Disadorna. Intervista a Rossella Renzi ⥀ La Punta della Lingua 2022

In vista dell’incontro sulla Poesia italiana d’oggi che si terrà mercoledì 22 giugno ad Ancona, in occasione del festival La Punta della Lingua, un’intervista a Rossella Renzi sulla sua ultima pubblicazione di poesie, Disadorna (peQuod, 2022)

 

Comincerei parlando del titolo della tua raccolta, Disadorna. Questa parola torna nei tuoi versi in due contesti distinti, ma che mi sembrano avere in comune una certa idea di limen, o soglia: il tempio disadorno in cui si prega e la falena, disadorna anch’essa, che si fa messaggera, segno… È forse già questa, per te, una dichiarazione di poetica?

Disadorna è una parola che da tempo torna nella mia mente, condiziona il mio modo di guardare le cose e forse di pensare. Mi attrae molto il prefisso dis- perché implica una prospettiva differente, che in qualche modo si dissocia da quella scontata e maggiormente condivisa. Se da una parte può rappresentare il rovesciamento di un significato concepito come positivo, dall’altra porta a rilevare una anomalia, qualcosa che si presenta come distante, disforme, dissimile… Certamente credo di essere stata influenzata, nel processo di composizione, anche da questo aggettivo: vorrei infatti che il mio modo di scrivere fosse scevro, spoglio, libero da ciò che non serve, dalle sovrastrutture linguistiche, sintattiche, semantiche… ma so che questo modo di operare richiede un percorso faticoso, implica molte rinunce.
Il titolo del libro è anche una parola che riecheggia opere che per me sono state fondanti: non posso dimenticare Millimetri di Milo De Angelis (1983) che mi ha profondamente segnata, con quella poesia che ogni tanto recito a memoria: «Ora c’è la disadorna / e si compiono gli anni a manciate…»
Al gesto dello scrivere associo quello del camminare: camminando a lungo ho imparato a portare con me solo il necessario, l’essenziale, ciò a cui non posso e non voglio rinunciare. Non è una questione di semplicità, ma una ricerca costante per conoscere se stessi e il mondo, per capire cosa realmente si desidera, si vuole, si deve a se stessi e agli altri. Nel desiderio e nella ricerca si incardina la poetica: quale parola, immagine, suono desidero fortemente portare con me, sulla pagina, nel libro, dentro un’opera?
Il tempio disadorno non permette distrazioni, lascia allo spirito la libertà e lo spazio di elevarsi, di materializzarsi nella pietra spoglia, nella colonna levigata, nella volta perfetta… nel silenzio assoluto che la preghiera chiede. Vorrei però specificare una cosa: l’aggettivo disadorno non implica, nella mia visione, qualcosa di misero o desolato; proprio perché concepito per la sua essenzialità, questo spazio deve essere costruito con materiali puri e pregiati, con tecniche raffinate e ricercate, deve essere una struttura nobile, sacra, preziosa ma allo stesso tempo priva di orpelli. Può sembrare una contraddizione, ma è anche questo il senso in cui concepisco la Poesia.
Infine, anche se con apparente accezione negativa, dovuta a quel prefisso di negazione, trovo che questa parola sia evocativa, magnetica, dotata di una sonorità particolare. Credo dunque che tu abbia ragione: disadorna è anche una dichiarazione di poetica, e allo stesso tempo ritrae la creatura che attraversa il libro, nelle sue molteplici forme e nature, ma sempre tendenzialmente disadorna. È innamorata del buio, ma cerca la luce, è ancora bozzolo, ma poi esplode come farfalla, è una scintilla, una fanciulla, una madre, una nonna, un corpo morto senza dimora.

 

Su questa soglia fa capolino un’umanità dolente, che in almeno uno dei primi testi della raccolta prende corpo nei profughi di Lipa, ma che arriva a comprendere la vita di tutti. Mi viene naturale chiederti quale relazione c’è, se c’è, nei tuoi versi, tra privazione sofferta e quella che nella prima sezione tu chiami possibilità del volo.

