Doveri di una costruzione ⥀ Davide Castiglione e la costruzione morale del nostro tempo
Davide Castiglione e la sua ultima raccolta poetica: Doveri di una costruzione (industria & letteratura, 2022) esprime l’oppressione della costruzione morale e la conseguente volontà di ritrovare quell’io che necessita però di una «comunità di intuizioni»
Doveri di una costruzione (industria & letteratura, 2022) è un titolo pesante. Non mi si fraintenda: con questo non voglio dire, banalmente, che sia un titolo che preannuncia un’opera noiosa. No: l’ultima opera poetica di Davide Castiglione proietta il lettore in una dimensione estremamente densa. Si attraversa questo mondo sentendosi come delle statue di Giacometti: continuamente pressati da forze esterne, che ci comprimono e ci costringono a diventare sempre più esili, sempre più fragili.
Tuttavia, è difficile poter definire tale pesantezza come concretezza. Nella poesia New Town si cammina tra le architetture di città progettate per essere costruite in tempi brevi e subito funzionali: «l’utopia vergata sul libro mastro/ è un’armata di romboidi una legione di ottagoni» (p. 33). In questi versi si condensa l’idea che pulsa all’interno del libro: ogni tentativo di poiesis, di fondazione di un nuovo mondo all’interno della poesia, viene frustrato dall’imposizione di schemi rigidi. La “nuova città” non ha nulla di vivo, ma è un «esperanto traslato in cemento» (p. 33): un linguaggio che non scaturisce dall’esercizio della parola, ma progettato e imposto dall’alto. A questa poesia bisogna affiancare, così come fa il libro, Copycat City: con questo titolo si fa riferimento a quelle città in cui sono presenti copie di monumenti di altri luoghi più famosi. Nella poesia si nomina l’«ologramma», un elemento che conferma come il mondo costruito da Castiglione occupi un proprio spazio, ma non abbia una sua matericità. Nella poesia si legge: «La schiuma [dello spumante] sarà dispersa/ come il seme in discoteca» (p. 35) e questi versi permettono di considerare il lavoro di Castiglione come una critica ai giochi postmoderni o, meglio, come una forma di frustrazione nei confronti di essi. I “brandelli” dal passato, che nella letteratura postmoderna venivano rielaborati per dare forma a nuove storie, in Castiglione sono “seme disperso”: quel gioco è diventato vuoto onanismo, non più capace di dare vita a qualcosa di completamente nuovo, ma a semplici ripetizioni.
Fin qui, si può dire che Doveri di una costruzione si confronti con il concetto di riproducibilità tecnica, così come ne ha parlato Walter Benjamin: il lettore viene immerso in un mondo senza più aura, dove ogni cosa perde la propria unicità per trasformarsi nella mera copia di un’idea. Ogni elemento di questo mondo poetico è un “campione”, cioè un pezzo rappresentativo di un prodotto in serie, come un bullone o un elettrodomestico. Da questo punto di vista, è significativo il passaggio: «Da casse insabbiate pompano a vuoto/ cover senza più originali». La ripetitività esiste in sé per sé, come forma tumorale che cresce senza una direzione e non più come ripresa dell’origine/originale. E lo stesso io poetico è costantemente posto di fronte alla consapevolezza di essere solo un campione. Da questo punto di vista è emblematica la poesia Francisco:
Gli italiani avete la faccia triste. Me lo dice
trascinandosi Francisco, e sì: quello
vestito di tutto punto non sa
se fissare il niente o la borsa in pelle.Sistema il nodo della cravatta, la
tortura con accorta compostezza
(riflettono gli occhiali qualcosa che
si spezza). Stavo per diventare cosìanch’io, Francisco imbuca la tequila
sotto il letto a nolo e scalda la radio
un ritmo di bachata ZacaríasFerreíra è mio prozio sabes chico
che nella Repubblica Dominicana
in Nicaragua in Ecuador a Panama
c’è povertà ma si balla. Sbilancia
la voce pastosa e le spalle sciolte
in un passetto, la t-shirt gialla
non sta più nella pelle gli fa difetto.
Ora il tristo tutore si è scucito
da sé con perizia. Francisco taglial’abito di quest’aria circoscritta. Io
che non so fare il nodo alla cravatta
che non so cucirmi da me, stupito,
attraverso il possibile di essere voi (pp. 114-115).
