Distopia da videogioco: nascita ed evoluzione
La narrativa distopica, fra satira e manifesto, è per definizione il principale stigma di una visione catastrofista della realtà. Nata su carta, adattata sulla celluloide e oggi codificata per una nuova formula di promulgazione: quella del videogioco.
Nella formulazione didascalica del termine distopia, osserviamo in maniera del tutto assiomatica come questa ci abbia portato, nel corso della storia moderna e contemporanea, a visionare un numero indeterminato di realtà nefaste, venefiche e prive di ogni sostanziale diritto civile ed etico. La privazione di questi, o persino la loro totale estinzione, ha spinto molti creativi a dedurre e redigere soggetti verosimili, fortunatamente distanti, ma tristemente non irrealizzabili. Dalle società assolutiste e amorali descritte dai sempre meno ovvi Orwell, Huxley e Zamjatin, alle contrapposizioni umanitariste a quelle fideistiche di Benson. La letteratura della prima metà del secolo scorso ha gettato le basi identitarie di un mondo socialmente estremo, eppure, la privazione costituzionale non è l’unica deriva dettata dalla letteratura distopica.
Sin dagli atti finali del diciannovesimo secolo, autori e autrici del calibro di Wells, Flammarion, Shiel e la sempreverde Mary Shelley, hanno rettificato la fine sistematica dell’umanità sotto l’egida della più solenne delle scritture sacre: l’apocalisse.
Ma quand’è che questa viene ufficialmente sposata dalla cultura moderna? Quand’è che questa diviene ufficialmente pop?
Per quel che mi riguarda, la data ufficiale che sancisce la nascita della distopia popolare è da ricondursi al 16 luglio del ’45, giorno in cui ad Alamogordo venne condotto il primo test nucleare a fine bellico della storia: il Trinity Test.
La genesi dell’era atomica e la conseguente nascita delle armi di distruzione di massa, non più confinata nell’immaginario, ma rettificata nella realtà.
L’avvento del pulp magazine costituisce, dal punto di vista filologico, la più radicale e al contempo virale diffusione della scrittura suddetta apocalittica, enumerando le molteplici e proteiformi realtà in cui il genere umano incombe in un’estinzione data. Dall’istituzione della Atom Age, alla promulgazione di nuovi sottogeneri letterari avant-pop — fortemente estetizzati e corroborati dalla parallela innovazione scientifica sempre più onnipervadente — la distopia è riuscita al pari dei più classici stilemi letterari, ha rinnovare e influenzare ogni medium oggi esistente: settima e nona arte in primis. Eppure, negli ultimi venticinque anni, una nuova formula di espressione narrativa si è presentata al drappello, un linguaggio che senza alcun dubbio ha saputo esprimere, senza risultare secondo a nessuno, il più classico e primevo dogma distopico: il videogioco.
A partire dalla prima metà degli anni novanta, il medium videoludico è riuscito, forse soggetto a cambiamenti naturali, a mutare la propria forma intrattenitiva che, oltre a offrire l’ovvia esperienza ludica, proponeva una narrazione esplicita capace di mostrare un vero processo sceneggiativo. Naturalmente, già nel decennio precedente molti classici arcade proponevano un soggetto narrativo, questo però, sopito perlopiù dall’esperienza di gameplay. Con l’evolversi della tecnologia — e con essa le grandi opportunità per produttori e sviluppatori — si diede il via a una nuova frontiera di esperienze di gioco, questa volta disposte di topos davvero sorprendenti.
Prendendo in esame il tanto blasonato Metal Gear Solid (1998), notiamo come il suo creatore, Hideo Kojima, sia riuscito a proporre un soggetto i cui caratteri presentano non poche analogie con certi stilemi distopici: una realtà parzialmente traslitterata dai suoi classici ordinamenti storici (che lo rendono di fatto un’ucronia), ove la Guerra Fredda e i conflitti contemporanei si basano perlopiù sulla realizzazione e l’impiego di sistemi d’arma, la cui genesi e tutto fuorché etica; una realtà in cui gli ordinamenti sociali che determinano lo scandire della civiltà umana sono minati da incombenze tanto amorali, quanto potenzialmente apocalittiche. La natura del progetto Les Enfants Terribles, la progettazione e lo sviluppo dei sistemi d’arma bipedi Metal Gear, o persino la declinazione bellica delle avveniristiche nanomacchine.