Esiste una relazione molto stretta, dal momento che nei miei versi, nelle preghiere, nei desideri nutrititi quotidianamente, c’è sempre la possibilità – per l’essere vivente – di poter spiccare il volo. In primo luogo per elevarsi da una condizione di prigionia, di sofferenza, di privazione. In secondo luogo per approdare ad una dimensione libera dalle catene del reale, che si fa ogni giorno più complesso, ambiguo, soffocante.
La parola possibilità mi fa pensare all’energia, e quindi al movimento e alla liberazione. Sia in senso privato, intimo, personale che in senso generale, relativo alla condizione umana. Un pensiero particolare è rivolto – anche nel mio lavoro di scrittura – a chi è nato dalla parte sbagliata del mare o della terra (penso al bellissimo album di Gian Maria Testa Da questa parte del mare). Il tema della migrazione mi è sempre stato a cuore, anche se non so affrontarlo in maniera programmatica in poesia. Qui, le vie che prendono le parole, i componimenti, le opere, sono prive di una logica a priori (ad esempio, scrivo un libro sulla condizione dei migranti…): fin ora non ci sono riuscita e non credo che diventerà per me un modus operandi. Ciò che mi trascina e mi induce a scrivere è altro, non sempre lo avverto chiaramente perché è estraneo alle logiche del fare programmato a tavolino. Sono d’accordo con Charles Simic quando afferma che «le parole fanno l’amore sulla pagina come le mosche nella calura estiva e il poeta è un semplice spettatore attonito. La poesia è un prodotto del caso non meno che dell’intenzione. Forse soprattutto del caso».
Nella tua domanda fai riferimento alla «vita di tutti»: essa ha sempre bisogno di una possibilità, di transitare su questa terra in modo dignitoso, di trovare la propria strada, di raggiungere le proprie mete, di pensarne altre più distanti e luminose. La mia poesia ha un occhio sul mondo, ne osserva le vicende, ne contempla le lacrime, lo strazio, la meraviglia; ma altri occhi si aprono su altri mondi, che non sono sempre riconoscibili o rintracciabili… anche questo risponde ad un desiderio di libertà.

 

La tua raccolta si apre al dialogo con una pluralità di voci: María Zambrano, Yves Bonnefoy, Simone Weil, Osip Mandel’štam… C’è però un momento in cui questo dialogo si fa particolarmente serrato, ed è la sezione intitolata alla scultrice Camille Claudel. Nei tuoi versi Camille diventa una sorta di nuovo demiurgo, mi sembra. Ti va di parlarne?

Farei una distinzione tra tutte queste presenze citate nel libro. Anzi, ci sarebbe da raccontare in modo approfondito il rapporto con ciascuno di questi autori, autrici, artiste: servirebbero pagine e pagine. D’altronde, un libro è anche il frutto di anni di letture, riflessioni, ricerche, appunti disseminati ovunque… tutti i poeti costruiscono – immagino – un loro Zibaldone.
Gli autori citati in esergo – come Zambrano, Weil, Bonnefoy – hanno lasciato in me segni profondi, quasi graffi che hanno direzionato le mie letture e il mio modo di comporre, in modo non sempre chiaro e lineare. Nel tempo si formano come degli strati, dei sedimenti che alla fine lasciano emergere una materia nuova, filtrata: la mia, che si mostra però sempre in tensione… Ciò che ha scritto Bonnefoy in quei due, tre versi, io non riuscirò mai a dirlo, ma ci provo, con queste poesie, con le prossime, fino all’ultima delle sillabe che riuscirò a scrivere. Questo è il punto.
Osip Mandel’štam è stato un amore fulminante, scoperto grazie ad un amico che mi ha regalato Conversazione su Dante e poi Quasi leggera morte: è stata una folgorazione, che credo abbia nutrito ulteriormente il mio sentire poetico degli ultimi anni, quindi non potevo non includerlo in Disadorna.
Queste voci hanno direzionato e illuminato il mio modo di fare poesia; ce ne sarebbero molte altre, in verità: anche qui ho trattenuto l’essenziale. Un libro è un’opera talmente complessa, articolata, gravida di suggestioni, immagini, riflessioni che non sarà mai il frutto di una sola penna: è il risultato della mescolanza e della sedimentazione di anni, di percorsi, di vie.
Con Camille Claudel, invece, il discorso è diverso: lei è stata per me una vera Musa ispiratrice. Pur non essendo una profonda conoscitrice di questa straordinaria artista – sebbene abbia letto di lei e delle sue corrispondenze – attraversando le sue opere e i suoi scritti, ho sentito una sorta di affinità fraterna, una solidarietà muliebre (che parola antica!) nel suo modo di lavorare e di dare forma. Claudel possiede una capacità scultorea così piena di fragilità e di potenza, nel plasmare la materia, che mi ha letteralmente travolta e che ho sentito e voluto molto vicino alla mia scrittura. Anzi, vorrei tantissimo imparare a scrivere come Camille sapeva scolpire. In aggiunta, mi ha molto coinvolto la sua storia personale: il fatto che abbia dovuto lottare per poter affermare il suo talento in un periodo storico e in un contesto in cui alle donne era concesso davvero poco. Con Camille Claudel torna l’immagine e il concetto di possibilità del volo.