Sin dal primo verso, l’io poetico viene assorbito da una generalizzazione. La tristezza che traspare dal suo volto non è qualcosa di specifico, legata alla sua condizione, ma un tratto condiviso, che lo spersonalizza e lo rende una mera individuazione di una categoria, “gli italiani”. Da notare come la stessa voce poetica non riesca a fare a meno degli stereotipi: il suo interlocutore, che dà il titolo alla poesia, viene descritto attraverso frasi che rinviano a un immaginario stantio dell’America del Sud: la «tequila», la «bachata», per concludere con il luogo comune «c’è povertà ma si balla». È impossibile cogliere l’individualità di Francisco, perché qui appare soltanto come un’incarnazione di quello che si dice sull’America Latina. L’«Io» è la parola che compare alla fine del primo verso dell’ultima quartina, sola, ma come eccedenza della frase precedente al di là del punto. Quest’io si definisce solo attraverso ciò che non sa fare, alla sua incapacità, che gli impedisce di annodarsi la cravatta, di trovare una propria eleganza, un proprio stile. L’ultimo verso è fondamentale per capire l’intera opera di Castiglione, ed è lo stesso autore ad attirare l’attenzione su di esso, non solo perché lo pone a conclusione della poesia, ma anche perché lo eleva a titolo dell’ultima sezione del libro: il possibile di essere voi.
In Doveri di una costruzione, ogni personaggio rischia di essere inglobato nella massa, nel “voi”. Come i famosi ritratti di Andy Warhol, gli esseri umani di Castiglione non sono individui, ma sagome rappresentative di un certo modo di essere:
Polo blu, sguardo da squalo annoiato.
Stasera il mondo gli va di traverso.
Schiaccia la mentina contro il palato.
L’ha sciupata, ha perso il refrigerioche placa i muscoli e non fa azzannare.
Fulmine, roccia, riparo, poi sposo.
Per lei è stato questo. Più le sbarre.
A malapena saprebbe inventarleuna storia, un nomignolo affettuoso.
(Con le prove di forza, molto meglio).
Lei che non è bella ma che per abito
ha una fiamma che pare cartavetro;si gonfia nel ballo lei, e dentro ha maree
che la sollevano. Non sa trattenersi,
le esondano i seni, stessero fermi,
lui è questo che vuole. Non ha l’animodi unirsi a lei, ai suoi allegri parenti
che festeggiano ma cosa, la lesbica
che convola con l’altra, causa persa,
pagliacciata, vergogna, tutti quanti.L’ha sciupata, ha perso il desiderio.
Non slaccerà mai più un solo grado
queste braccia a X – lui squalo annoiato
e incognita conserta nella polo (pp. 67-68).
Questa poesia si intitola, significativamente, Giochi di ruolo. E, di fatto, il protagonista non ha una sua identità precisa, ma ricopre semplicemente il ruolo di “maschio”. Un uomo che rifiuta la dolcezza («A malapena saprebbe inventarle/ una storia, un nomignolo affettuoso») per affermarsi come essere virile («roccia», «riparo»), se non proprio violento («con le prove di forza»), sicuramente omofobo (il disgusto provato di fronte all’allusione di un matrimonio tra donne): egli non è nient’altro che l’ennesimo uomo conforme alla visione del mondo patriarcale. La figura femminile è descritta dalla voce poetica, al contrario, con immagini molto efficaci, originali: «Lei che non è bella ma che per abito/ ha una fiamma che pare cartavetro;/ si gonfia nel ballo lei, e dentro ha maree/ che la sollevano». Eppure, subito dopo, la freschezza di questa donna viene presto sciupata: la si incatena nell’immaginario virile, che confina la donna a essere puro oggetto di attrazione sessuale, in questo caso “due seni che esondano”.
Ora è possibile comprendere come l’espressione “doveri di una costruzione” nasconda un sentimento di oppressione. L’essere dei personaggi di Castiglione è un dover-essere: qui, però, non c’è nulla di neanche lontanamente morale, ma si tratta di un dovere come stereotipia, come mera ripetizione di schemi sociali, pregiudizi, tic verbali. «L’uomo pubblico/ è la sua pelle; la sua pelle il manifesto in piazzetta» (p. 69): ecco, il dover-essere di questi personaggi è un dover-apparire, dove la sostanza è l’immagine, non la consistenza. Addirittura, l’essere umano viene completamente svuotato di qualsivoglia caratteristica, anche quella più banale, per diventare mera cifra, come in questa scena in cui l’io poetico è impegnato a raccogliere i dati sui livelli di frequenza delle lezioni:
[…]
«ci servono dei dati sui livelli di frequenza.
