Spinti a ‘vedere tutto’ si finisce per non vedere più niente ⥀ Intorno a “Dovunque acqua sia voce” di Domenico Brancale
Rossana Lista scrive intorno all’ultima raccolta di Domenico Brancale, Dovunque acqua sia voce, libro in cui è evidente la lotta della lingua con e contro la lingua stessa, e in cui l’elemento dell’acqua fa da filo conduttore
Dialogare e riflettere intorno al libro di Domenico Brancale, Dovunque acqua sia voce accompagnato da acquarelli di Miquel Barceló (Edizioni degli animali, Milano 2022) mi riporta a ciò che Franz Kafka nel novembre del 1903 scriveva in una lettera a Oskar Pollak (storico dell’arte ceco, che era stato suo compagno di classe all’Altstädter Gymnasium): «Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi»1. Con questa immagine, in cui dominano la lama e il ghiaccio, Kafka assegnava al libro e alla letteratura in generale una missione necessariamente violenta perché fosse vivificatrice e rivelatrice, una violenza capace di spezzare quella stretta sorda e mortifera che perlopiù paralizza il nostro sentire come in un mare di ghiaccio. Ora, osando un po’ e volendo ridurre questa affermazione ai suoi elementi oppositivi, potremmo dire che ogni vero libro ingaggia una lotta, la lotta della parola contro l’acqua. Questa contrapposizione potrà sorprenderci solo nella misura in cui ignoriamo la potente ambivalenza simbolica dell’acqua, sostanza della vita ma anche sostanza della morte, inizio e fine2 di ogni destino. Ambivalente resta la loro relazione, anche la lingua lo sa, basti pensare all’espressione Acqua in bocca, con cui si invita qualcuno a mantenere un segreto o a mantenere la bocca chiusa. L’acqua contiene in segreto la parola, è dall’acqua che viene la parola e all’acqua aspira ogni linguaggio nella sua tensione di presa fluida dell’esistente: il desiderio della lingua è infatti quello di scorrere e vincere la resistenza muta e opaca del reale.
E allora Dovunque acqua sia voce: è questo il titolo che Domenico Brancale ha scelto per il suo libro e che senz’altro Kafka avrebbe riconosciuto come libro perfettamente rispondente a quella lotta all’arma bianca. Dovunque acqua sia voce è certo il primo verso di una sua straordinaria poesia, qui compresa (p. 115), ma anche il grido acuto di tutta la sua poetica, della lotta della lingua con e contro la lingua stessa, lotta che “fluisce” e resiste in tutte le opere di Domenico. Questo titolo, questo verso, è da intendere insieme come comando, monito e desiderio: Dovunque acqua sia voce è il comando della creazione poetica, erede di quella biblica che immaginava lo spirito aleggiare sulle acque e ad esse contrapporsi e che dovette farsi voce e parola perché ci fosse un cominciamento; Dovunque acqua sia voce è il monito che ascolta, consola e dà sfogo al vero dolore, che è muto o silente come le acque dormienti; Dovunque acqua sia voce è infine l’onda e l’imperio del desiderio, naufrago in quell’intimità umida che si getta e compie solo nella voce.
Nondimeno è il libro dell’acqua, un libro per assetati, un libro contro l’arsura, «Si beve tutto d’un fiato», se credessimo a ciò che nelle prime righe scrive l’autore. Ma questi, si sa, è poeta e fingitore, e così, forse per segnalare e insieme nascondere il luogo in cui stiamo per entrare, all’inizio pone in realtà un miraggio, che non è che uno scherzo ancora dell’acqua, giacché un miraggio è la proiezione di un impossibile apparentemente riflesso in una superficie d’acqua. Un miraggio dunque, perché questo libro non si beve come un bicchier d’acqua ma scava nell’inchiostro il vuoto della sete, precipitandolo nelle pause degli spazi bianchi, perché, come qui si legge: Nello spazio tra una parola e l’altra vive il pensiero, il respiro spezzato contemplazione della voce (p. 32). Il libro dell’acqua di Domenico Brancale conduce in realtà in mezzo al deserto, il luogo per eccellenza del silenzio e dunque della voce e della parola. Nell’ebraico biblico questa identità è pronunciata dalla lingua stessa: la parola per deserto è infatti midbar che viene dalla radice davar, parola, comandamento: il deserto è nel suo nome stesso il luogo della parola, poiché è in questo luogo che Dio si manifestò come voce, corpo immateriale di un Dio non rappresentabile, corpo di vuoto, proprio sull’esempio della voce il cui aprirsi insuffla del vuoto in un corpo pieno, in un corpo testuale, sulle corde del quale vibra la voce. Questo corpo è dello stesso genere di quello contro cui si imbatte Giacobbe: invisibile ma ciononostante denso. Il vuoto non è il niente. Ed è proprio in un luogo del tempo e dello spazio vuoto e remoto come remote e vuote le sue antiche divinità, vale a dire a Metaponto, che Domenico scrive:
Non c’è nulla di più edificante che attraversare il deserto. Saranno le due del pomeriggio. La controra. È il deserto. Una voce contro, qualcosa che non vuole riconoscermi. Sono così vicino alla pietra che non mi vedo (p. 68).
