall’ambito della religione, della filosofia, dell’antropologia, l’opera di Lyacos riesamina il corpus narrativo del canone occidentale nel contesto di alcuni dei suoi motivi più duraturi, in particolare la violenza, la malattia mentale, la redenzione, il capro espiatorio, il ritorno dei morti. Completata nel corso di trent’anni, è stata tradotta in più di venti lingue e ha ispirato creazioni musicali, visive e teatrali. Alcuni capitoli tratti da Finché la vittima non sarà nostra – il “grado zero” della trilogia, uscito il 2 maggio in Italia, in anteprima mondiale, per il Saggiatore – sono stati recentemente pubblicati in inglese su alcune tra le più importanti riviste americane: «MAYDAY», «Image Journal», «River Styx» e «Chicago Review».

 

Lyacos
Toti O’Brien, Collateral, dittico, mixed media, 25×63 cm, 2025.