La mappa è nel tablet». Mi barcameno,
nel campus sono l’occhio che annuisce
e computa le teste i livelli di frequenza
e li mette sul sistema (p. 14).
L’altro, in questi versi, è una “testa da computare”, una cifra per poter far funzionare il “sistema”. Ancora una volta, c’è un peso, ma non una concretezza. O meglio: c’è un valore, nel senso di numero, ma è completamente svuotato di senso. Eppure, è possibile intravedere ancora una possibilità per essere propriamente un “io”:
[…] lascerei alle spalle
i doveri di una costruzione e con essi
le polveri di questo mio stato incerto,
incerto e neonato. Ma la costruzione
pesa, a volte, pesano ancora i suoi blocchi.Ne uscirò impenetrabile, scosso, forse.
Una comunità di intuizioni chiamerò intorno,
poco importa se non si adunassero poi.
O forse sì, e piegheranno verso
una nuova
forma che mi costa
il travaglio di cento schizzi al carboncino
progressivi e numerati, prima che io rientri in me (p. 117).
Questo sembra essere un manifesto di “resistenza lirica”. Prima di tutto, perché l’esistenza dell’io poetico sembra possibile solo se ci si libera dai «doveri di una costruzione», da tutti quei «blocchi» che fermano la propria identità in uno schema. L’io è ciò che resta di un lavoro di pulitura, quando ci si libera della «polvere», ciò che resiste dopo che si è tentato di abbattere le “costruzioni” che ci opprimono. Eppure, l’obiettivo di Castiglione non è quello di fare un elogio del singolo, anzi: l’individuo che si lascia alle spalle le costruzioni ha bisogno di una «comunità di intuizioni», espressione pregnante per indicare un rifiuto di ogni forma di progettualità, intesa come, per riprendere un verso di Castiglione, una «to-do list» (p. 18). L’intuizione, al contrario, è frutto del caso e dell’attimo, più vicina alla dimensione sensibile che a quella razionale. Una comunità che nasce dalle scintille emotive che scoppiettano quando si sta insieme in maniera libera («poco importa se non si adunassero poi», perché questo stare insieme non deve essere l’ennesimo “dovere”), non una comunità formata da gente pressata in architetture frutto di un disegno astratto.
In secondo luogo, Castiglione propone, negli ultimi versi, anche un modo per uscire dalla riproducibilità tecnica senza rifiutare l’idea di ripetizione, nel senso di ripresa: alle copie si contrappongono gli schizzi preparatori. Gli schizzi sono una progressiva approssimazione alla “perfezione”, per quanto umanamente possibile, dell’opera finale: si riprende e non si ripete quanto già fatto, cercando di proporre uno scarto, rispetto allo schizzo precedente, che sia anche una miglioria. Al riguardo, potrebbe essere interessante tenere presente una sezione che sembra essere completamente slegata dal resto del libri: Giro dei rave ###. Nel paratesto, Castiglione afferma che essa è un «poemetto» frutto di «un montaggio di poesie scritte durante vari concerti elettronici, durante i quali ho provato a tradurre i suoni in parole nel loro accadere, abbandonandomi all’atto fisico della scrittura e a quello percettivo dell’ascolto» (p. 126). Qui Castiglione né cita, come fa il postmoderno, un’altra opera (la musica elettronica), né cerca di imitare la realtà, come ha cercato di fare l’arte dalla notte dei tempi, né contrappone a queste due operazioni l’invenzione di qualcosa di completamente nuovo: al contrario, l’autore cerca di rappresentare un linguaggio, quello musicale, in un altro, quello verbale. Inceppare la ripetitività ossessiva, rappresentata dalla musica dei rave, attraverso un processo di transcodificazione: in questa sezione sembra essere racchiusa la promessa di una poesia futura.
Gerardo Iandoli
La mia biografia: Gerardo Iandoli (Avellino, 1990) si è laureato a Bologna e dottorato all'Università di Aix-Marseille, entrambe le volte in Italianistica. Si occupa di teoria letteraria e rappresentazioni della violenza nella letteratura, nel fumetto e nelle serialità televisiva italiana degli anni Duemila. Scrive per la rubrica UniversoPoesia di Strisciarossa. Ha pubblicato un libro di poesie, Arrevuoto (Oèdipus 2019).