 

La tua scrittura è di un lirismo sobrio, misurato e chiaro, ma a un tempo fortemente evocativo. Senza voler con ciò tracciare una genealogia, ti chiedo quali sono gli autori ai quali ti senti più vicina e in che modo.

Gli autori e le autrici di riferimento per me sono moltissimi e ne scopro quotidianamente di nuovi, se sollevo lo sguardo e cerco nuove prospettive, ad esempio considerando altre lingue e altre culture, o i poeti emergenti o quelli dimenticati dalla critica e dall’editoria. In questi venti anni – periodo in cui ho organizzato e lentamente costruito la mia officina poetica – ho accolto sugli scaffali della libreria e tra i miei appunti, decine se non centinaia di poeti e poetesse. Nel frattempo anche la Poesia e il suo mondo sono radicalmente cambiati, mentre io ancora devo capire con chiarezza la mia direzione. Ma penso che la Poesia risponda anch’essa alla principale legge della fisica: nulla si crea, nulla si distrugge… e chi ha deciso di abitare questo mondo ne deve cogliere e accogliere le trasformazioni.
Se devo rispondere con qualche indicazione più precisa, partirei proprio dall’origine: dalle letture fatte al Liceo, quando imparai ad amare Leopardi e poi Foscolo e i romantici. Per arrivare al Novecento, dove la selezione è veramente difficile: il primo amore è sicuramente Eugenio Montale, su cui ho scritto la tesi di laurea, realizzando un confronto sull’uso della sua lingua in poesia, con altri Maestri quali Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Giovanni Giudici. Poi ho conosciuto e amato Giorgio Caproni, Antonio Porta, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, e puntando l’attenzione sugli autori stranieri, ricordo Emily Dickinson, Thomas Stearns Eliot e le più contemporanee Anne Sexton, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann. Amelia Rosselli è stata la prima poetessa su cui mi sono cimentata per scrivere un breve saggio, nel lontano 2003. Trovai la sua poesia difficile, dura, ma piena di energia e di lirismo, di forza e di grazia allo stesso tempo. Decisi di scrivere un articolo su La libellula, poiché mi attarevano le immagini e le tematiche di quel poemetto: «Gli scenari sono oscuri, ignoti, sospesi tra realtà e dimensione onirica, popolati da figure orribili, spettri e da angeli bellissimi. La voce di donna emerge sofferente in un monologo che tende a farsi dialogo, quando si rivolge ad un interlocutore muto – uomo dolce e insieme brutale –, immagine di nera solitudine». Da allora, rileggo periodicamente questa grande voce della poesia (come molte altre), per cercare di carpire ogni volta un nuovo frammento di quella poetica, per integrarla in qualche modo con la mia.
Infine, credo di avere un bel rapporto con autori viventi, che cerco di leggere ma anche di ascoltare dal vivo. Mi sono avvicinata alle voci del mio tempo quando frequentavo l’Università di Bologna: incuriosita, assistevo alle letture organizzate in città e nei dintorni. Devo il mio ingresso nel mondo della poesia al mio professore di Letteratura, Alberto Bertoni, lui stesso ottimo poeta. Era l’inizio del nuovo millennio: una grande emozione poter incontrare i poeti in carne ed ossa nelle piazze, nelle osterie, nei centri sociali e culturali.