È in questa voce che si dà per così dire a «vedere» la presenza dell’assente, di cui possiamo comprendere la logica poiché, se il mondo è il luogo dove si sperimenta l’illusione della pienezza realizzata, la voce equivale a uno svuotamento di questo pieno. Più precisamente la voce provoca una faglia in questo pieno. E se la voce è faglia, «la parola, una ferita aperta nella voce. La poesia dice la lingua della ferita, dice l’avvenire del silenzio a se stesso» (p. 41). La lingua della ferita è però la lingua della grazia: «La ferita come bene necessario. Ferita creatrice. Ferita originaria. Prima di allora non sapevo cosa fosse la carne. La grazia della carne. Restare aperto. Aprirsi dentro» (p. 74). Questa apertura, questa ferita è la grazia dell’écart, dello scarto, di quella differenza che solo rende possibile l’intimità: L’intimo sta nella distanza tra la parola e la realtà (p. 76).
Il linguaggio e la voce sono intimi proprio in virtù della loro distanza: «Il linguaggio è il verso della nostra voce» (p. 40). Qui la parola verso sembra rifrangersi nei suoi molteplici significati, portandoci a tessere la complicata relazione che unisce e insieme oppone il linguaggio alla voce: il linguaggio è il verso della voce in quanto suo rovescio, la sua negazione giacché ogni linguaggio è un tentativo di saturazione del silenzio; è il verso che prova a raggiungere la radicale immediatezza del grido animale – Fai respiro. Fai voce. Diventa corpo. Il corpo della scrittura è vuoto. Ragliaci dentro! scrive Domenico nella sessione L’animale qui presente; il linguaggio è ancora verso della voce in quanto condannato a essere imitazione ridicola, caricaturale, fallimentare della voce, e infine è verso nel senso che il linguaggio è la misura, il freno, il limite posto a contenere l’eccesso, l’eccedenza della nostra voce. Questa eccedenza è il marchio dell’altro, rivela la presenza dell’altro nella forma della sua assenza: «Parliamo la voce di chi ci ascolta» (p. 40). E qui Domenico raggiunge certa letteratura mistica, dove il soggetto che parla si riconosce come un soggetto che risponde. Risponde a ciò che gli parla, a qualcosa che egli non conosce e che cionondimeno percepisce come parola. Qui ancora si può cogliere un aspetto essenziale di ciò che i testi mistici chiamavano “anima”: l’anima è il soggetto parlante che nasce in quanto tale nel momento in cui risponde. L’anima è eco d’altro. Scrive Domenico Brancale:
La solitudine è propria dei corpi. L’anima è il punto di fuga. La parte invisibile. Ciò che ci traduce nell’altro – il linguaggio (p. 35).