Non di meno considero un’altra fondamentale pietra miliare della videoludica nipponica: Biohazard, per noi occidentali, Resident Evil (1996). Il celebre titolo Capcom è noto ai più per essere uno dei capostipiti del genere Survival Horror, eppure, anche in questo caso è possibile notare la presenza di uno dei temi più trattati nella distopia contemporanea: il sinistro e sconfinato potere della genetica.
Nel 1954, Richard Matheson, scrive e pubblica uno dei più simbolici e rilevanti romanzi distopici della storia: Io Sono Leggenda. Un’opera che mostra la devastazione e la desolazione che un batterio ha causato all’umanità, trasformando buona parte di essi in vampiri. Tralasciando la lettura intrinseca del romanzo, che sfocia in ben altri temi, è possibile costatare quanto il suo soggetto sia stato rilevante nel corso degli anni a venire, proponendo uno standard concettuale essenziale per chi, come Romero, ha basato parte della sua carriera artistica su argomenti analoghi, Resident Evil compreso.
Rimembrando la sopracitata Atom Age, non possiamo esentarci dal citare uno dei suoi massimi rappresentanti in tema videogiochi: Fallout (1997). Reso celebre per la sua preponderante componente ruolistica, il titolo Interplay ebbe modo di mostrare le conseguenze della guerra atomica, e con essa, i pericoli che ne conseguivano, comprese tutte le variegate amenità causate dall’esposizione radioattiva. Temi, in larga parte trasposti dalle numerose pubblicazioni su notorie riviste come Amazing Stories e Weird Tales. Quando Bethesda Softworks acquisì la medesima proprietà intellettuale, con la successiva pubblicazione di Fallout 3 nel 2008, gli effetti nefasti e apocalittici dell’olocausto nucleare vennero enfatizzati come mai prima. Immersi in una effervescente atmosfera Atom Punk, il motore grafico Gamebryo mostrava, senza mezzi termini, l’aridezza e la mestizia dell’autodistruzione causata, ancora una volta, dalla sola avidità di pochi. Sempre sotto la cura di Bethesda, Rage (2011), ottimo sparatutto in prima persona pubblicato nel 2011, ripropone in alternativa ai concept di Fallout, atmosfere archetipe più prossime all’appariscente Steel Punk, sdoganato globalmente nel ’81 con Mad Max 2 (Interceptor – Il guerriero della strada) oltre ai numerosi epigoni nostrani procrastinati dal grande Aristide Massaccesi in arte Joe D’Amato.
La fine dell’umanità intesa come massa di organi, sangue e sinapsi, può non essere la sola alla quale la distopia può assurgere. Si considera infatti distopia, anche la totale perdita dell’etica umana, intesa come negazione della stessa in favore di teorie transumaniste radicali. Grandi letterati della levatura di William Gibson, Philip Dick, Bruce Sterling e Iain Banks hanno trattato l’evoluzione bio-tecnologica umana in chiave sì scientista, ma evidenziando la conseguente decadenza materica che una realtà simile è capace di produrre. Si aggiunge anche, che una tale costruzione stilistica, nota prevalentemente come Cyberpunk, mostra come l’eccesso di antropizzazione abbia causato ogni deriva umanitaria e ambientale possibile.
In Deus Ex: Human Revolution (2011) di Eidos, la suddetta “rivoluzione umana” rappresenta nella sua riduzione la perfetta dicotomia che incorre fra distopia e utopia: da una parte osserviamo l’inconfutabile opulenza che il progresso comporta, medicina e protesistica in primis; dall’altra, invece, offuscati da lisergiche scale cromatiche al neon, non notiamo come l’uomo abbia perso il suo individualismo, la sua umanità, spesso in favore di una digitalizzazione talmente profonda da generare basse convinzioni preconcette come il razzismo, favorendo di netta conseguenza l’attuazione di violente soluzioni come la ghettizzazione. In futurologia, l’esplorazione metodologica dei processi evolutivi umani in ambito scientifico, enumera una lunga serie di esistenze benefiche e progressiste più canonizzabili nel genere utopico, pur tuttavia presentando delle eccezioni. Il raggiungimento di una singolarità tecnologica in favore di un’autocoscienza digitale è stata particolarmente veicolata dalla cultura popolare, spesso sublimata a estremi catastrofici; basti prendere il sempreverde Terminator di James Cameron per dare una rapida esemplificazione.
Con Horizon Zero Dawn (2017) di Guerrilla Games, il raggiungimento della singolarità tecnologica rappresenta la vera e propria “catarsi apocalittica” nonché la costituzione del McGuffin narrativo che più di altri è riuscito nel intento di mostrare la declinazione più catastrofista possibile di un’autocoscienza digitale.