 

In più di un caso i tuoi versi mi hanno fatto pensare a una scena del film Nostalghia di Andrej Tarkovskij: il protagonista tenta di attraversare una vasca termale vuota senza che la candela che tiene tra le mani si spenga, e per riuscirci ricomincia più volte da capo il cammino. È possibile secondo te che la poesia sia in qualche modo destinata alla salvaguardia di ciò che è più fragile? Che sia questa forma di fedeltà alla luce?

La scena del film che descrivi è accompagnata da un monologo straordinario, intriso di slanci poetici assoluti, che provocano brividi solo a ripensarci. Non per nulla questa pellicola è il frutto di una collaborazione con una geniale mente poetica, quale è stata quella di Tonino Guerra. Sono contenta che il mio libro abbia generato in te questa riflessione.
La fragilità è un tema costante delle mie letture e della mia scrittura, ricordo che la prima sezione del terzo libro, Dare il nome alle cose, si intitola proprio Fragili frammenti. Essa fa parte della vita di ciascuno di noi, è una condizione carica di significato che può servire a meditare sui gesti e i comportamenti di ciascuno, per predisporsi all’accoglienza, all’ascolto, alla protezione nei confronti dell’altro («se volete che il mondo vada avanti, dobbiamo tenerci per mano, ci dobbiamo mescolare» afferma, in proposito, Domenico nel monologo di Nostalghia). Non dimentichiamo che negli ultimi due anni tutto il mondo è diventato improvvisamente e inaspettatamente fragile, a causa del dramma della pandemia. Cosa può fare dunque il poeta e qual è il compito della poesia a fronte di questi vissuti? Chi scrive sente la necessità di raccontare qualcosa del mondo – proprio e di tutti – e del tempo in cui vive, compresa la fragilità. La poesia, a mio avviso, ha la funzione lasciare traccia del nostro passaggio su questa terra, non diversamente da come faceva l’uomo preistorico, tracciando impronte e graffiti rupestri migliaia di anni fa.
Dunque sento la poesia come destinata alla salvaguardia della verità, intesa come verità autentica. Un’autenticità primordiale e libera dai sistemi inquinati e torbidi del mondo della comunicazione, della politica, del cosiddetto progresso civile e sociale… In questo senso, certamente la poesia può essere una forma di ricerca e di fedeltà alla luce. Una luce che filtra attraverso il buio, l’ombra, una crepa, «una maglia rotta nella rete / che ci stringe» per dirla proprio con Montale.
Vorrei concludere la mia risposta, tornando proprio sulla scena di Nostalghia: ricominciare da capo un cammino somiglia a quel gesto dell’andare a capo per ricominciare un verso e comporre un testo, come la poesia chiede. Serve una luce, seppure tenue, per proseguire il cammino, per procedere verso una direzione; per dare senso ai nostri passi e al nostro viaggio in questo mondo, e in quelli immaginati, continuando a nutrire e a desiderare – nell’arte come nella vita – una possibilità del volo.

 

 

 

Tu che lo sai, dimmi cos’è
essere luce in questo lamento
che arriva da lontano.

Essere luce nel fragore
nel desiderio, nella speranza
quando la vita si schianta.

Dimmi il peccato nella mano tesa,
nella lingua del corpo che si fa canto.

 

 

Ci scorderemo di tutto
non sapere sarà la nostra verità
mentre l’acqua inizia a tracimare
ripassiamo le nostre iniziali.

 

 

C’è un punto sul collo
tra cuore e clavicola
dove si raccolgono le lacrime.

Nel solco appena accennato ristagna,
fa male. Se scavi in quel punto, Camille
comprendi una figura di madre
il suo corpo, gli occhi più grandi
il dolore non detto
le mani incrociate sulle ginocchia.

 

 

Apro gli occhi intorno è buio
crepe sul mio ritratto
polvere sul vetro
una cornice sghemba
siamo chiusi nell’umano rumore.

Uno schianto di stelle
questo inizio d’agosto.

 

 

Eri scintilla o la bestia che fugge
esiliata nel chiaro di bosco
eri fanciulla ferita nel fianco
la madre con due rose sul grembo.
Eri seme, frutto, ramo spezzato
il silenzio nella tana del fuoco.
Eri la parte migliore del giorno
l’ultimo volo possibile.