Se dunque il linguaggio è ciò che impasta l’essere dell’umano così come di ogni altra cosa, dall’inerte al vivente, se attraverso il linguaggio umano si esprimono tutti gli esseri, dalla natura silenziosa agli animali che non possono che emettere un grido, la voce umana raccoglie nel suo vuoto tutto l’esistente. In questa voce, ci sono tuttavia due dimensioni: la voce grezza, giacché una voce designa lo stato della parola prima che sia formulata, e la voce modulata in parola, come se per farsi intendere la voce dovesse «nascondersi» dietro le parole, vestirsi di parole. Nella voce opera allo stesso tempo una cancellazione quanto un edificio (di parole). In questo senso la voce è separazione nel suo fondamento stesso. Essa è ciò che è nascosto dentro la parola, ed è questo nascondimento che fa sì che qualcun altro la intenda. La voce prima della parola è appena udibile: kol demama daka – una voce di silenzio sottile (I Re, 19,12). Essa designa lo stadio più elevato della «voce» divina, al punto che non la si intende. La si intende se coperta di parole. Questa voce assoluta, il principio stesso del mondo, è tuttavia alla fonte di tutte le lingue. Ed è proprio a questa voce assoluta che sembra voler tendere la voce di Domenico Brancale, che osa l’impossibile spogliando la voce delle parole per rendere udibile l’inaudito. Ma come spogliare la voce delle parole? Spogliando le parole della lingua. Scrive Domenico che è necessario destituire la lingua, deporre la parola dalla croce della lingua, affinché risorga, nasca di nuovo per la prima volta e sia così inaudita. È questa la tensione della sua poesia: liberare la parola dalla lingua, renderla ad essa estranea per riconsegnarla a se stessa. Ed ecco le varianti di questa deposizione: deporre il pronome dalla croce dell’io; deporre l’io dalla croce dell’ego; deporre le ambizioni dalla croce della vanità; deporre il corpo dalla croce del sesso; deporre la vita dalla croce del presente; deporre la mano dalla croce della mente (p. 37).
È la deposizione delle nostri più potenti illusioni, che il linguaggio impasta: La saliva impasta tutte le illusioni, ciò che ho creduto verbo al culmine della nuda disperazione (p. 34). Qui, il termine impastare non è metaforico. L’impasto è lo schema fondamentale della materialità. La nozione stessa di materia è strettamente unita alla nozione di impasto. E nell’esperienza degli impasti l’acqua apparirà senz’altro come la materia dominante. Chi crea impasta. A questa altezza mi è ora impossibile non citare un verso del grande poeta con cui Domenico lotta e “s’impasta” da anni, vale a dire Paul Celan che così scrive in Psalm:
Niemand knetet uns wieder aus Erde und Lehm,
niemand bespricht unseren Staub.
Niemand3.Nessuno ci impasta di nuovo da terra e fango,
nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
Nessuno. (trad. it. di Giuseppe Bevilacqua)
Che tu sia lodato, Nessuno! Nessuno è il ritiro della presenza, è il vuoto dell’assente che rende possibile ogni cominciamento! E nel libro di Domenico leggiamo: Chi ti scrive non è io ma una parte di me che si chiama nessuno (p. 61) e altrove: Dentro l’ombra di Nessuno siamo stati qualcuno, una sola voce, la stessa voce. Un nome che annuncia l’aurora (p. 64).
A questo punto possiamo chiederci: in questa lotta tra la lingua e la voce che cosa significa scrivere per Domenico Brancale? Ecco una delle risposte che qui troviamo: Scrivere è il tentativo di tradurre la voce dell’estraneo che è in noi. Scrivere è vivere lo spaesamento, il perturbamento che si prova quando ci si sfiora (p. 34). Ma tradurre, scrive altrove, è accettare l’esilio dentro di noi, una parola allo specchio (p. 56). La lingua lascia intravedere che esiste un resto che le sfugge sempre e che tuttavia essa tenta di raggiungere, un’impossibilità che costituisce la cifra stessa del linguaggio. Contro questa impossibilità si dibatte ogni traduzione, intendendo con essa non solo il trasferimento di un messaggio verbale da una lingua all’altra, ma in senso più esteso come l’interpretazione che costantemente arrischiamo anche con coloro che parlano la nostra stessa lingua, e in fondo anche con noi stessi: come per il teorema di Gödel, una traduzione sarà sempre incompleta, inesatta e con un irriducibile resto. Se accettiamo dunque che le diverse lingue sono il segno che il significato sfugge sempre in parte al linguaggio, allora la scrittura non è che il tentativo senza fine di riconquistare questo resto, questo fuori dal linguaggio senza il quale tuttavia l’arte non avrebbe più posto.