Apprendere dalla storia le conseguenze di una guerra globale, ha suggerito una cospicua mole di soggetti che si sono alternati più o meno assiduamente fra i vari medium; fra questi, nel caso specifico dei videogiochi, ve ne è uno, non particolarmente noto, che suggerisce una peculiare variante – o sottogenere se rimane più comodo – del tema distopia.
Homefront (2011), pubblicato da THQ e sviluppato dal defunto Kaos Studios, ci vede nei panni di un partigiano impegnato in una guerra di resistenza su suolo americano. Soggettato nientemeno che da John Milius (che rivisita il suo Alba Rossa), ci propone il dramma dell’occupazione militare, della repressione e dello sterminio, elementi reali e per la seguente ragione, distopici.
Questa costituzione narrativa, propone in larga misura le caratteristiche che più hanno identificato il genere nella seconda metà del novecento. La totale privazione dei diritti umani e l’omicidio di massa costituiscono lo scheletro di un canonico setting distopico, lì con l’aggiunta di una ben ponderata progressione cronistorica che de facto la rende, nel suo etimo, “alternativa”.
Più genericamente, alla base di una formula ucronica troviamo un quesito: “e se?”. Cosa sarebbe successo se l’Asse avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale? Philip Dick rispose alla domanda scrivendo La Svastica sul Sole (The Man in the High Castle), oppure cosa sarebbe successo se l’Impero Romano non fosse mai caduto? Roma Eterna di Robert Silverberg ci mostra la conseguenza.
L’Ucronia, il “What If”, non è da considerarsi necessariamente distopica, ma può esserlo, e nella maggioranza delle volte lo è, vedasi il Ciclo dell’Invasione di Harry Turtledove o il ben più celebre Il Complotto Contro l’America del premio Pulitzer Philip Roth. Homefront non è l’unica ucronia videoludica esistente, prendiamo per esempio uno dei primi shooter apparsi su Playstation 3, Resistence Fall of Man (2007); qui, in maniera non eccessivamente distante dallo scritto di Turtledove, dagli anni ’40, l’umanità si ritrova a combattere un’autentica minaccia aliena. Altra perfetta combinazione è rappresentata dal celebre franchise targato Id Software, Wolfenstein, che nelle sue ultime due pubblicazioni mostra un’ucronia in perfetto stile.
Può quindi, il medium videoludico rappresentare una nuova forma di linguaggio narrativo distopico? Solo fra gennaio e maggio 2019, sono stati pubblicati oltre dieci titoli il cui denominatore comune, guarda caso, è proprio la catastrofe. Dal celebre shooter Ubisoft Tom Clancy’s The Division (2015-2019), all’ultimo capitolo delle serie Metro (2019) ispirata all’omonima trilogia letteraria russa. Mondi devastati da incubi di ogni sorta, realtà in cui l’umanità è spinta verso la fine della propria specie, dimensioni in cui la “fine del mondo” è il solo retaggio di una civiltà che ha osato laddove l’etica non lo prevedeva. Ogni singolo espediente proposto da ognuno di questi titoli ci mostra quanto autodistruttivi siamo capaci di essere e quanto poco apprendiamo dalle conseguenze. In Days Gone (2019), esclusiva Playstation 4 sviluppata da Sony Bend Studio, un’agente patogeno ha messo in ginocchio l’umanità, uccidendo milioni di infetti e trasformandone altrettanti in predatori, fra le cui prede rientriamo noi, i superstiti. In questo stato di sopravvivenza precaria, notiamo come l’uomo non riesce a fare a meno dei suoi più meri istinti, come sopraffazione e violenza. Non saranno infatti gli infetti a rappresentare il pericolo maggiore, ma coloro che sono sopravvissuti. D’altronde come disse un grand’uomo: “Quando i morti camminano, signori, bisogna smettere di uccidere o si perde la guerra”.
Con l’uscita di The Last of Us Part II – il cui primo capitolo ha radicalmente riformato il genere distopico nel medium videoludico – ma soprattutto l’imperscrutabile Death Stranding di Kojima Production, distopia e videogioco raggiungeranno definitivamente la medesima simbiosi che narrativa, cinema e fumetto condividono ormai da decenni.

Andrea Bollini
Andrea Bollini, collabora con diverse realtà legate alla cultura e all'intrattenimento. Per Argo gestisce la rubrica Mixis.