Scrivere è dunque il tentativo di convocare il vuoto, l’assente, la perdita, ma anche quello di afferrare il corpo dell’altro e per esso il proprio corpo, che seppur palpabili restano entrambi inafferrabili. Solo mani che smuovono l’acqua possono scrivere (p. 59). Ricompare l’acqua, in uno dei suoi significati fondamentali: essa rappresenta l’inafferrabile, l’intrattenibile, l’indicibile, la fuga delle ore, la cifra di ogni impossibile: la scrittura è la fatica di Sisifo, condannato in eterno a spingere un masso fino alla sommità di un monte e a vederlo rotolare inesorabilmente a valle, e a ricominciare ogni volta da capo l’inutile impresa. La scrittura scrive dunque il proprio fallimento, ma è questo fallimento che attesta la nostra esistenza. Come scrive Albert Camus ne Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo: «Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». È la felicità del desiderio che Domenico sembra indicare: Scrivere è vedere il tuo corpo (p. 48). Sembra l’enunciazione di un apparente paradosso, un paradosso della visione in cui la scrittura traccia le linee del corpo assente e lo rende visibile, perché la presenza acceca e ammutolisce, è nella parola e per la parola che il desiderio e l’esperienza del corpo si accendono e vivono.
Vorrei ora concludere soffermandomi sugli acquarelli che impreziosiscono questa edizione. A intima distanza dai testi troviamo gli acquarelli di Miquel Barceló, la materializzazione pittorica del Dovunque acqua sia voce. L’acquarello dipinge e lotta con l’acqua, richiede notoriamente un’abilità e capacità di adottare decisioni rapide ed efficaci; gli errori non si possono correggere con la sovrapposizione di altro colore. Proprio dell’acquarello è la trasparenza degli strati di colore molto sottile, e quegli spazi luminosi, ottenuti con il fondo bianco della carta, che è il silenzio del colore, parte integrante di questo tipo di pittura. Negli acquarelli di Barceló il motivo dell’acqua è raddoppiato dal soggetto stesso rappresentato: in copertina vi è l’azzurra sinuosa curva di un corso d’acqua accompagnato da giunchi o forse ciglia di occhi sciolti in lacrime, e ancora la corrente, le onde, la prua di una nave con l’occhio dipinto, i famosi oftalmoi delle antiche navi greche che avevano una funzione apotropaica, ma che qui appaiono come un monito per l’osservatore a non cedere alla tentazione segreta dell’acquarello, che è quella di essere trascinati e vinti dall’acqua, nell’estasi bianca di un’assoluta trasparenza, in cui ogni cosa veduta infine dilegua, perché se niente è più nascosto, niente è più visibile. Come la voce custodisce il segreto dell’inaudito che rende possibile l’ascolto della parola, così l’invisibile scandisce e rende possibile ogni vedere. Spinti a vedere tutto si finisce per non vedere più niente.
(Rossana Lista)
⥀
Ognuno vive dentro una gabbia, prigioniero dei suoi mali. Col passare del tempo può restringersi o allargarsi. Una sera, che non avevo alcuna un’idea, ho messo la gabbia dentro di me. Sono diventato la sua prigione. E me ne sono andato a vivere lontano dalla coscienza.
⥀
Dovunque acqua sia voce
quello che sei a partire dalla riva del corpo
la piena dei silenzi dispersi in fondo alla gola
e grida, grida di pietra
nell’attesa
quando si fa greto il tempo della tua memoria.
⥀
Si dimentica solo ciò che non esiste.
Nelle parole si annida il vissuto.
Fra me e me il tempo delle grate
corre la luce dei giorni senza avvenire.
Nessun inchiostro si scioglie nel sangue
nessuna creatura cresce il suo seme.
L’indimenticabile è nel vivo
rode il cervello
può avere inizio
per essere fuori dall’essere.
Note
1 Ein Buch muß die Axt sein für das gefrorene Meer in uns.
2 Una delle più antiche pratiche funerarie affidava il cadavere alle acque. La morte come viaggio, come navigazione, e l’acqua come il suo elemento. Così sempre quando si vorranno consegnare i vivi alla morte totale, alla morte senza scampo, si abbandoneranno in balia dei flutti.
3 In Die Niemandsrose. Sprachgitter (1959), Fischer, Frankfurt am Main, 2013, p. 26. Il verbo tedesco besprechen, derivato da sprechen, “parlare”, comprende tra i suoi significati, oltre a quello comune di discutere, quello che indica il tentativo di influenzare tramite incantesimi (Zaubersprüche), al fine soprattutto di evocare, placare e guarire. È il verbo che designa esattamente la performatività creatrice e vitale della parola, verbo di cui manca la lingua italiana.
*Per gentile concessione dell’artista, in copertina un particolare di uno degli acquarelli di Miquel Barceló che accompagnano il libro. © Miquel Barceló.